Nord e Sud - anno XX - n. 160 - aprile 1973

I NORD E SUD Rivista mensile diretta da Francesco Compagna Girolamo Cotroneo, Il liberalismo come risposta a sfida - Pasquale Saraceno, Mezzogiorno: le difficili scelte del I 973 - · Guido Compagna, Il voto della Francia - Bruno Visentini, Il senso di Venezia e scritti di Franco Bosello, Tullio D' Aponte, Mario Del Vecchio, Giulio .Leone, Cecilia Lezzi Santoro, Michele Ributti, Antonio Saccone, Maria Aurora Tallarico. ANNO XX - NUOVA SERIE - APRILE 1973 - N. 160 (221) EDIZIONI SCIENTIFICHE ITALIANE - NAPOLI

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SOMMARIO Girolamo Cotroneo Pasquale Saraceno Guido Compagna Editoriale [ 3] Il liberalismo come risposta a sfida [ 6] Mezzogiorno: le difficili scelte del 1973 [ 15] Il voto della Francia [21] Cronache parlamentari Bruno Visentini Il senso di Venezia [26] Argomenti Franco Bosello Il nodo monetario [ 41] Tullio D'Aponte Chimica: tra miti e realtà di un piano [61] Testimonianze Michele Ributti Il Comitatone alla prova [69] Regioni Cecilia Lezzi-San toro L'evoluzione della coltura degli agrumi in Puglia [78] Documenti Mario Del Vecchio La programmazione per Regioni [ 88] Giulio Leone Agricoltura e Mezzogiorno [95] Letteratura Antonio Saccone Nome e lagrime: ultimo pretesto per Vittorini [ 112] Maria Aurora Tallarico Fontamara tra disperazione e ribellione [ 123]

I Editoriale Ha ragione Altiero Spinelli quando afferma che l'europeismo dell'Italia, dopo De Gasperi, è diventato sempre più « convenzionale ed astratto». I sintomi di un allarmante nostro distacco dall'Europa non mancano e negli ultimi tempi si sono manifestati con maggiore insistenza e gravità. Se infatti si considerano le infrazioni ai trattati ed ai regolamenti europei, il primato è nostro. A.bbiamo insistentemente richiesto provvidenze comunitarie per il settore agricolo e siamo il solo paese che non abbia ancora inivato a Bruxelles i progetti di legge necessari per poter usufruire di queste provvidenze per la parte che ci spetta. Abbiamo sollecitato la politica regionale e ancora nei giorni scorsi l'on. Malfatti scriveva giustamente e autorevolmente che « per la politica regionale bisogna uscire fuori al più presto dall'età esigenziale »: pare che i Nove vogliano uscirne, ma intanto si è appreso che il nuovo commissario inglese, Thompson, preposto alla politica regionale, ha fatto un giro informativo nei vari paesi della Comunità, rinviando la visita a Roma perché qui « nessun niinistro italiano aveva tempo di riceverlo » nel mese di marzo e nella prima metà del 1nese di aprile. Lo stesso nuovo presidente della Commissione di Bruxelles, il francese Ortoli, non ha potuto organizzare una visita a Roma perché i nostri uomini di governo risultavano troppo indaffarati. E infine è sopravvenuto l'isolamento della lira. A noi sembra che da parte italiana si sarebbe dovuto dire in sede comunitaria, discretamente e fermamente, che le nostre aspirazioni europeistiche sono troppo conformi ai nostri interessi nazionali per essere messe in dubbio; e che tuttavia, .avendo con1.promesso tali interessi con una serie di errori (gli errori denunciati dal sen. Fanfani nel discorso di Caserta), dobbiamo mettere ordine nella nostra situazione economica e finanziaria. Pertanto potevamo chiedere che ci fosse concesso un congruo margine di tempo, come alla Gran Bretagna: ferma rimanendo come nostra fondamentale preoccupazione quella di un riagganciamento al più presto possibile. E invece, intorno al tavolo comunitario, il nostro è stato un atteggiamento presuntuoso, o quanto meno pretestuoso, dal momento che abbiamo preteso di accreditare una proposta italiana come ricetta per tutti, recriminando che gli altri non l'abbiano presa in considerazione come tale e chia111.andoin causa a sproposito gli organi comunitari. Di qui il contrasto sgradevole fra Malagodi e Ortoli, deri3

Editoriale vato dal fatto che la Conimissione aveva effettivamente proposto un impegno più rilevante per il fondo comunitario comune, ma subordinato all'impegno di tutte le monete di -fluttuare insieme, mentre noi pretendeva1no il primo impegno dagli altri senza assumere quello di rinunciare alla -fluttuazione libera. Abbianio avuto infine l'aria di accusare gli altri di essere stati meno europeisti di noi: un errore di stile, ilnplicito in un atteggiamento che certo non ci fa guadagnare credibilità in Europa. E come se tutto questo già non gettasse una pesante ombra di dubbio sulla nostra capacità di tenere il passo dell'Europa, un giornale di informazione ha riferito di una dichiarazione del Ministro degli Esteri in base alla quale l'area mediterranea veniva identificata come « il tema prioritario della politica estera italiana ». La Farnesina ha poi smentito; ma la smentita è risultata alquanto contorta: « questa politica mediterranea significa semplicemente attuare uno degli aspetti della politica europea ». E sia. Ma restano le preoccupazioni suscitate da una nostra propensione (e a sinistra chi è senza peccato, socialista, basista o forzanovista, scagli la prima pietra) a considerare il Mediterraneo come area di una politica nazionale, alternativa rispetto alla politica europeista. Su questo argomento abbiamo sempre parlato chiaro e ci riconosciamo nel giudizio con il quale Sergio Fenoaltea, su « La Nazione», ha reagito all'afferrnazione che era stata attribuita al Ministro degli Esteri: « l'europeismo è un ancoraggio democratico: la politica europeista di per sé non lo è», perché « anche un'Italia totalitaria, di qualunque colore, potrebbe fare una politica mediterranea, ma solo un'italia democratica può fare una politica europeista ». Stiamo attenti ora: guai se dovessimo rovesciare le « priorità degasperiane ». C'è un insidioso « distacco psicologico » dall'Europa, uno « scetticismo » sul futuro della integrazione europea, che potrebbe favorire il distacco politico dall'Europa o quanto meno fare impedimento al riagganciamento economico all'Europa; e senza questo riagganciamento il distacco politico sarebbe fatale. Tanto più che, come rilevava Fenoaltea, per quanto riguarda la DC « non è detto che l'europeismo sia la scelta preferenziale di quelle sue frange di sinistra che, più che alle democrazie europee, si sentono vicine al terzo niondo e 1nagari ai vietcong, o di quelle sue frange di destra cui sorride l'idea di una maggiore intimità fra Roma e Madrid ». E per quanto riguarda i socialisti, essi sono in Italia assai più incerti sui temi dell'europeismo di quanto non lo ~iano i socialisti olandesi e tedeschi; e subiscono anch'essi le suggestioni di un populismo di maniera che sembra a volte preferire i paesi mediterranei all'« Europa dei monopoli», magari non avendo ancora accertato se la via nazionale al socialismo debba passare più vicino a 4

