Nord e Sud - anno XX - n. 164-165 - ago.-set. 1973

I NORD E SUD Rivista mensile diretta da Francesco Compagna Girolamo Cotroneo, L)antistoricismo degli anni settanta - Ugo Leone, Petrolio) petrolieri e benzina - Vittorio Barbati, L)Europa nel « bipolarismo positivo » - Carlo Donat Cattin, La priorità del Mez.zogzorno - Margherita Isnardi Parente, Ricordo di Umberto Zanotti-Bianco e scritti di Autori .vari, Andrea Cendali, Michele Cifarelli, Francesco Compagna, Giacomo Corna Pellegrini, Ermanno Corsi, Baldo De Rossi, Luigi Esposito, Mirella Galdenzi Capobianco, Annamaria Gentile, Ernesto Mazzetti, Aldo Perasole, Pasquale Persico, Romano Prodi, Pasquale Saraceno, Federico Tortorelli. ANNO XX - NUOVA SERIE - AGOSTO-SETTEMBRE 1973 - Nn. 164-165 (225-226) EDIZIONI SCIENTIFICHE ITALIANE - NAPOLI BibliotecaGino Bianco

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NORD E SUD Rivista mensile diretta da Francesco Compagna ANNO XX - AGOSTO-SETTEMBRE 1973 - Nn. 164-165 (225-226) DIREZIONE E REDAZIONE: Via Chiatamone, 7 - 80121 Napoli - Telef. 393.347 Amministrazione, Distribuzione e Pubblicità: EDIZIONI SCIENTIFICHE ITALIANE - S.p.A. Via Chiatamone, 7 - 80121 Napoli - Tel. 393.346 Una copia L. 600 - Estero L. 900 - Abbonamenti: Sostenitore L. 20.000 - Italia annuale L. 5.000, semestrale L. 2.700 - Estero annuale L. 6.000, semestrale L. 3.300 - Fascicolo arretrato L. 1.200- Annata arretrata L. 10.000- Èffettuare i versamenti sul C.C.P. 6.19585 Ediz. Scientifiche Italiane - Via Chiatamone 7, Napoli BibliotecaGino Bianco

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SOMMARIO Girolamo Cotroneo Ugo Leone Vittorio Barbati Carlo Donat Cattin Pasquale Saraceno Romano Prodi Baldo De Rossi Francesco Compagna Francesco Compagna Ernesto Mazzettì Editoriale [ 5] L'antistoricismo degli anni settanta [9] Petrolio, petrolieri e benzina [ 19] L'Europa nel « bipolarismo positivo » [27] Cronache meridionaliste La priorità del Mezzogiorno [ 40] Mezzogiorno e inflazione [ 48] Presenza europea nel Mezzogiorno [50] Alcune cose da fare subito per il Sud [54] Napoli da salvare [59] I rischi e le incognite del V siderurgico [62] Il « progetto-pilota » per Napoli [ 66] Cronache parlamentari Michele Cifarelh L'agricoltura di montagna [15] Opinioni e dissensi Autori vari Il nuovo corso di Ru,nor [82] Argomenti Andrea Cendali L'Italia e la dissalazione [91] Città e territorio Aldo Perasole Le aree 1netropolitane [ 109] Federico Tortorelli L'area 1netropolitana e la città di Napoli [ 140] Luigi E-sposi to e Pasquale Persico Annamaria Gentile Industria L'industria manufatturiera in Campania: 1961-.1971 [ 154] La piccola e media industria [167] BibliotecaGino Bianco

Documenti G. Corna Pellegrini Considerazioni geografiche su alcuni fattori di localizzazione dell'industria italiana nel secolo XIX [179] Cronache e memorie Ermanno Corsi Scelba e Saragat al Governo [208] Profili M. Isnardi Parente Ricordo di Umberto Zanotti-Bianco [237] Letteratura Mirella Galdenzi Il Gadda di « Sola ria » r 244 J Capobianco BibliotecaGino Bianco

Editoriale Il 20 agosto e stato pubblicato dal « Giorno » un bellissimo articolo di Carlo Sgorlon, l'autore in lizza per il Premio Campiello con un libro - Il trono di legno (Mondadori) - di cui si dice un gran bene. L'articolo di Sgorlon suona severa condanna di un lassismo di~agante, di di un'« etica del guadagno » che si è imposta e sovrapposta all'.«etica del lavoro », dell'« infinito stuolo dei furbi, dei conformisti e degli scansafatica ». Ai quali, tuttavia, si contrappongono i « cirenei ». Chi sono? Coloro che si nutrono di un forte sentimento del dovere. Quanti sono? È difficile contarli. Ma, « per fortuna», scrive Sgorlon, « la razza dei cirenei, anche se sembra assottigliarsi sempre più, alligna an- , :ora dappertutto ». Inoltre, i cirenei « si riconoscono subito», perché ,< li lega una segreta affinità e una segreta sinipatia, anche se militano in schieramenti avversi ». Fra i cirenei, a titolo di esempio, Sgorlon cita quanti, nelle sale dei Consigli coniunali, o in Parlainento, « resistono fino a ore piccole a sentire l'arido discorso dei bilanci, mentre quelli che non si lasciano mai sfuggire l'occasione per le sparate polemiche e per i dialettici trionfi se ne sono andati da tempo ». Altri esempi, non strettamente politici, vengono alla 1nente: non solo quello ovvio dei cittadini che pagano le tasse, ma quello dei prof essori di università che fanno lezione e seguono scrupolosamente le tesi di laurea, o che, se non possono fare lezione e non po_ssono seguire le tesi, perché deputati o assessori, o troppo ùnpegnati professionalmente, si collocano in aspettativa; e quello dei giornalisti che aspirano ad essere pedanti più ancora e prima ancora che brillanti, e quindi verificano l'attendibilità di ogni informazione, preoccupati di non alterare le notizie per semplificarle o per « fare colpo ». E ancora, sono a loro n1odo cirenei gli operai che non concorrono a far crescere il feno1neno dell'assenteismo e gli imprenditori che non concorrono a far crescere il fenotneno della cosiddetta « disaffezione »; i funzionari che quando è necessario restano · in ufficio fino a tardi e non si sognerebbero mai di rimandare all'indomani una pratica urgente perché la sera è stata indetta un'« assemblea »; i giovani stu.diosi ed i vecchi saggi, i padrt e i figli che si parlano e soprattutto si ascoltano reciproc.amente. E così via, sarebbero tanti g~i esempi da fare per identificare i cirenei. A1a l'ese1npio fra tutti certa1nente il più rilevante è quello che si riferisce _ai « cirenei della politica »; 5 BibliotecaGino Bianco

