L'inverno degli intellettuali e il divenire di Eraclito, scelse quest'ultimo; fra l'essere e il nonessere preferì il secondo. Mentre altre culture rimasero per secoli, forse per millenni, in posizione statica, nel culto dell'essere, la nostra non ebbe mai una fase di quiete; nessuna parte del mond_o ebbe infatti tanti rivolgimenti culturali e politici quanto la nostra, vissuta sempre nella tensione verso il non-essere, verso ciò che non è ancora. « Tutto ciò che esiste non merita di esistere», diceva, ci sembra, Engels: e questa frase è il simbolo dell'inquietudine culturale nella quale siamo vissuti e continuiamo a vivere. Certo, questa inquietudine si accentua nei momenti di maggiore tensione politica - come di fronte ai fatti di Budapest e Praga, o alla guerra nel Vietnam - quando certi convincimenti sono sottoposti a dure prove storiche che costringono a ripensare molte cose; ma si tratta dell'accelerazione di un movimento che è continuo, in perpetua evoluzione: perché abbiamo già da tempo capito (e solo gli sciocchi ancora non lo credono) che la verità non è qualcosa di dato una volta per tutte, ma coincide, come Hegel ha insegnato, con la ricerca della verità. Parlare quindi di « crisi », di « malumori », di « inquietudine » degli intellettuali è, all'origine anch'esso un falso problema, perché non tiene conto di quella radice dinamica della nostra cultura che scelse, alle sue origini, l'eraclitea impossibilità di « discendere due volte nello stesso fiume » o di « toccare due volte una sostanza mortale nello stesso stato ». La divagazione non è stata forse inutile, in quanto può consentire - una volta compreso e accettato che le belle epoche della cultura in cui tutto è sereno, tutto al posto e al momento giusto, sono un fatto «storiografico» (di una cattiva storiografia) e non « storico » - di sviluppare un discorso (ammesso, per le ragioni che diremo, lo meritino) sugli intellettuali italiani in una chiave che non sia quella della solita « crisi » - che della cultura è elemento costitutivo - bensì in una chiave eticopolitica che permetta di capire le responsabilità che gravano su di essi (e il discorso ritorna a quelle compromissioni, a quelle abdicazioni, di cui prima abbiamo parlato); poiché quando gli intellettuali parlano di « crisi », lasciano volentieri intendere che essa sia stata provocata da cause, diciamo così, extraculturali, ad esempio il sistema politico del nostro paese o il modo in cui esso è gestito: ma così facendo si dimentica che il compito degli intellettuali (se ne esiste ancora uno) è proprio quello di rompere gli schemi entro cui la società ( e il potere che la guida) tende, per natura, a 11
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