Nord e Sud - anno XX - n. 157 - gennaio 1973

Autori vari sario, e che anche un tasso di inflazione più elevato non avrebbe gravemente danneggiato la nostra posizione competitiva. La riprova di questa interpretazione è fornita dalla situazione dei nostri conti con l'estero. Il saldo delle transazioni correnti (merci, servizi e redditi dei fattori) è stato costantemente positivo a partire dal 1964; e perfino il saldo dei soli movimenti di merci (che, in condizioni normali, data la struttura dell'economia italiana, dovrebbe essere passivo) è stato attivo in cinque degli otto anni che vanno dal 1964 al 1971. Accusare l'inflazione e la perdita di competitività delle nostre esportazioni sembra quindi fuor di luogo. Un secondo filone di interpretazioni si rifà ai problemi dei rapporti tra produttività e salari, visti questa volta non come fonte di inflazione, ma come elemento determinante del profitto e quindi degli investimenti. Secondo questo modo di vedere, la pressione costante dei salari al di là degli aumenti di produttività avrebbe compresso oltre n1isura i margini di profitto, riducendo per questa via gli investimenti. Questa visione procede a sua volta in due versioni distinte. La prima considera i profitti soprattutto come fonte di finanziamento per l'impresa, e ritiene quindi che la compressione dei profitti avrebbe comportato anzitutto l'inaridirsi delle fonti di finanziamento, rendendo così assai più ardua, se non impossibile, l'esecuzione degli investimenti. Questa versione, coltivata soprattutto (ma non esclusivamente) negli ambienti imprenditoriali, sostiene coerentemente che la via della ripresa debba passare per una preventiva restaurazione di equilibri più ragionevoli nei bilancì aziendali. La seconda versione vede nel profitto anzitutto uno stimolo all'investimento, dal momento che il sistema capitalistico è per definizione un sistema produttivo nel quale la produzione viene svolta esclusivamente per il conseguimento del profitto. La pressione salariale, secondo questo modo di vedere, avendo oltrepassato un limite massimo, avrebbe ridotto il livello dei profitti al disotto di quello che è necessario per la preservazione del sistema capitalistico stesso. A livelli di profitto così bassi, sarebbe semplicemente impossibile trovare imprenditori disposti a rischiare su base individuale, ed a svolgere la funzione che il gioco del capitalismo loro assegna. Ambedue queste tesi vanno valutate anzitutto alla luce dei fatti, quali risultano dalle statistiche ufficiali. Secondo dati elaborati dalla Banca d'Italia, e pubblicati nell'ultima Relazione annuale, la quota di reddito attribuita al lavoro dipendente è andata costantemente diminuendo negli anni successivi al 1964, ed ha mostrato un'inver18

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