Editoriale ., quella segnata da Boumedienne o a quella segnata dalla socialdemocrazia di Brandt. È alle forze che si riconoscono nell'esigenza di un « Tevere più largo » che spetta quindi ancora una volta di far valere la « scelta preferenziale delt europeismo » o, se si preferisce, le « priorità degasperiane », inquinate di petrolio mediterraneo. Ma questo loro compito è oggi tutt'altro che facile. C'è un'iminagine geografica cui La Malfa fece eloquente ricorso già durante la campagna elettorale del 1970 per le elezioni regionali: volendo esprimere una preoccupazione carica di implicazioni politiche e fondata su dati di fatto, egli disse, infatti, che, se non fossimo riusciti ad impedire il deterioramento progres~ivo di una situazione economica e finanziaria già allarmante, sarebbe stato frustrato lo sforzo, che l'Italia aveva intrapreso fin dagli anni '50, di scalare le Alpi per entrare in Europa; e che prima o poi, e magari più prima che poi, il nostro paese sarebbe stato risospinto nel Mediterraneo. Gli avvenimenti che in questa settimana hanno indebolito il nostro rapporto con l'Europa dimostrano fino a che punto hanno avuto torto coloro i quali hanno sottovalutato i sinto1ni del deterioramento della situazione economica e finanziaria o si sono illusi di poter evitare il peggio grazie all'atteggiainento del proverbiale medico pietoso. L'On. Giolitti ha scritto su « l'Avanti! » che non si deve indugiare nelle recriminazioni e meno che 1nai « invocare espiazioni e auto-flagellazioni ». D'accordo. Ma occorre pure che ci si sottoponga ad un severo esame di coscienza per valutare quali errori abbiano concorso a ritardare la nostra integrazione nell'Europa e quindi a provocare il nostro slittan1ento verso il Mediterraneo. Se non vogliamo affondare nel Mediterraneo, dobbiamo riacquistare nei confronti dell'Europa la cosiddetta «credibilità»: che era cresciuta, diciamo, fino al 1968 ed è poi rapidamente din1inuita. Ecco allora le grandi questioni che sono davanti a noi: anzitutto è indispensabile un recupero della stabilità politica, perduta nel 1968; soprattutto ci si convinca che, se voglia1no rincorrere l'Europa, dobbiamo lavorare più dell'Europa, come nel dopoguerra, e non come negli ultimi anni, quando abbiamo cominciato a lavorare meno dell'Europa e ci siamo concessi il lusso di sottovalutare le nostre debolezze « mediterranee »: il Mezzogiorno e la disoccupazione. 5

Il liberalismo • come risposta a sfida di Girolamo Cotroneo Lo Stato-benessere, la società tecnocratica, pur con i loro innegabili vantaggi, costituiscono l'ultima sfida alla libertà individuale: nonostante la retorica costruita intorno ad esso, l' one-dimension:il man è una realtà di cui non si può ormai non tenere conto. Esiste una risposta a questa sfida? La vasta letteratura sulla società tecnocratica, inaugurata dalla scuola di Francoforte e portata avanti dalla sociologia liberal-radicale statunitense, se ha assunto un aspetto critico rilevante, una veste di denuncia, rigorosamente fondata, non è andata però oltre questo momento (non si può certo vedere una posizione costruttiva nell'avversione tardo-romantica - e quindi reazionaria - alla società industriale, quale quella dell'ultimo Marcuse, con il suo amore verso una libertà incondizionata, di carattere estetistico e sensualistico; né può considerarsi costruttiva la conclusione di Habermas, il quale sembra talora evocare lo Stato hegeliano, quale garante della libertà individuale). Tuttavia una risposta si impone: una risposta non utopica, ma « storica », capace cioè di indicare in concreto le alternative ancora (o soltanto) possibili. Secondo Nicola Matteucci, la cui ultima fatica è stata dedicata a questo genere di problemi, soltanto il « liberalismo » si presenta ancora - nonostante la fretta con cui esso è stato liquidato negli anni del secondo dopoguerra dalla propaganda politico-culturale della sinistra marxista e dalla provinciale sociologia cattolicizzante - come valida alternativa a un sisten1a_ politico che, nonostante ]e apparenze, sembra dirigersi verso quello che Max Horkheimer ha definito il « mondo amministrato », sostanzialmente privo di libertà individuale. Perché proprio il liberalismo? Si potrebbe anche pensare a un giudizio « di gusto » da parte di Matteucci, di una sua tendenza personale, dovuti a una formazione che, alla larga, potrebbe definirsi crociana; il che in parte è anche vero. Ma al giudizio di gusto si accompagna qualcosa di più: Matteucci ha rilevato - per merito della sua vasta conoscenza della storia moderna - 6