Editoriale e ad essi Sgorlon accenna sobriamente non solo quando cita i pazienti e tenaci ascoltatori delle discussioni sui bilanci, ma anche e soprattutto quando fa un solo nome per tutti: Ugo La Malfa. Se noi dovessimo dire cosa abbiamo cercato di essere, e cosa aspiriamo ad essere, diremmo, appunto, che abbiamo cercato e cerchiamo di fare, per la nostra parte, i cirenei. Non sappiamo se riuscire:rno a diventare, o a mantenerci, tali; ma i 226 fascicoli di « Nord e Sud» che possiamo contemplare allineati nello scaffale ci consentono di ripercorrere con la memoria il ca1nmino che fra molte difficoltà abbiamo percorso; e ripercorrendo a ritroso questo cammino ci possiamo rendere conto _cheanzitutto siamo stati in regola con la nostra vocazione anticonformista: non solo quando ci siamo caratterizzati per la nostra denuncia del conformismo di destra, ,ma anche, più recentemente, quando abbiamo severamente condannato il conformismo di sinistra. Il che è stato più difficile, di_ quanto non lo fosse denunciare il conformismo di destra: perché siamo di sinistra. Ed è stato anche più penoso, perché siamo stati costretti a separarci da giovani, in buona fede o in mala fede, nei quali avevamo riposto qualche fiducia e dai quali ci attendevamo più credito di quanto non siano stati disposti a concederci. Ma altri giovani hanno fatto credito alla nostra esperienza, e alla· nostra vocazione di cirenei; e questo ci ha ripagato. Anche grazie a questi ultimi, potremrno dire che « Nord e Sud» vanta una continuità anticonformista dai tempi della nostra campagna di denuncia contro il malgoverno di destra ai tempi delta sua critica culturale e 'politica alla cosiddetta contestazione: all'infantilismo, al conformismo, al settarismo, al populismo, al sociologismo, al corporativismo che hanno formato la miscela di un sinistrismo le cui conseguenze non potevano non consistere, in ultima analisi, nell'indebolirnento politico, e anche elettorale, della sinistra. Qui però cade opportuna la considerazione che emerge da recentissime vicende e che autorizza a sperare. nel meglio: la sinistra, indebolita dal sinistrismo, ha raccolto tuttavia le sue residue forze per affrontare un esame di coscienza; e non sembra oggi più corriva a lenocini nei confronti del sinistrismo. È quanto ci auguravamo quando, già all'indomani del maggio francese, e poi durante i mesi e gli anni successivi, abbiamo ammonito la sinistra italiana a non farsi rimorchiare dal sinistrismo e abbia1no manifestato le nostre preoccupazioni per la stabilità politica e per l'equilibrio democratico, compromessi, l'una e l'altro, dal conformismo di uomini e ambienti della sinistra nei confronti del sinistrismo. D'altra parte, scavalcato dai cinesi, scomunicato dai comunisti, sconfessato dai sindacati, contato dagli elettori, il sinistrismo è in declino; 6 ' BibliotecaGino Bianco·

Editoriale e fortunatamente questo declino è cominciato prima che il contraccolpo a destra diventasse irrimediabile e prima c!te la sinistra perdesse anche le residue forze che le hanno consentito di intraprendere un salutare discorso sui propri « errori di massimalismo ». Merito anche dei cirenei che vollero le elezioni anticipate! Ora, però, la sinistra de1nocratica deve farsi carico anche dell'esigenza di salvare i naufraghi della contestazione. Perché ve ne sono che ingenuamente hanno creduto di essere dalla parte dell'ideale. Noi, per essere coerenti con la nostra vocazione di cirenei, abbiamo dovuto essere duri con loro, non concedere neanche il beneficio della buona fede; ma se potessimo dare una mano per il recupero alla sinistra democratica dei naufraghi del sinistrismo, dell'estremismo, della contestazione, la nostra aspirazione al ruolo e al rango dei cirenei sarebbe più soddisfatta di quanto già non lo sia per aver contribuito a liberare la sinistra democratica dalle lusinghe del sinistrismo. Comunque sia, nel quadro di una possibile ed auspicabile ripresa del riformismo e di una non meno possibile e non meno auspicabile riconsiderazione degli ideali e dei programnzi della sinistra de1nocratica, ci proponiamo di continuare ad ispirarci al modello che Sgorlon ci ha suggerito e che noi avevamo, da prima che ci venisse suggerito, già adottato come regola di un facile comportamento: il modello dei « cirenei della politica », appunto. E se ci troviamo, come oggi ci capita, più vicini di quanto mai lo sian10 stati alla sfera delle decisioni, da un lato potremo avvalerci di un patrimonio di idee faticosamente accu1nulate e diligentemente selezionate, ma dall'altro - lo diciamo subito a noi stessi, prima che altri ce lo ricordino, più o meno n1aliziosamente - dovremo badare a mantenere, senza che subisca alterazioni, la linea il cui primo tratto non a caso fu tracciato proprio da Ugo La Malfa: nell'articolo che, nel dicembre del 1954, apriva il primo dei 226 fascicoli di « Nord e Sud» e si intitolava: « Mezzogiorno nell'Occidente ». Il numero che ora va in macchina ha come sua sola giustificazione le vacanze dei redattori. Perché, anche se aspirano a farsi cirenei, i redattori di « Nord e Sud», tutti volontari, n1ai retribuiti, si concedono una vacanza quando si ferrnano gli impegni universitari. E il numero doppio si presta a raccogliere una volta all'anno u_napiù ampia e significativa documentazione intorno al dibattito meridionalistico: tanto più significativa quest'anno, subito dopo il ritorno alla coalizione di centro-sinistra, dopo il « discorso sugli errori», prima di decisioni che dovrebbero essere importanti e subito prima dell'annuale incontro alla Fiera del Levante che il prossimo 10 settembre dovrebbe assumere una rilevanza politica anche maggiore di quanto non lo sia stata n_egli anni passati. Ci sono 7 BibliotecaGino Bianco