Il liberalismo come risposta a sfida I come alle diverse « sfide » a cui la libertà individuale è stata sottoposta nel corso dei secoli più recenti - quelle dell'assolutismo, del totalitarismo, e così via -, è stato solo e sempre il liberalismo a dare una risposta valida: una risposta di libertà, senza camuffamenti ideologici. Da Locke a Montesquieu, da Humboldt a Constant, da Tocqueville a Stuart Mill, da Kant a Croce, il pensiero liberale ha sempre reagito alle sfide che il « potere » ha lanciato alla libertà, ha saputo sempre proporre un nuovo ordine politico, dove la libertà non fosse affidata a motivi utilitaristici, ma indicata, a un tempo, come mezzo e come fine: a ragione, quindi Matteucci può definire il liberalismo, data la costante avversione da esso dimostrata nei confronti del «potere», come una sorta di anarchismo che sa fare i conti con il « principio di realtà ». La risposta liberale è valida ancora oggi, di fronte a quella nuova e più insidiosa forma di totalitarismo (non assolutistico, ma pur sempre totalitarismo) che è la società tecnocratica, novella sfida alla libertà? E se lo è, in che misura? Questa è la domanda alla quale Matteucci, dopo aver compiuto, a monte, la sua « scelta » liberale, si è trovato di fronte: e il suo sforzo, come ha rilevato Giovanni Ferrara su « Il Mondo », è stato « di costringere il liberalismo, come dottrina politica incarnata nel costituzionalismo, a fare i conti con quella che appare la sua peggiore nemica, cioè la realtà storica contemporanea della società di massa, industriale, permeata di esigenze di tutela, ordine e giustizia, di efficienza e, corrispettivamente, di anarchismo», per giungere « a proporre una problematica della libertà concreta, sociale, statale, giuridica, strutturale, che risponda alle esigenze di oggi e di domani». Non era un compito facile: lo stesso titolo dato da Matteucci alla sua recente ricerca (Il liberalismo in un mondo in trasformazione, Il Mulino, Bologna, 1972), è rivelatore dello scopo finale da lui perseguito: quello di vedere le possibilità di una risposta « liberale » alla « sfida tecnologica » (per usare la nota espressione di Sergio Cotta, il quale, alcuni anni addietro aveva dato ad essa una risposta in chiave semireligiosa, decisamente « interiore»), risposta che può aversi soltanto non attraverso un ripensamento critico (o, peggio, un superamento dialettico) della dottrina liberale, bensì attraverso il tentativo çli fondare una « prassi » liberale, o, meglio, il momento « empiricocritico » del liberalesimo teorico, il quale finora ne sarebbe stato privo. Non era certo, come prima si diceva, un compito facile: e pur 7

Girolamo Cotroneo se Matteucci lo ha assolto, globalmente, in maniera egregia, non mancano, a nostro avviso, nella sua tesi di fondo alcuni spigoli non sufficientemente smussati, alcune contraddizioni non risolte. Ma, prima di discuterne, vale forse la pena sgombrare H campo da una pregiudiziale che condiziona tutto il discorso. All'inizio di esso, infatti, Matteucci dichiara, senza molte reticenze, che la parola « liberalismo » è oggi qui da noi « largamente screditata »; ma che tale discredito non si fonda su di un approfondimento critico dei temi caratterizzanti del pensiero liberale, essendo piuttosto il frutto di uno « stato d'animo », dovuto all'avversione, per opposti motivi, del movimento cattolico e di quello socialista verso lo Stato liberale. Abbracciando quindi la tesi liberale, Matteucd sfida consapevolmente l'impopolarità. Ma il discredito di cui gode il liberalismo è dovuto soltanto alla debolezza teorica e al provincialismo del movimento cattolico e del movimento socialista? Ha notato giustamento Norberto Bobbio, occupandosi su « Filosofia e società », la nuova rivista di Lido Chiusano, del libro di Matteucci, che, di là di quello, pur assai valido, indicato dall'autore, un altro motivo rende oggi sospetto il liberalismo: « Nonostante la battaglia crociana - .ha scritto infatti Bobbio - per fare accettare la distinzione tra liberalismo politico e liberismo economico, il nome 'liberale' in politica è rimasto ai gruppi ai partiti, alle teorie, che difendono sino al massimo limite in cui ancora è defendibile e comunque in misura maggiore che tutti gli altri gruppi, o partiti, o teorie, la libertà economica ». Il problema, come si vede, è grosso: perché se è vero che presso i gruppi o partiti che si richiamano all'ideologia liberale, la libertà economica si presenta come un prius rispetto a tutte le altre, allora, quando questa è minacciata « le libertà civili debbono essere sospese o ridotte in modo da non poter nuocere ai detentori del potere economico, che poi sono i soli fruitori di questa libertà»; non viene allora (è sempre Bobhio a dirlo), che la libertà economica non è per il liberalismo soltanto un mezzo per realizzare dei fini, ma è invece essa stessa un fine, « anzi, il fine ultimo, al quale tutti gli altri debbono essere subordinati?». Come si diceva, il problema è grosso: Matteucci potrebbe rispondere che questi gruppi usurpano il titolo di liberali, non trovando la teoria della preminenza delle libertà economiche su quelle civili alcun riscontro nel liberalismo classico, dove l'ordine delle libertà era chiaramente indicato e dove appunto la libertà economica ser8