Editoriale· testi che si disperdono su diversi giornali e che _tuttavia conviene mettere a disposizione, riuniti coine in questo numero doppio, di un lettore come il nostro che voglia essere aggiornato e « fare il punto ». Dopo questo numero doppio, noi cercheremo di programmare una serie di contributi saggistici alla inzpostazione e magari alla soluzione di problemi che hanno sempre costituito per « Nord e Sud » i più impegnativi banchi di prova: i problenzi della politica meridionalista e della politica europeista (Renato Giordano), i problemi delle « garanzie della libertà» (Vittorio de Caprariis) ed in particolare i proble1ni della libera stampa (Nello Ajello e Cesare Mannucci), i problemi dei rapporti fra politica e cultura (ancora de Caprariis, Giuseppe Ciranna, Giuseppe Calasso e ora Girolamo Cotroneo) e i problemi dei rapporti fra città e campagna (la scuola geografica di « Nord e Sud», con Muscarà e Mazzetti, Rao, Leone, Talia e altri). C'è molto di nuovo da dire a proposito di questi problemi; ~ noi cercherevno cirenei che siano in grado di pensare - più ancora che di ricercare, conie oggi fastidiosamente tutti dicono - quali potrebbero essere apporti originali alla impostazione e, meglio ancora, alla soluzione di problemi che sono diventati più complessi di quanto non lo fossero quando abbiamo cominciato a trattarne su que-· ste pagine. · Nessuna considerazione per quanto riguarda la nostra linea politica: centro-sinistra meridionalistico ed europeistico, sinistra non clas'sista di derivazione risorgimentale, coscienza dei valori_ laici interpretati a suo tempo dalla destra storica, riformismo salven1iniano e revisionismo liberale di matrice crociana: sono i nostri non niutevoli e non rnutabili punti di riferimento. Un'ultirna considerazione, invece, per quanto riguarda la nostra linea culturale, tanto intrecciata alla nos'tra linea politica: sta tramontando il periodo della « feltrinellizzazione » e la cultura italiana potrebbe recuperare valori che con l'ondata dannunziana di sinistra sono andati smarriti. Mentre batteva questa ondata, noi siamo rimasti aggrappati ai nostri scogli: Croce, Oniodeo, Fortunato, Salve,nini, Giovanni Amendola, Zanotti Bianco.· Non ci siamo lasciati coinvolgere, e meno che mai travolgere, dalla « sbornia sociologica ». Ora dovremo fare del nostro meglio per contribuire a creare le condizioni di un effettivo ed efficace recupero della continuità culturale dell'Italia moderna che in questi anni di protervo antistoricisnzo è stata compromessa. Anche perciò questo numero doppio si apre con un articolo sull'antistoricismo degli anni 70 e ospita un articolo della figlia di I snardi che ricorda Zanotti Bianco; e ad ulteriore testimonianza del nostro impegno per la continuità culturale dell'Italia moderna, pubblicherenzo nel prossin10 numero un ricordo di Salvemini meridionalista nel centenario della sua nascita. 8 BibliotecaGino Bianco

L'antistoricismo degli • anni settanta di Girolamo Cotroneo A Oxford, nel settembre del 1930, Benedetto Croce leggeva al VII Congresso Internazionale di Filosofia una comunicazione, con la quale indicava in maniera, come era suo costume, altamente sintetica, una tendenza fondamentale del pensiero europeo moderno, cioè l'antistoricismo. Più che una comunica~i0ne teoretica, quello di Croce era un segnale di allarme: l'invo,_uzione culturale che aveva fatto seguito alla prin1.a guerra mondiale si a11dava ormai rapidamente tramutando in involuzione politica. L'Italia ne aveva già fatto le spese; e la Germania, centro propulsore della cultura europea nel secolo precedente, si apprestava a farle. In quell'occasione, Croce non era il profeta che annunciava all'Europa future sciagure, ma lo storico che diagnosticava stilla base di dati di fatto, istituendo un impressionante parallelismo fra le vicende culturali e quelle politiche degli anni allora in corso. Gli argomenti portati da Croce si articolavano su pochi punti essenziali, sostenuti dalla convinzione di fondo che lo storicismo ottocentesco aveva rappresentato il momento in cui lo spirito europeo aveva raggiunta la consapevolezza, la coscienza della libertà, superando l'astratta formulazione di essa fornita dal secolo dei lumi (che pure, con Rousseau, come riconosceva l'ultimo Hegel, l'aveva per la prima volta portata alla luce). La saldatura fra ragione storica e libertà costituiva dunque per Croce il legato più importante che la cultura dell'Ottocento aveva affidato alla posterHà intellettuale di tutta Europa: l'abbandono di tale tendenza non poteva perciò non avere per effetto la formazione di regimi antiliberali, quali quelli che si andavano allora affermando, e che si fondavano, diceva Croce, su di un antistoricismo che « è tutto sfrenatezza di egoismo o durezza di comando, e par che celebri un'orgia o un culto satanico ». A meno di dieci anni di distanza. dalle parole di Croce, l'Europa tutta avrebbe cominciato a pagare con il proprio sangue le conseguenze di quel « culto satanico », al cui avvento veniva generoso contributo « non da parte di privilegiati né di plebi, o non solo da questa parte, ma da -quella d'intellettuali, procreati dalla libertà, e che non si ·accorgono di negare con essa sé medesimi». Il bersaglio di Croce è qui evidente: es.so era costituito dagli 9 BibliotecaGino Bianco

Girolamo Cotroneo pseudofilosofi del tipo di Oswald Spengler, -dagli epigoni di Nietzesche, dai futuristi italiani e francesi, dagli infedeli interpreti di Bergson, dalla metafisica heideggeriana, il cui autore sarebbe stato, di lì a pochi anni, l'unico fra i grandi pensatori tedeschi a tacere di fronte al nazismo, autori e tendenze che egli in quell'occasione - tranne che per un breve riferimento ai futuristi - non nominò mai (sarebbe stato poi Carlo Antoni, nell'anno successivo a delineare in un breve, quanto efficace, saggio, dal titolo Storicismo e antistoricismo, il profilo di certe cupe tendenze della filosofia europea a lui contemporanea), ma che qualsiasi accorto lettore è oggi - e forse lo era già da allora - in grado di identificare. La presenza di questo filone irrazionalistico e attivistico nel seno della cultura europea costituiva, quindi, per Croce motivo di non piccola preoccupazione per le sorti della vita politica e monde del tempo, essendo per lui il sentimento antistorico strettamente connesso al sentimento antiliberale: l'avvenire di un'Europa dominata da quelle oscure metafisiche, gli appariva dunque segnato dalla progressiva decadenza degli ideali di libertà che la ragione storica aveva fondato e che· essa soltanto poteva ancora garantire. I motivi di questo convincimento, della certezza che solo lo storicismo fosse garanzia di libertà, sono fin troppo noti: nel discorso oxfordiano Croce li riassumeva sinteticamente, riassumendo con essi tutti i motivi della sua filosofia politica, fondata sul principio che la libertà nasca dalla storia: e si sviluppi con essa. Questo principio, infatti, permette di rifiutare « l'imposizione dall'alto del ritmo della vita», la convinzione che « la regola [ ...], invece di essere creata dall'uom.o come suo strumento, debba essa creare l'uomo», cioè quell'astratto formalismo che è il fondamento di tutte le tirannie. Inoltre, con la ragione storica possono essere respinte le lusinghe di quelle filosofie che idoleggiano « un futuro senza passato », quanto le seduzioni delle ideologie reazionarie che rappresentano « la più flagrante negazione della storia, la quale, per la sua stessa logica, esclude le restaurazioni ». Così, lo storicismo, ponendosi come mediazione di queste due opposte tendenze, che hanno in comune il medesimo carattere illiberale, rappresenta la più sicura garanzia della libertà: quindi, concludeva Croce, esso rappresenta la civiltà e la cultura, « il valore che ci è stato confidato e che abbiamo il dovere di difendere, tener forte ed ampliare »; esso rappresenta il « nodo del passato con l'avvenire », la « garanzia di serietà del nuovo che sorge »; e pur essendo « blasfemato corne la libertà [ ...] , come la libertà ha sempre ragione di chi gli si rivolge contro ». 10 BibliotecaGino Bianco

L'antistoricismo degli anni settanta Questo discorso, come si diceva, è del 1930: sono quindi passati più di quarant'anni da quando fu pronunziato per la prima volta, ma non si può certo dire che sia invecchiato. Se l'avvenire politico dell'Europa è nuovamente minacciato, se oscure forze premono per schiacciare quella libertà duramente pagata; se ideologie reazionarie maturano nell'ombra, 1nentre lo pseudo progressismo neogiacobino o neofuturista respinge, irridendolo, tutto il passato, promettendo (o minacciando) l'ultima apocalisse dalla quale uscirà il secondo Adamo, l'uomo nuovo; se tutto ciò vediamo ogni giorno sotto i nostri occhi, non sarà forse per una semplice coincidenza se esso avviene mentre la cultura europea si va sempre più decisamente orientando in chiave antistoricistica. La prova di questo non intendiamo neppure fornirla noi: essa ci viene da una fonte che, da un certo punto di vista, potremmo definire insospettabile, cioè da Jean-Paul Sartre. Già nel 1966, intervistato in occasione della pubblicazione di un fascicolo speciale, interamente dedicato a lui, della rivista L'Arc, il filosofo francese, commentando le nuove tendenze culturali in atto, rilevava come queste ultime avessero per meta quella di dimostrare « l'impossibilité d'une riflexion historique », contribuendo efficacemente « au discrédit actuel de l'histoire »: e concludeva che nell'attuale momento della filosofia contemporanea « il s'agit toujours de· penser pour ou contre l'histoire », collocandosi ovviamente dalla parte di coloro che credono ancora in essa. Non vogliamo naturalmente entrare qui nel merito del discorso di Sartre, né discutere la sua affermazione, del resto abbastanza peregrina, secondo la quale « derrière l'histoire [ ...] c' est le marxisme qui est visé », poiché il pensiero borghese, impossibilitato a « dépasser >~ il marxismo, mirerebbe a sopprimerlo attraverso l'antistoricismo; né, tanto meno, vogliamo paragonare la rivendicazione da lui fatta del proprio « historicismo », contro certe tendenze della filosofia contemporanea, a quella che Croce faceva nel 1930: vogliamo sol':' tanto prendere atto di una denunzia che l'autorevolezza della fonte da cui proviene non consente di revocare facilmente in dubbio e che conferma come ancora una volta la crisi politica dell'Europa occidentale sia accompagnata dal risorgere nel seno della sua cultura di nuove forme di antistoricismo. Se nel discorso di Croce i teorici dell'antistoricismo dei primi decenni del secolo non erano mai direttamente nominati, in quello di Sartre essi invece. sono indicati con il loro nome: primo fra tutti quel Miche! Foucault, il quale aveva allora pubblicato da poco il suo opus majus, cioè Les mots et les choses che, attra11 Bib.lioteca Gino Bianco

Girola1no Cotroneo verso la celeberrima teoria della « morte• dell'uomo », costituisce, si potrebbe dire, il manifesto dell'antistoricismo contemporaneo, il quale, secondo il commento di Sartre, rifiutando la dialettica storica che è la sola a consentire di comprendere come gli uomini passino da una situazione a un'altra, da un pensiero a un altro, « remplace le cinéma par la lanterne magique, le mouvement par une succession d'immobilités ». Accanto a Foucault - il quale adesso, non si capisce bene su quali comunanze di interesse e vedute, dirige assieme a Sartre il nuovo quotidiano parigino « Libération » - Sartre indicava come portatore del nuovo antistoridsmo Claude Lévi-Strauss, la cui prospettiva culturale antidialettica, riducendo la storia a « un phénomène purement passif », non riuscirebbe a cogliere la parte, assolutamente determinante e decisiva, che gli uomini hanno nella costituzione delle strutture di parentela e sociali. (Vale la pena, a questo proposito, ricordare che Lévi-Strauss ha rivendicato, contro Foucault, la paternità del concetto di « morte dell'uomo », dal momento che sarebbe stato lui - ha detto - il primo a affermare che « il fine delle scienze umane non è quello di costituire l'uomo, ma di dissolverlo », rivendicando quindi il diritto di primogenitura al suo antistoricismo. Quali poi possano essere le conseguenze di questo antiumanesimo avremo modo di vederlo in seguito). La polemica fra Sartre e Lévi-Strauss (il quale ne Il pensiero selvaggio, in risposta alla Critique sartriaria ha definito semplice « mito » la concezione della storia di Sartre, aggiungendo di suo che « basta che la storia si allontani da noi nella durata, o che noi ci si allontani da essa con il pensiero, perché essa non sia più interiorizzabile e perda la sua intelligibilità »: affermazione quest'ultima alquanto peregrina, tipica di un antistoricismo di maniera, al quale appaiono del tutto ignoti concetti come I'Erlebnis di Dilthey o la « contemporaneità » di Croce), questa polemica, diceva1no, sviluppatasi nello scorso decennio - prima ancora della comparsa sulla scena culturale dell'antistoricismo di Foucault e di quello, di cui fra poco diremo, di Althusser - rappresenta il momento in cui l'antistoricisn10 contemporaneo, divenuto adulto, rivendica i propri diritti, avviandosi anche a contaminare quella filosofia marxista che fino ad al1ora dello storicismo si considerava come la versione più corretta. Nella sua intervista Sartre non mancava di rilevarlo: arrivava anzi a dire che privilegiando le « strutture » nei confronti dell'uomo e della storia, Louis Althusser, il primo teorico dello strutturalismo marxiano, oggettivamen~e favoriva l'antistoricismo bor12 BibliotecaGino Bianco