Il liberalismo con1e risposta a sfida I virebbe soltanto quella civile. Ma non sta certo a noi rispondere a nome di Matteucci. Tuttavia l'osservazione di Bobbio contiene la sua parte di verità: perché ove si voglia veramente lo sviluppo delle libertà civili, occorre mettere in atto quello che lo Hegel, negli scritti jenensi, chiamava « l'addomesticamento della bestia selvaggia », cioè il controllo dell'economia, la quale, pur di mantenere la propria libertà (quella cioè dei detentori del potere economico) sarebbe sempre disposta a sopprimere tutte le altre. Matteucci nel suo discorso sul liberalismo non ha indicato un modello di sviluppo economico: a nostro avviso, l'omissione non è casuale, ma rivela una preoccupazione di fondo, sulla quale pure Bobbio è chiamato a riflettere. Il rischio è quello che per limitare la libertà economica non si finisca con il sopprimere le al tre libertà, quelle civili: era questa, in fondo, la preoccupazione che muoveva Croce, come del resto avremo modo di vedere più avanti. L'esempio del marxismo, dello sviluppo storico del marxismo, è veramente significativo: per impedire il prevalere delle libertà economiche, ha finito con il sopprimere, là dove si è storicamente realizzato, le libertà civili. Insomma, il pericolo è quello di cadere da un opposto all'altro: lasciare che la « bestia selvaggia » si sfreni, è un pericolo per le libertà civili uguale e contrario a quello di volerla « addomesticare » con un atto di imperio, come appunto dimostrano i paesi comunisti (dove della tensione verso l'eguaglianza fa le spese la libertà). Il baratro dunque sta da una parte come dall'altra, non da una parte sola: e questo, a nostro avviso, spiegherebbe sia la cautela di Matteucci, che la riserva di Bobbio; il problema è quello di tentare una mediazione, come del resto tentano le forze politiche piu moderne del nostro paese che, superati i vecchi schemi dell'assoluto liberalismo, e quelli altrettanto vecchi del collettivismo forzato, sostengono le nuove forme della programmazione economica. Ma questo sarebbe tutto un altro discorso. Ritorniamo pertanto a Matteucci, tenendo presente che quanto abbiamo detto finora è strettamente collegato al teina centrale da lui portato avanti, come del resto avremo presto modo di vedere. Nel suo -esame dei pensiero liberale classico e in particolare di quello del Croce, visto come il punto di arrivo di tutta la tradizion~ liberale europea, Matteucci ha rilevato .come il liberalismo italiano si può dire abbia avuto « più retori che tecnici ». In poche parole, Croce avrebbe dato una definizione « troppo larga » del liberalismo. considerandolo una sorta di preideologia nella quale tutti partiti 9

Girolamo Cotroneo democratici potrebbero ritrovarsi; lo dimostrerebbe una certa riluttanza da parte dello stesso Croce verso la « scienza della politica», verso i programmi pratici, verso l'empiria immediata. Così, egli avrebbe lasciato una fondazione filosofica :del liberalismo, trascurando la teoria empirica di esso: l'ambizioso progetto di Matteucci sarebbe quello di coprire questo spazio vuoto, di passare dalla fondazione metafisica del fine (la Jibertà) « a un'analisi empirica dei mezzi per costruire la società liberale ». Insomma, fondare una teoria empirica del liberalismo, pur mantenendo fermi i capisaldi etici e antiutilitaristici della filosofia crociana; la quale non sarebbe riuscita a uscire dalla dimensione immanentistica, « proprio per la sua disattenzione nei confronti della scienza della politica, che con il costituzionalismo ci insegna i modi concreti con cui limitare il potere e quindi consentire la libertà, e delle scienze sociali, le quali ci possono far conoscere meglio il presente e aiutarci a progettare in chiave liberale lo sviluppo economico e sociale ». Si tratterebbe quindi di una sorta di « sintesi a priori », dove il liberalismo (crociano) presterebbe la forma pura, ·mentre il costituzionalismo e le scienze sociali offrirebbero il contenuto empirico: « Proprio nel concetto trascendentale di libertà, - scrive infatti Matteucci - che non si identifica con i suoi concreti contenuti storicamente finiti, c'è la possibilità di intendere la libertà, e quindi il liberalismo, come possibile risposta a sfida. Ma, per conoscere i problemi del proprio tempo e non restare nella tautologia dell'universalità, sono indispensabili le scienze che studiano l'uomo, dalla biologia alla psicoanalisi, dalla psicologia àlla sociologia; in altri termini bisogna costruire, sulla base delle scienze, una nuova antropologia filosofica che eviti i pericoli di un astratto soggettivismo. Solo così si potrà mettere a raffronto l'individuo empirico esistente con la sua possibile universalità ». Sulla legittimità di questo progetto non avanzeremo, in linea di principio, nessuna riserva: anche se nella ricerca volta a ritrovare gli aspetti « liberali » che presentano le dottrine sociali contemporanee - dalla sociologia statunitense di sinistra, alla teoria critica di Adorno e Horkheimer, alle recenti conclusioni di Habermas, alla psicoanalisi, e talora allo stesso marxismo - Matteucci sembra mosso soprattutto dall'intenzione di volere recuperare al liberalismo tutte le tendenze culturali del nostro tempo, che a volte egli « ammorbidisce » in un contesto che, per la verità, non sempre ci nesce trovare attinente allo spirito di quelle dottrine. Ma, come 10

Il liberalis1no come risposta a sfida , dicevamo, non è di questo che vogliamo discutere: proporremmo invece il problema in un'altra maniera; chiedendoci cioè come mai il Croce - giusta l'interpretazione che ne ha dato Matteucci -, pur così dotato di senso della storia, avrebbe poi finito col risolvere il proprio liberalismo in una sorta di goethiano « prologo in cielo », senza dare ad esso nessuna coerenza applicativa (conseguenza questa, già lo sappiamo, del fatto che all'ideale morale di libertà sia poi mancato « quel nuovo orientamento delle scienze sociali, la cui assenza nella filosofia crociana ha impedito l'affermazione in Italia di un moderno liberalismo » ). Come già dicevamo, da parte nostra non verrà mossa la benché minima contestazione al progetto di Matteucci, sulla cui legittimità potremmo anche, entro certi limiti, convenire: soltanto vorremmo risolvere la questione discutendo sulle conclusioni crociane, persuasi che da questa soluzione (se sarà possibile darne una) lo stesso progetto di Matteucci, potrà venire migliorato, evitando ad esso il rischio, che talora ci sembra corra, di risolversi in una mera teoria empirico-pragmatica. Veniamo dunque a Croce. Vi è un passaggio - un celebre passaggio che non scopriamo ni~nte riproponendolo - della Storia d'Europa nel secolo decimonono in cui Croce così scriveva: « Come ormai dovrebbe essere pacifico, il liberalismo non coincide col cosidetto liberismo economico, col quale ha avuto bensì concomitanza, e forse ne ha ancora, ma sempre in guisa provvisoria e contingente, senza attribuire alla massima del lasciar fare e lasciar passare altro valore che empirico, come valida in certe circostanze e non valida in circostanze diverse. Perciò né esso può rifiutare in principio la socializzazione o statificazione di questi o quei mezzi di produzione, né l'ha poi sempre rifiutata nel fatto, ché anzi ha compiuto non poche opere di tal sorta; e solamente esso la riprova e la contrasta in casi dati e particolari, quando e da ritenere che arresti o deprima la produzione della ricchezza e giunga al contrario effetto, non di un eguale miglioramento econon1ico dei componenti di una società, ma di un impoverimento complessivo, che spesso non è neppure eguale; non di un accrescimento di libertà nel mondo, ma di una diminuzione e di un'oppressione che è imbarbarimento o decadenza: giacché solo nella capacità o meno di promuovere libertà e vita_ è il criterio di giudizio per qualsiasi rifqrma ». Valeva la pena riprodurre per intero questo lungo brano perché esso è, a nostro avviso, la chiave di volta di tutto il discorso che intendiamo portare avanti. Quante discussioni e polemiche esso 11