L'antistoricismo degli anni settanta ghese che infatti plaudiva l'impresa da lui compiuta. Non è certo nelle nostre intenzioni discutere intorno alla validità delle ricerche di Althusser: ma è certo che teorizzando un marxismo antiumanista e cercando di trasformarlo in « scienza », egli, come ha notato Raymond Aron, ha cercato di restaurare un « integralismo » marxiano, dopo e nonostante « la destalinizzazione e la relativa riuscita del neocapitalismo ». Quanto fosse maldestro questo tentativo lo ha appunto largamente dimostrato Aron nel suo Marxismi immaginari: a noi interessa soltanto rilevare come lo sforzo di Althusser (stigmatizzato da Sartre - e in Italia anche da un vecchio marxista di formazione hegeliana come Galvano della Volpe) consista nel dimostrare come nel Marx del Capitale si sarebbero affacciati, a livello teorico, una sorta di antiumanismo e di antistoricismo; in quell'opera la scienza avrebbe preso il posto della storia e soprattutto del momento esistenziale di essa, quale invece appariva nel Marx dei Manoscritti. Così la polemica antistoricista, fino ad allora, sempre secondo Sartre, privilegio dello strutturalismo borghese e delle scienze umane, avrebbe finito con il coinvolgere anche il marxismo, dal momento che, alla maniera di Foucault, anche Althusser « s'en tient à l'analyse des structures », senza individuare Ja « contradiction permanente entre la structure pratico-inerte et l'homme qui se découvre conditionnée par elle ». La preoccupazione di Sartre è facilmente comprensibile: essendosi assunto il compito di « sdogmatizzare » il marxismo, non poteva vedere con simpatia un tentativo, quale quello althusseriano, di riproporre un « integralismo » con pretese di scientificità. Perché in effetto, i correttivi ·necessari alla dottrina marxiana possono darsi soltanto attraverso un'interpretazione storicistica di essa e non già attraverso una radicalizzazione scientifica (o pseudoscientifica) che pensi di analizzare il processo sociale come un rapporto meccanico di elementi generantisi gli uni dagli altri e dove l'ordine che si manifesta e circoscrive i contenuti si articolerebbe attraverso una serie di combinazioni e di permute il cui sviluppo sarebbe del tutto spontaneo (cioè privo di qualsiasi componente esistenziale, storica nel senso comune del termine). Un marxismo privo della sua componente storicistica costituirebbe quindi per Sartre (e non solo· per Sartre) l'ultima delle tante forni.e dommatiche da esso assunte nel corso della sua storia: dommatismo. e antistoricismo costituirebbero quindi le due facce di una medesima medaglia. Se le parole dette da Sartre nel 1966 hanno un valore, con13 BibliotecaGino Bianco

Girolamo Cotroneo siste soprattutto nel fatto che egli ha fra i ·primi indicato la massiccia presenza di una tendenza antistoricistica nel seno della cultura europea contemporanea: e da questo punto di vista esse possono essere anche accostate al discorso crociano del 1930, di cui sopra abbiamo detto. Ma con una fondamentale differenza: che mentre Croce vedeva nel diffondersi dell'antistoricismo una grave minaccia alle libertà politiche, tale preoccupazione non traspare minimamente dalle parole pronunciate da Sartre. Può darsi che, visti i suoi presupposti filosofici e la discutibilissima concezione della storia da lui proposta nella Critica della ragione dialettica, Sartre non riesce affatto a vedere questo nesso; oppure potrebbe darsi che il problema della libertà non sia affatto uno di quelli che gli stanno particolarmente a cuore (non a caso, Raymond Aron con feroce, ma non ingiustificato sarcasmo, ha scritto di Sartre che « avrebbe fatto piacere che questo filosofo della libertà avesse denunciato il culto della personalità prima di Kruscev »). Ma non è questo il nostro problema: se abbiamo chiamato in causa Sartre, è stato soltanto perché ci è sembrato degno di nota che proprio lui - il quale nonostante rivendichi contro Foucault, Althusser e Lévi-Strauss l' « historicisme » di cui si ritiene portatore, non è affatto uno storicista, almeno nel senso che noi diamo a questo aggettivo - abbia alzato la voce per denunziare l'antistoricismo francese contemporaneo. Per il resto, tutto ciò che egli ha detto a questo proposito non è, ai fini del nostro discorso, particolarmente importante. Comunque sia, è a questo punto chiaro che la cultura europea abbia subito, durante l'ultimo periodo storico, una netta inversione di tendenza; e che le proposte culturali più ascoltate e diffuse del recente passato e del presente sono quelle a orientamento decisamente antistoricistico. Infatti oltre quelli di Foucault, di Althusser e di Lévi-Strauss - ai quali, sempre nell'ambito della cultura francese si potrebbe ancora aggiungere quell'illeggibile psicologo che è Lacan, altro teorico dell'antiumanesimo - l'antistoricismo contemporaneo comprende altri nomi assai noti, la cui incidenza sul pensiero e sulla prassi politica europei non si può dire sia di poco conto. A parte, infatti, tutte le tendenze scientiste, tutto il neo positivismo logico, antistoricisti per natura e per posizione, tuttavia poco incidenti sulla realtà politica, anche se spesso indicati come supporto del conservatorismo o del dominio tecnologico, a parte queste tendenze, dicevamo, non è forse una forma di antistoricismo quella proposta da filosofi come Hqrkheimer e Adorno, le cui dot14 BibliotecaGino Bianco

L'antistoricismo degli anni settanta trine, anche se elaborate da alcuni decenni, soltanto adesso sono diventate il vessillo di un certo tipo di contestazione della società borghese? Non sono antistoriciste le conclusioni che un vecchio hegeliano come Herbert Marcuse ha proposto nelle sue opere più note? Quando nella Dialettica dell'illuminismo Horkheimer e Adorno vedono nel progressivo espandersi della ragione umana un puro e semplice succedersi di mitologie, mentre lo sforzo per liberarsi da queste finisce con il condurre, vista la sua inutilità, alla diffidenza anche nei confronti dei concetti e dei pensieri intorno alla realtà; quando scrivono che « gli uomini avevano dovuto sempre scegliere fra la loro sottomissione alla natura e quella della natura al soggetto » e che « con l'espandersi dell'economia mercantile borghese l'oscuro orizzonte del mito è rischiarato dal sole della ratio calcolante, ai cui gelidi raggi matura la messe della nuova barbarie »; quando ancora sostengono che « dal momento in cui l'uomo si recide la coscienza di se stesso come natµra, tutti i fini per cui si conserva la vita, il progresso sociale, l'incremento di tutte le forze materiali e intellettuali, e fin la coscienza stessa, perdono ogni valore, e l'insediamento del mezzo a scopo, che assume, nel tardo capitalismo, i tratti della follia aperta, si può già scorgere nella preistoria della soggettività »; quando dicono tutto questo, quando credono che quello che lo storicismo ritiene essere il progredire della ragione, non sia invece altro che l'autoformalizzazione di essa, la rinuncia a dare significato alle cose per volgersi alla semplice descrizione formalistica e astratta, dimostrano con assoluta chiarezza di avere dimenticato, per amore della loro pessimistica e disperata visione del mondo (formulata sotto la tragica suggestione della barbarie nazista considerata come ipostasi di tutta la civiltà occidentale), dimostrano di avere dimenticato, dicevamo, la destinazione hegeliana fra Vernunf t e Verstand, la quale aveva consentito allo storicismo moderno di collocare nelle rispettive sfere di competenza e di azione l'attività scientifica formalizzatrice e il « comprendere» storico. Ne viene come conseguenza primaria che la critica della società tecnologica da essi prospettatà, finisce con l'essere, lo si voglia o non, una critica di tipo tardo-romantico e quindi reazionaria. Horkheimer scriveva nel 1944 che « al culmine del processo di razionalizzazione, la ragione è diventata irrazionale e stupida », escludendo quindi qualsiasi· possibilità di riscatto e di ripresa dopo la caduta negli abissi degli anni Trenta e Quaranta. Herbert Marcuse, verso la fine dello scorso decennio, travolto pure lui dal 15 Biblioteca Gino Bianco

Girolamo Cotroneo vortice antistoricista aperto dalla scuola. di Francoforte, si attestava su posizioni premarxiane e prehegeliane, intendendo il lavoro come attività ludica (riprendendo quindi il vecchio tema reazionario di Huizinga), rinchiudendosi in una visione del mondo seminaturalistica e estetizzante, che in alcune pagine è giunta a sfiorare, o addirittura a raggiungere, una sorta di neo-luddismo. Così, come prima si diceva, la critica della società tecnologica, pur fondatissima sotto mille aspetti, veniva a essere svuotata di contenuto, proprio perché impostata dal punto di vista meno idoneo: cioè non attraverso la considerazione, di tipo storicistico, che le «macchine» in sé non sono né buone né cattive, e che tutto sta nell'uso che l'uomo, la « ragione » dell'uomo, sa farne, bensì sulla convinzione che i prodotti dell'intelletto astratto e formalizzante condizionassero la ragione storica in maniera tale che questa non avesse ormai più la forza e la capacità di dominarle; per cui Marcuse, invece di richiamarsi al famoso motto del Parsifal, da lui stesso ricordato in Ragione e rivoluzione ( « La mano che infligge la ferita è anche la mano che la guarisce »), ha finito con il convincersi (e, quel che è ·peggio, a convincere gli altri) che soltanto attraverso un rifiuto totale (il tristemente famoso « Grande Rifiuto», di cui L'uo1110 ad una dimensione è stato il vangelo), attraverso un salto (all'indietro) di qualità, l'uomo poteva ormai recuperare la propria dimensione originaria. Ma esiste davvero, e qual è, la dimensione originaria dell'uomo? Lo storicismo moderno e contemporaneo aveva insegnato che l'uomo non ha una « natura » ma una « storia » (o meglio:_ che attraverso la storia « supera » la natura, considerata, dopo Hobbes e Vico, come ferinità, ferocia, violenza); che questa storia è storia della libertà, è lo sforzo che l'uomo ha compiuto e compie per superare l'egoismo individuale, la volontà origina.ria di sopraffazione e di dominio. L'antistoricismo contemporaneo, invece, forse perché deluso dei risultati di questa lotta che non si è conclusa con la definitiva vittoria della ragione illuminata, come ha largamente dimostrato il nostro tempo che ha visto e vede paurosi ritorni alla barbarie (coincidenti però quasi sempre con l'abbandono della ragione storica, la quale, nelle sue vesti post-hegeliane, non ha mai garantito il raggiungimento della razionalità « assoluta», ma ha sempre dichiarato possibili i ritorni di barbarie, data l'ambivalente natura dell'uomo), l'antistoricismo contemporaneo, dicevamo, ha riproposto, fra gli altri, il problema del recupero della natura dell'uomo. Abbiamo prima sentito Adorno e Horkheimer parlare di un 16 BibliotecaGino Bianco

L'antistoricismo degli anni settanta uomo che avrebbe ormai reciso « la coscienza di se stesso come natura»: tema questo, comune all'antistoricismo odierno e non tipico della scuola dei sociologi di Francoforte o di certi teorici delle scienze umane. Un altro filosofo tedesco contemporaneo, infatti, la cui voce, anche se non eclatante e tonante come quella della triade Adorno - Horkheimer - Marcuse, non è tuttavia tanto sommessa da non avere incidenze di rilievo, un filosofo contemporaneo, dicevamo, Karl Lowith, ha scritto che la storia non ha « mai insegnato all'uomo a diventare altro e a mutarsi», ché anzi lo ha rivelato sempre identico a se stesso sia nel bene che nel male; che l'uomo stesso, per la presunzione che lo caratterizza, « ha dissolto l'unico mondo fisico in una pluralità di mondi storici» e la sua natura sempre identica « in una molteplicità di forme di esistenza storica»; che se è vero che l'uomo « si trova inevitabilmente entro la storia ed ha una storia, pure non vive di questa, non è la storia stessa e di conseguenza la storia e l'uomo non vengono mai ad identificarsi », restando anzi fra di essi una frattura profonda che potrebbe essere ricomposta soltanto ove l'uomo cessasse di considerare se stesso come centro di tutto il creato. Del resto, conclude Lowith, questa considerazione della centralità dell'uomo sarebbe soltanto « un'affermazione del passato più recente » ( da Vico, quindi, in poi) e che potrebbe tranquillamente essere cancellata, non essendo un attributo determinante per un soggetto il quale per secoli e secoli aveva comunque vissuto senza attribuirsi questa prerogativa di centralità. L'aspetto singolare di queste affermazioni sta, soprattutto nella coincidenza che presentano con le tesi di un Lévi-Strauss o di un Foucault sulla cosiddetta « morte dell'uomo»; il che dimostra come il tema costante dell'antistoricismo di questi ultimi anni sia appunto l'antiumanesimo (almeno a livello teorico, se non addirittura, o non ancora, pratico). Ma proprio questa comunanza di temi, questa insistenza sull' antiumanesimo (poco importa se a favore delle « strutture » alla maniera di Althusser, Foucault o Lévi-Strauss, o della « natura » alla maniera di Lowith e in certa misura anche di Marcuse e dei suoi predecessori francortesi), ci. fa intendere l'insidia che l'antistoricismo di oggi contiene. Che cosa vuol dire, infatti, almeno nelle teorie filosofiche dell'antistoricismo contemporaneo, antiumanesimo teorico? Esso vorrebbe significare la .fine del privilegio concesso alla ragione umana, l'umiliazione di essa a vantaggio di entità metafisiche o pseudometafisiche come le « strutture » o la « natura »; l'uomo sarebbe quindi una parte di un quid che lo trascende, in .rapporto passivo con 17 BibliotecaGino Bianco