Girolamo Cotroneo - e il contesto in cui si colloca - abbia suscitato è pressoché superfluo ricordare: il dibattito con Luigi Einaudi o la genesi di quel liberal-socialismo di cui ancora oggi Guido Calogero continua a dirsi portatore (e che Croce, non desiderando la ·« istituzionalizzazione» del suo liberalismo, avversò decisamente, - cosa questa che Calogero continua ancora oggi a rimproverargli). Da un certo punto di vista esso sembra pure dare ragione a Matteucci, rivelando una certa indifferenza verso la prassi politica, che Croce si accontentava di vedere inquadrata in un sistema generale di libertà; e ancora esso risponde al dilemma di Bobbio, rifiutando sia l'assoluto sfrenamento della hegeliana « bestia selvaggia », sia il suo « addomesticamento» coatto. Ma questa « indifferenza » sulla quale Ma tteucci ha fatto leva per il sostegno di tutta la sua tesi, che cosa vuole veramente significare? Croce, in linea con il miglior liberalismo europeo - la cui diffidenza verso lo Stato è stata efficacemente illustrata qui da Matteucci - non amava la programmazione delle istituzioni: riteneva anzi che le istituzioni in se stesse non fossero né buone, né cattive, privilegiando nei confronti di esse l'uso che gli uomini sanno farne (e questo può essere un motivo che spiega la sua poca simpatia per le scienze sociali, soprattutto nelle vesti dommatiche e astratte che · avevano ai suoi tempi). Il suo interesse giovanile verso il marxismo, dal quale si allontanò pdma ancora che facesse la sua « prova storica», vedendo in esso - sia pure a favore della giustizia - una deminutio della libertà; la stessa cauta aspettativa, diventata poi opposizione radicale, quando ne vide l'autenfico volto illiberale, di fronte al fascismo', sono prove e della sua sostanziale indifferenza verso le istituzioni e le forme politiche, alle quali chiedeva soltanto l'allargamento, o per lo meno il mantenimento, della libertà (respingendole duramente quando non la realizzavano) e al tempo stesso della sua riluttanza verso le organizzazioni politiche a carattere totalizzante (fra queste, lo Stato hegeliano ), intese a « fermare » la storia e a fissare definitivamente le istituzioni. Nei confronti delle quali aveva un atteggiamento alquanto singolare: commentando in- · fatti una volta la << divisione dei poteri » proposta da Montesquieu, scriveva che lo stesso teorico di essa « non era in grado di sostenere che con questo meccanismo istituzionale si generasse e mantenesse libertà e si impedisse servitù, perché, se manca l'animo libero nessuna istituzione serve, e se quell'animo c'è, le più varie istituzioni possono secondo tempi e luoghi rendere buon servigio ». 12

Il liberalismo carne risposta a sfida I Non si capirà mai il cosiddetto antilluminismo di Croce, se non si tiene presente la sua polemica contro la programmazione delle istituzioni (di cui appunto l'illuminismo settecentesco fu il teorizzatore principale), le quali devono nascer dal seno stesso della storia, devono essere prodotto non elaborato a freddo, ma quasi autoproducentesi dal vivo dei contrasti reali, devono essere sentite in maniera, diremmo, sanguigna, dagli uomini che le vogliono: « Ogni istituto che si riformi o si crei a nuovo - ha scritto in Etica e politica - deve, per vivere, diventare interesse dei singoli, sentimento, affetto, ricordo, speranza, idolo, poesia: il che, agli occhi dell'a~tratto razionalista, è un contaminarsi, ma nella realtà è un semplice rigettare l'astrattezza per la vita. E, concretandosi a quel modo, certo correrà il rischio di diventare altresì un giorno, egoistico e antiquato; ma questa è la sorte di tutte le cose umane. E morirà certamente, un giorno: ma avrà vissuto». Quando Matteucci esprime tutto il suo stupore per il fatto che il pensiero liberale non abbia mai proceduto alle analisi sociali, di classe, per vedere quali sjano le forze potenzialmente utilizzabili per la propria strategia politica, e risolve la questione individuando una sorta di horror sacer del liberalismo nei confronti di questa metodologia solo perché proposta dal marxismo, non tiene forse in conto il fondamento rigorosamente teoretico di quello stesso horror, nascente appunto dalla diffidenza liberale (particolarmente crociana) verso gli ingegneri della libertà, i quali credono basti programmare e· realizzare alcune istituzioni acconce, per ottenere una società libera: ma le istituzioni, tutte le istituzioni, funzionano nel senso che gli uomini vogliono, per cui la preminenza dell'animo libero, di cui parlava Croce, sugli istituti, resta il momento fondamentale del cam• mino della libertà. Non vorremmo, a questo punto, essere andati oltre il segno, lasciando intendere che Nicola Matteucci, nel suo impegno a fondare la prassi, il momento empirico-critico della teoria liberale, si sia trasformato anch'egli in un ingegnere della libertà: il che sarebbe ingiusto oltre che falso. Il suo richiamarsi al momento empirico non significa infatti adesione « a una teoria che è fiduciosa saltante nella mera raccolta di dati, coniugati secondo ben precise regole tecniche stabilite in partenza », bensì_ uno sforzo per costruire ·1a teoria liberale, non soltanto in base ai « sacri » princìpi, bensì « analizzando i fatti sociali del presente, in una prospettiva essenzialmente storica ». Il richiamo alla ragione storica (e non alla 13