Girolamo Cotroneo esso (e ciò costituisce un passo indiet:ro anche di fronte alla metafisica classica, dove il Dio trascendente si collegava direttamente alla storia dell'uomo attraverso l'intervento provvidenziale). La conseguenza più rilevante di questo modo di pensare, di questa umiliazione inflitta alla ragione, è fin troppo evidente: ciò che infatti viene radicalmente negato è, in ogni caso, il concetto di libertà, quella libertà che soltanto la ragione storica era riuscita veramente a fondare. Perché ciò che rende l'uomo «umano» nei confronti di se stesso e degli altri, non è la sua «naturalità» bensì la sua «razionalità»: la cosiddetta libertà «naturale», alla quale si richiamano gli antistoricisti di ogni tendenza, è invece - come aveva insegnato già Hegel nella sua polemica nei confronti di Rousseau - l'autentica mancanza di libertà: prima di tutto, perché non vi è libertà senza la consapevolezza della libertà; inoltre, perché tutto ciò che è istintivo, naturale, mancando di finalizzazione a lunga scadenza, è inevitabilmente egoistico e, quindi, prevaricatorio, violento. Come allora non definire reazionarie delle filosofie che tendono P. escludere proprio quella « ragione » che nel suo farsi storico ha combattuto e combatte proprio contro tutto ciò che la «natura» pone come limiti all'azione di lei? Che la libertà possa sussistere senza l'ausilio dei prodotti della ragione, ma possa essere garantita dalla « libera » esplicazione della natura umana, è un argomento che può nascere (o rinascere) soltanto nel contesto di filosofi.e che non si pongono certo come dottrine della libertà, ma come oscure metafisiche, impegnate a distruggere ciò che la ragione storica ha finora costruito, a rimettere in discussione, parlando di non si sa quali libertà future, la pur precaria libertà del presente. Sarà, lo abbiamo detto prima, forse soltanto una coincidenza: ma la crisi della società occidentale, esplosa dopo i lunghi e faticosi anni del dopoguerra, quando si cominciava a sperare che la ragione avesse finalmente sconfitto i «mostri», una crisi che rimette in discussione quei concetti di libertà e di democrazia pagati a così caro prezzo, che intende radicalmente distruggere le istituzioni democratiche, nasce in singolare coincidenza con il diffondersi di quelle filosofi.e antistoricistiche che sopra ab biamo richia--· mato. Sono filosofie povere, le cui idee ci appaiono del tutto incapaci di trasformarsi in ideali: tuttavia esse corrodono la ra1 gione e la fanno disperare di sé. Essa potrà vincere soltanto se non si lascerà intimidire dalla cronaca, ma punterà tutto, ancora una volta, sulla forza della storia. GIROLAMO COTRONEO 18 BibliotecaGino Bianco

Petrolio, petrolieri e benzina di Ugo Leone Ci siamo più volte occupati di petrolio e di raffinazione su questa .rivista. Ma ora le polemiche sui razionamenti della benzina e sul ventilato aumento del suo prezzo, la « crisi energetica» che investe tutto il mondo e l'Italia con esso, ripropongono il problema in termini, se possibile, ancora più gravi che in passato. Qualche dato per introdurre l'argomento. L'Italia, è noto, è un paese privo di proprio petrolio dal momento che ne estrae dal suo sottosuolo meno di due milioni di tonnellate l'anno: in tutto il mondo le riserve di petrolio attualmente conosciute ammontano a 91 miliardi di tonnellate. Il fabbisogno di petrolio per il consumo interno (benzina, olio combustibile, distillati intermedi) si aggira sui 90 milioni di tonnellate annue. Per far fronte a questo fabbisogno l'Italia deve naturalmente importare petrolio. E infatti lo importa greggio e ne .raffina 120 milioni di tonnellate all'anno ponendosi per questa attività non solo al primo posto in Europa, ma addirittura al terzo nel mondo dopo gli Stati Uniti (571 milioni di tonnellate) e il Giappone (162). Come si vede immediatamente, l'Italia raffina molto più petrolio di quanto gliene serva:. quello che resta, oltre 30 milioni di tonnellate, lo esporta. Per raffinare tanto petrolio l'Italia dispone di 37 grandi impianti di raffinazione (tralasciamo le decine di piccole raffinerie disseminate un po' dovunque) che, però, potrebbero raffinare molto più prodotto dal n1omento che la loro capacità totale di raffinazione supera i 200 milioni di tonnellate (i dati sono molto incerti): essi dunque, sono utilizzati al 60-65 % cioè sono chiara-. mente sottoutilizzati. La maggior parte, poi, di questi impianti (oltre il 50 % ) è localizzata nel Mezzogiorno dove, peraltro, si consuma solo circa il 30 % del. totale raffinato. Un ultimo dato e il quadro è completo: tutta l'industria italiana della raffinazione dà lavoro ad appena 13.000 dipendenti. Una situazione, come si vede, assolutamente abnorme. Se si 19 Biblioteca Gino Bianco