Girolamo Cotroneo raison illuministica) resta sempre il motivo di fondo del discorso di Matteucci; e accanto a questa, il privilegio al momento umano, contro la tendenza, sempre più diffusa nel nostro tempo, a rivendicare contro di esso, « come degne di scienza, soltanto le strutture». Matteucci può così concludere che, ove non si sia avvertiti di questo, « si rischia di vedere nel liberalismo non un ' umanesimo ', ma soltanto una tecnica di organizzazione del potere ». Queste ultime precisazioni, unite a quanto abbiamo detto sopra, hanno soprattutto il significato di volere evitare, respingendola, qualsiasi interpretazione « quantitativa » del discorso di Matteucci, anche in quei punti dove esso sembra talora prestarsi. A questo punto - non avendo nessuna intenzione di entrare nel merito delle analisi del Matteucci, di discutere le soluzioni pratiche (fra le quali merita la massima attenzione quella del « piccolo governo ») da lui presentate, e con le quali cerca di individuare gli spazi che la società odierna concede ancora al liberalismo e la maniera concreta di allargarli -, a questo punto, dicevamo, il nostro discorso potrebbe considerarsi concluso. Tuttavia una precisazione ci pare ancora obbligatoria: essa riguarda le parole con cui Matteucci conclude la breve prefazione al suo libro, là dove egli dice di sperare che al lettore risulti evidente che esso « non intende assolutamente essere una difesa della democrazia liberale, quale oggi esiste in Italia, che tutti - chi più e chi meno - abbiamo contribuito a rendere sempre meno credibile ai giovani, al punto che essa non è più capace di suscitare autentiche passioni in grado di difenderla dai nemici esterni e sopra tutto dai nemici interni». Potremmo anche sottoscrivere questa dichiarazione, dopo avere tuttavia chiarito, a scanso di qualsiasi equivoco, che tutto ciò è valido soltanto a patto che nessuna, ma nessuna, delle libertà di cui oggi, bene o male, godiamo, sia messa in discussione o addirittura soppressa in nome di ipotetiche libertà future. Allargamento degli orizzonti della libertà, partecipazione più larga, sempre: ma giammai a patto di rinunciare « temporaneamente » a nessuna di quelle libertà di cui la democrazia liberale oggi esistente in Italia ci consente di usufruire. GIROLAMO COTRONEO 14 BibliotecaGino Bianco

Mezzogiorno: le difficili scelte del 1973 di Pasquale Saraceno * Credo sia un buon segno il fatto, che in un dibattito su « L'economia italiana nel 1973 », tema che ovviamente si riferisce all'intero Paese, si sia pensato di inserire una considerazione particolare degli aspetti che il tema presenta se considerato nell'interesse particolare delle regioni meridionali; si risconosce con ciò non solo che le due parti del Paese - Centro Nord e Mezzogiorno - sono rette da leggi di sviluppo economico profondamente diverse ma anche che decidere senza tener conto di questa diversità significa supporre che le leggi che regolano la parte politicamente oltre che economicamente più forte del sistema - il Centro Nord - siano applicabili a tutto il sistema e quindi anche alla sua parte più debole - il Mezzogiorno -. È proprio perché costantemente si ignorano, nelle decisioni di politica economica, le differenze intercorrenti tra i due sistemi che la politica volta a eliminare il divario, per quanto dotata di mezzi rilevanti e di istituzioni ad hoc viene tenuta in scacco dalle conseguenze di una politica generale che ignorando il divario non può essere la politica propria della zona più povera. Ora nel considerare gli svolgimenti che possono essere intravisti nel corso di un periodo breve qual'è il periodo compreso entro l'anno in corso, si deve in primo luogo ricordare che tanto meno un'economia è sviluppata e tanto meno essa sarà esposta al rischio di variazioni congiunturali e d'altra parte tanto meno il suo corso può essere modificato a breve termine: al limite, una economia di pura sussistenza non subisce altre variazioni all'infuori di quelle determinate nei racconti dai mutevoli andamenti stagionali; e poco ovviamente, si potrà fare per modificare gli effetti di tali variazioni. Nella misura in cui una simile miserabile economia progredisce e si mette in grado di attivare scambi di rilievo con il mondo esterno, essa subirà i contraccolpi oltre che delle variazioni stagionali anche delle variazioni dei mercati esterni sui quali è venduta quella quota * Questo articolo ricalca il testo dell'intervento alla Tavola rotonda tenutasi a Roma il 20 febbraio 1973 per iniziativa del Movimento Salvemini e con la partecipazione del prof. Pedone dell'on. Peggio e del prof. Spaventa; presiedeva il prof. Sylos Labini. 15 BibliotecaGino Bianco

Pasquale Saraceno della produzione di beni primari che essa non consuma. Anche contro questi rischi una tale economia è del tutto indifesa; essa dipenderà in altri termini dalla congiuntura dei Paesi in cui vende i propri prodotti e dalle misure congiunturali che quei Paesi prenderanno. È il destino, come sappiamo, di tutte le economie sottosviluppate. Il Mezzogiorno è però ben lontano, è forse superfluo dirlo, da una situazione tanto arretrata; esso è però anche lontano, in misura forse non minore, da quelle strutture pienamente industrializzate cui .si riferiscono i congiunturisti quando trattano di variazioni congiunturali e di misure volte a contenerle. Va in primo luogo osservato che, pur non potendosi più dire una economia propriamente agricola, il reddito agricolo che è poco esposto a variazioni congiunturali rappresenta nel Mezzogiorno una quota del proprio reddito totale notevolmente più alto di quella rilevabile nelle altre regioni del Paese: 18-19% nel Sud, 7% nel Centro Nord. Quanto al resto della economia meridionale, essa si caratterizza per il fatto che la spesa pubblica - ordinaria e straordinaria - ne costituisce una determinante avente peso ben maggiore che nel complesso delle altre regioni italiane; quantificare questo scarto tra Centro Nord e Sud non è sen1plice e per di più è operazione che dà luogo a risultati molto opinabili. Ma ai fini di questa breve esposizione è sufficiente rilevare l'imponenza nel Mezzogiorno, di un fenomeno - la spesa pubblica - il cui andamento non è influenzato dalla congiuntura; per quanto riguarda il 1973 è solo da tener conto del- fatto che, a motivo dej primi effetti prodotti dall'azione della Cassa conseguente alla legge 10 ottobre 1971 n. 853, la spesa per opere pubbliche avrà nel 1973 una certa espansione rispetto al 1972. Questi effetti si manifesteranno però per un 25/30% presso le industrie del Centro Nord, fornitrici di materiali, macchine e strumenti richiesti dalla esecuzione delle opere. · Resta infine l'industria; anche qui è da prevedere un andamento difforme da quello del Centro Nord. Premesso che il reddito industriale, che più subisce alterazioni congiunturali, è nel Mezzogiorno pare al 28% del totale contro il 43% nel Centro Nord, occorre ricordare che è mancata nel Mezzogiorno quell'espansione di medi e piccoli impianti che si contava avesse luogo già dopo trascorsi pochi anni dall'inizio dell'intervento straordinario; gli impianti di grande dimensione, sia in esercizio sia in costruzione, rappresentano quindi 16