Ugo Leone trattasse di automobili o di altri prodotti finiti non vi sarebbe nulla da ridire al fatto che l'Italia importa materie prime ed esporta prodotti finiti; ma trattandosi del petrolio c'è tutto da ridire. E ciò non per preconcetta « antipatia » verso il petrolio e i petrolieri, ma per motivi ben precisi e validi: l'Italia, e tanto meno il Mezzogiorno, non può permettersi il lusso di veder prosperare sul suo territorio anzi contro il suo territorio, un'industria che non dà lavoro, non paga tasse, inquina e per un terzo serve ad altrL Se ciò è vero - ed è incontestabilmente vero - come è stato possibile che l'industria della raffinazione crescesse, proliferasse e inquinasse? e per giunta nel Mezzogiorno? Come abbiamo scritto anche in altra sede, per tre motivi almeno: per la carenza o per la mancanza addirittura di una organica e moderna legislazione urbanistica e antiinquinamento che regolarizzi la materia; per quello che recentemente Francesco Compagna ha definito « un eccesso di compromissione degli ambienti politici, nazionali e locali »; perché come nei paesi sottosviluppati si tende a mandare l'industria « sporca » perché, comunque, è industria, così nel Mezzogiorno d'Italia, da sempre affamato d'industria, si pensa di poter localizzare qualsiasi industria purché industria. Ecco che il quadro si completa e se le considerazioni fatte sugli aspetti negativi dell'industria petrolifera potevano far pensare che solo per masochismo o per mania suicida una buona parte della classe dirigente politica italiana volesse continuare in una politica industriale manifestamente fal1imentare; queste ultimissime considerazioni forniscono le tessere indispensabili a completare il mosaico e a chiarire che non di masochismo, ma di egoismo interessato si tratta e non di mania suicida, ma tutt'al più omicida. I termini possono sembrare grossi, ma tali devono essere perché tali li merita la situazione: le mezze parole servirebbero solo a coprire uno stato di cose che va invece apertamente e definitivamente denunziato. Oggi l'Italia - come il resto de] mondo - attraversa nel campo energetico, un periodo piuttosto delicato, che si può anche definire di crisi, provocato dalla assenza di una lungimirante politica del settore e dalla improvvisa formazione di una « coscienza ecologica » che pone ostacoli sempre più difficili e numerosi alla installazione di nuove centrali termoelettriche. Ebbene, questo che, ancora Francesco Compagna ha definito 20 BibliotecaGinoBianco

Petrolio, petrolieri e benzina « eccesso di zelo nella crociata ecologica» mostra di trovare un certo credito nella classe politica dirigente, mentre non avviene altrettanto per la « crociata ecologica» contro le raffinerie. E ciò, come ha scritto Alfredo Todisco, per il semplice motivo che « i potenti gruppi petroliferi, pur di ottenere i permessi di raffinazione ad oltranza non si peritano di passare qualche miliardo sottobanco a questo o a quello degli esponenti politici che detengono il potere, ai signori del sì e del no ». Al contrario l'ENEL, ente di Stato soggetto a vari controlli burocratici, « non possiede l'agilita e i mezzi con cui i petrolieri riescono a persuadere chi di dovere ». È così che in pochi anni le compagnie petrolifere hanno riempito la penisola dei loro impianti: impianti costosissimi cui, come si è visto, non corrisponde nen1meno il « conforto » di un buon numero di posti di lavoro. Ancora, poi, ad investimenti così ingenti, come sono quelli che si effettuano in questo settore industriale, corrisponde un gettito fiscale pressoché nullo dal momento che i bilanci delle compagnie petrolifere straniere si presentano da anni in deficit. Ma, se svolgono la loro attività in perdita, perché le famose (o famigerate) « sette sorelle » si battono per avere l'autorizzazione ad installare nuovi impianti di raffinazione in Italia? Certamente non per beneficenza, attività abbastanza lontana dal mestiere di petroliere, ma perché, malgrado le apparenze, l'utile esiste ed è anche notevole anzi è un doppio utile. Infatti le\ compagnie straniere operanti in Italia presentano perdite di bi lancio perché le case madri praticano alle loro filiali estere (nel caso specifico a quelle italiane) prezzi sensibilmente più alti di quelli vigenti sul mercato internazionale; il che significa che le perdite di bilancio registrate dalle filiali sono fittizie dal momento che la maggior parte dei profitti sono assorbiti dalle case madri. Ciò consente, come abbiamo detto, di avere un doppio utile: il profitto derivante dalla vendita del petrolio e quello cleri-. vante dal mancato o ridotto pagamento delle tasse sugli utili. È una vera e propria forma di evasione - ha scritto Marcello Vittorini - « consentita dall'inefficacia degli strumenti fiscali e dalla stretta integrazione frà ]e " filiali " italiane e le "case madri " straniere ». Solo le società del gruppo ENI presentano bilanci in attivo e quindi partecipano in misura più sostanziale alle entrate fiscali. D'altra parte che le compagnie petrolifere non lavorino in Italia per beneficenza è confermato pure dal fatto che alle prime 21 BibliotecaGino Bianco

Ugo Leone difficoltà (introduzione dell'IVA; mancata « sollecita » approvazione degli ormai tradizionali sgravi fiscali alle compagnie da parte del Parlamento; braccio di ferro tra Parlamento e Governo sullo stesso argomento); alle prime difficoltà dicevamo, alcune compagnie estere hanno cominciato a ritenere meno conveniente il mercato italiano e a considerare la possibilità di un ritiro: è recente la notizia secondo la quale la Esso starebbe trattando la cessione di 200 distributori mentre la BP ha ceduto parte dei suoi impianti al gruppo Monti « alla luce delle insoddisfacenti condizioni commerciali dei prodotti petroliferi in Italia». Malgrado queste nascenti difficoltà, però, l'Italia resta sempre un paese molto ospitale per le compagnie petrolifere dal momento che non è solo la mancanza di un efficiente strumento di controllo fiscale a rendere più economica l'attività di raffinazione nel nostro paese. Anche l'assenza di una precisa legislazione antiinquinamento e di una qualunque legge urbanistica semplifica molto le cose. E proprio questa anarchia legislativa consente quello « eccesso di compromissione degli ambienti politici nazionali e locali » lamentato all'inizio. D'altra parte sono proprio questi ambienti che dovrebbero porre fine a questa «anarchia» per cui il circolo si fa pericolosamente chiuso. Come spezzarlo? « I problemi sono molti e complessi - afferma Marcello Vittorini - per avere un quadro esatto della situazione occorrono adeguati strumenti di· conoscenza e di intervento che oggi si individuano forse solo nell'ambito di una commissione parlamentare d'indagine che sia in grado di proporre le urgenti ed indispensabili iniziative legislative al di fuori dei condizionamenti che sicuramente saranno tentati da una concentrazione di potere economico - e quindi politico •- formidabile ». Nelle more, come si dice, il blocco della concessione di installazione di nuovi impianti, di reçente stabilito dal CIPE, ci· sembra la sòluzione più· rapida e ragionevole. Una soluzione inter .. locutoria che serve a dare il tempo a chi di dovere di approntare provvedimenti più duraturi e definitivi. Provvedimenti che, fra l'altro, dovrebbero dare il giusto rilievo ad un dato che sino ad ora ci pare troppo trascurato. Il dato in base al quale fra trenta anni le riserve di petrolio esistenti sulJa terra dovrebbero essere pressocché esaurite. A questo punto - se proprio non si vogliono fare grossi sforzi di fantasia - il calcolo nella sua semplicità diventa addirittura elementare anche se troppo semplicistico. Basta calcolare 22 BibliotecaGino Bianco

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