Mezzogiorno: le difficili scelte del 1973 una quota del complessivo sistema industriale meridionale notevolmente maggiore che nel Centro Nord. Ora, nel Mezzogiorno, il settore dei grandi impianti ha progredito negli scorsi anni e continuerà a progredire nei prossimi a ritmi che non risentono molto della congiuntura. In conclusione il Mezzogiorno costituisce una sezione dell'economia italiana che è molto meno sensibile alle variazioni congiunturali di quanto lo sia il resto del sistema; e ciò per il maggior peso che hanno i tre settori ora indicati: agricoltura, spesa pubblica, grandi impianti. Ora, quale effetto può produrre sull'andamento dell'economia meridionale un accentuarsi della ripresa che sembra delinearsi da qualche tempo, una ripresa che, in relazione a quanto ora detto, è dunque un fenomeno localizzabile essenzialmente nel Centro Nord? Vi sarà certo il rafforzamento delle unità medie e piccole esistenti nel Mezzogiorno e che appunto per la loro più recente costituzione, sono state messe dalla crisi in corso da qualche anno in difficoltà maggiori di quelle rilevabili nel complesso dell'industria esterna al Mezzogiorno. Si è però detto sopra che si tratta di unità non numerose; limitato sarà quindi il cambiamento cui esse daranno luogo nell'insieme della economia meridionale. Si potrebbe però pensare che una eventuale ripresa dovrebbe determinare una intensificazione del processo di creazione di imprese medie e piccole; e ciò per tre motivi: in primo luogo è grandemente ridotta la disponibilità di forze di lavoro nelle regioni esterne al l\1ezzogiorno, in secondo luogo la legge ottobre 1971 n. 853 ha aumentato gli incentivi ottenibili dalle aziende medie e piccole e, infine, i fenomeni di congestione manifestatisi in alcune aree del Centro Nord vi hanno diminuito la convenienza ad investire. Questo effetto però non può non essere atteso nel 1973. Occorre infatti tener presente che esistono oggi nel sistema industriale italiano notevoli quote di capacità produttive non utilizzate e che altre capacità si vanno formando nelle imprese esistenti per effetto della ricerca dei più alti livelli di produttività richiesti dagli ultimi contratti; si deve quindi escludere che nel giro di pochi mesi tali capacità vecchie e nuove possano essere pienamente uti_- lizzate, decisioni di investimento al Suçl vengano prese e tali decisioni abbiano un inizio di esecuzione. Un importante effetto prodotto nel Mezzogiorno da una ripresa generale sembra quindi debba essere ancora una volta quello di un 17

Pasquale Saraceno aumento delle rimesse dell'emigrazione nel Centro Nord, sia quella passata, che vedrà aumentati i propri redditi come conseguenza della ripresa, sia quella nuova cui la ripresa offrirà migliori possibilità di occupazione. Ci si può ancora chiedere: se la ripresa sarà durevole e quindi, le capacità esistenti saranno pienamente utilizzate comincerà finalmente a prodursi l'intenso moto di espansione industriale al Sud cui mira l'intervento in corso? È tutt'altro che certo. Se la convenienza delle imprese, sotto la pressione dei futuri contratti, continuerà ad essere quella di forzare quanto più è possibile l'aumento della produttività degli impianti sotto la pressante necessità di ripristinare gli equilibri aziendali, gli incrementi di domanda continueranno ad essere soddisfacenti in gran parte degli impianti attuali e l'occupazione continuerà ad aumentare solo per l'espansione delle attività terziarie comportate dal maggior volume di produzione fornita da tali impianti; questo tipo di espansione del settore terziario avverrà però nell'area ove sono ubicati gli impianti in questione e quindi avrà luogo in gran parte nel Centro Nord; permarranno in conseguenza le correnti migratorie. Tutto ciò si prospetta, comunque, come detto sopra, per un periodo che si trova oltre il 1973, cioè per un periodo che è al di là di quello oggetto del nostro dibattito; è però fin d'ora che bisogna pensare a dar vita a una ripartizione degli incre1nenti di reddito che supponiamo accentuati dalla ripresa, in modo che le imprese siano meno premute ad aumentare rapidamente la produttività delle unità esistenti e trovino finalmente la convenienza ad espandere la produzione mediante la creazione di nuovi posti di lavoro. Se questo spostamento di convenienza non avrà luogo scarsi saranno gli effetti che possono essere attesi per il Mezzogiorno dalla auspicata ripresa, salvo s'intende un aumento delle rimesse degli emigrati. Per quanto riguarda il 1973 e in relazione ai rilevanti aumenti di prezzi che nel corso di questo dibattito sono stati previsti, va poi ricordato che l'inflazione è in sé .causa di ulteriore impoverimento della zona povera e quindi di aumento del divario, si tratti di inflazioni da costi o di altro tipo di inflazione; e ciò per più motivi: a) perché la spesa pubblica ha nel Mezzogiorno un ruolo di sostegno e di propulsione molto maggiore che nel Centro Nord; il valore reale di questa spesa diminuisce a causa dell'aumento dei prezzi; di altrettanto diminuirà quindi il sostegno che la spesa pubblica fornisce; 18

Mezzogiorno: le difficili scelte del 1973 , b) gli abitanti delle zone povere hanno minori occasioni e possibilità di investire in beni reali; all'arricchimento della zona ricca . conseguente al fatto che sono numerosi coloro che finanziano con debiti la proprietà di beni reali, contribuisce in parte la zona povera dove sono invece numerosi coloro che non saprebbero come investire il loro risparmio all'infuori dei depositi a risparmio e dei titoli pubblici; e) nella zona povera sono relativamente più numerosi i sottoccupati, i disoccupati e le persone i cui redditi non sono legati al valore della moneta e che vedono diminuito dall'aumento dei prezzi· il loro potere di acquisto. La ripresa, in quanto collegata con preoccupanti aumenti di prezzi e in quanto può non determjnare, nell'attuale meccanismo di distribuzione del reddito nazionale, un aumento di posti di lavoro nelle regioni meridionali, potrebbe quindi non solo non dar luogo a una riduzione del divario Nord Sud, ma anzi determinarne un aumento se opportune politiche non venissero adottate nel corso appunto di quel 1973 che è oggetto del nostro esame. In questa azione volta ad ottenere che la ripresa non si risolva in una intensificazione del capitale produttivo del Centro Nord ma dia luogo anche e soprattutto a una estensione al Sud assume un posto importante l'incentivazione dell'imprenditorialità privata. Si è detto prima che delle molte direzioni in cui si è svolta l'azione pubblica nel Mezzogiorno quella nella quale si è meno progredito è quella diretta a suscitare l'impianto di medie e di piccole imprese; ora non va mai dimenticato che non si può contare in questo campo su un vasto intervento dell'impresa a partecipazione statale come supplente dell'iniziativa privata. Diverse sono le ragioni di questo stato di cose: a) non si può immaginare di eliminare il divario con un tipo di sviluppo in cui l'imprenditorialità privata esistente in Italia, che è molto più estesa di quella pubblica, sia in prevalenza riservata al Centro Nord; b) una diffusa industrializzazione in un'area che accoglie oltre un terzo della popolazione del Paese e oltre metà del suo incremento di forza di lavoro richiede una disponibilità di capitale che è enormemente superiore a quella che l'azione pubblica, premuta da tante richieste, può ragionevolmente destinarvi; e) le unità di produzione di piccola e di media dimensione non possono essere create ed economicamente gestite dai grandi 19 -

Pasquale Saraceno gruppi, tramite direttori scelti da lontani centri direzionali, ma richiedono, in una economia di mercato, che chi si dà carico della gestione arrischi anche propri capitali; lo mostra il fatto che in tutti i Paesi i grandi gruppi, sia pubblici sia privati non gestiscono piccoli impianti che non siano reparti staccati dalle grandi unità; d) se le medie e piccole imprese non si diffondono nel Sud segno è che vi manca la convenienza; e allora il problema si risolve creando tale convenienza e non dando vjta a un sistema di imprese pubbliche al Sud destinate ad essere in perdita, che si contrapporrebbe a un sistema di imprese, prevalentemente private, nel Centro Nord che sarebbero invece in utile. Da tutto quanto detto 1 fin qui risulta evidente che una ripresa della nostra economia, se non gestita con una attenta considerazione del quadro che oggi presenta il Mezzogiorno - come sono indotti a fare i congiunturisti - potrebbe non determinare una riduzione del divario e, addirittura potrebbe risolversi in un suo accrescimento; se ciò dovesse avvenire dopo venti anni di azione meridionalista dovremmo domandarci se un ordinamento di mercato sia incapace di produrre un sistema di forze atto ad eliminare un divario che, per un qualsiasi motivo, sia creato in una società. PASQUALE SARACENO 1 Nella parte finale del testo sono incorporate considerazioni svolte nel corso del dibattito, in risposta a una richiesta di chiarimento sui rapporti tra impresa pubblica e sviluppo della piccola e della media impresa. 20

,Il voto della Francia di Guido Compagna I commenti sulle elezioni francesi sono stati i più disparati e i più contraddittori. Da un lato si è tirato un lungo sospiro di sollievo per il mancato successo delle sinistre, dall'altro si è inneggiato alla vittoria delle sinistre, anche se in parte mutilata da un'iniqua legge elettorale, che ha consentito agli sconfitti in percentuale di essere i vincitori in quanto a numero di seggi. In realtà il risultato pieno è stato mancato da entrambi gli schieramenti; le sinistre tutt'al più possono affermare di aver ottenuto un « pareggio fuori casa » date le avverse condizioni imposte loro, vuoi dalla legge elettorale, vuoi dal ·disinvolto atteggiamento di Pompidou, che non ha esitato, capo dello Stato in carica, a rivolgere, a campagna elettorale chiusa, un appello ai francesi. Un punto su cui tutti i commentatori sembrano convenire è d'altra parte la mancata affermazione dei riformatori di Lecanuet e di Servan Schreiber, schiacciati, come sempre accade alle forze intermedie nei periodi di maggiore radicalizzazione della lotta politica, dai due blocchi maggiori. Tuttavia siamo convinti che sarebbe profondamente errato cercare di stabilire quale dei due schieramenti maggiori abbia vinto, ma che si debba invece cercare di capire che cosa è cambiato nella Francia di oggi, con questo risultato elettorale. E per far questo è forse più utile tentare di individuare i rapporti di forze esistenti all'interno dei singoli schieramenti più che tra i due schieramenti. La coalizione di maggioranza ha raggiunto in seggi la maggioranza assoluta, ma nel suo ambito si è incrinata la maggioranza dell'U.D.R. a favore del « centro »: all'interno della coalizione si cominciano a vedere radicali, democristiani, repubblicani progressisti ed europeisti: un mondo diversificato che oggi tende sempre più a staccarsi dalla tutela del gollismo tradizionale collegandosi, con una spontaneità che nei prossimi mesi potrebbe far:si sempre più naturale, a quello che alcuni osservatori hanno definito il cavallo ambiguo dei riformatori che con una zampa tira a sinistra e l'altra a destra. Il risultato elettorale ci fa pensare che i francesi vogliano un 21

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