Nord e Sud - anno XX - n. 157 - gennaio 1973

NORD E SUD Rivista mensile diretta da Francesco Compagna Pasquale Saraceno, .l progetti speciali - Autori vari, Verso l'economia del neodualismo - Demetrio De Stefano, Operazione carne - Nino Novacco, Un Mezzogiorno contro la crisi - Pasquale Coppola, Stampa e Mezzogiorno e scritti di Francesco Compagna, Ermanno Corsi, Maria Laura Gasparini, Aristide Gunnella, Vincenzo Litta, Mario PaganoJ Michele Ributti, Italo Talia, Claudia Vinciguerra. ANNO XX - NUOVA SERIE - GENNAIO 1973 - N. 157 (218) EDIZIONI SCIENTIFICHE ITA·LIANE - NAPOLI

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SOMMARIO Pasquale Saraceno Autori vari Demetrio De Stefano Nino Novacco Italo Talia Francesco Compagna Editoriale [ 3] I progetti speciali [7] Verso l'economia del neodualismo [13] Operazione carne [28] Cronache meridionaliste Un Mezzogiorno contro la crisi [33] Industrie: Tra nani e giganti [52] I « progetti speciali » per il Mezzogiorno [ 64] Cronache parlamentari Aristide Gunnella La legislazione sui fondi rustici [ 68] Ermanno Corsi Mario Pagano Maria Laura Gasparini Vincenzo Litta Pasquale Coppola Michele Ributti Giornale a più voci Il MSI a Napoli: perché le bombe [76] L'idea della « deformazione» [80] L'emigrazione dall'Europa Meridionale [82] Le nuove tariffe telefoniche interurbane [ 85 J Argomenti Stampa e Mezzogiorno [90] Il divorzio in Italia [ 107] Inchieste Claudia Vinciguerra L'intelligenza artificiale [ 119]

Editoriale La tendenza della spesa corrente ad aumentare più di quanto non au111enti la spesa in conto capitale è arrivata al punto che nel 1972 per la prima volta è del tutto scon1parso il risparmio pubblico (che da anni andava progressivamente dùninuendo ). Questo significa che il ricorso al mercato finanziario ed alla manovra monetaria, limitato sinora alle esigenze di copertura delle sole spese per investimento, sarà determinato anche dall'esigenza di coprire una parte delle spese correnti, perché non basta più a coprirle il totale delle entrate tributarie ed extra-tributarie. In pari tempo altre pesanti ipoteche gravano in misura crescente sul bilancio dello Stato: non solo i crescenti disavanzi delle ferrovie e delle poste, degli Enti n1utualistici e della finanza locale, n1a anche le pressanti richieste di aumento dei fondi di dotazione per gli Enti di gestione delle aziende a partecipazione statale. A proposito dei quali, giustamente Eugenio Scalfari, su « La Stampa », ha rilevato che « hanno raggiunto dimensioni tali da snaturare il sistema dell'economia mista come fu originariamente concepito e come tuttora, ma solo sulla carta, continua ad essere considerato da chi ne gestisce le sorti »: osservazione che coincide con quelle che si sono potute leggere in dicembre su « Nord e Sud» ( ivi infatti abbiamo pubblicato il testo della relazione al bilancio del Ministero delle PP SS) e che si deduce dalla constatazione che in dieci anni « l'importanza dei fondi di dotazione si è grande111ente accresciuta (si pensi che solo l'IRI, che ancora dieci anni or sono aveva un fondo di dotazione d'una sessantina di miliardi, ora supera abbondantemente i n1ille) e serve in larga misura a coprire le perdite di gestione o comunque a rendere l'industria pubblica sempre meno dipendente dal giudizio del mercato». Di qui la considerazione - è ancora Scalfari a farla - « che, per ottenere congrui stanziamenti a carico del bilancio statale, i dirigenti dell'industria pubblica sono costretti a mescolarsi sempre più strettamente con le vicende dei partiti e delle correnti, con il bel risultato che è sotto gli occhi di tutti». Impallidisce la grande tradizione di Menichelfa, servitore dello Stato, perché si contamina· con i metodi di cui già si avvaleva Mattei e di cui si avvalgono ora personaggi che non hanno neanche le virtù che pur si sono dovute riconoscere ad un Mattei. Quanto meglio sarebbe stato se a suo tempo avessimo ricondotto tutte le partecipazioni 3

Editoriale statali alle finanziarie dell'/RI! Avremmo evitato la proliferazione degli enti di gestione, la confusione dei settori nei quali essi sono autorizzati oggi ad operare, la contaminazione della tradizione di Beneduce e Menichella che dall' IRI era stata continuata e che· anche nell' IRI rischia prima o poi di essere insidiata! E comunque sia, il problema della « gestione economica» delle aziende a partecipazione statale è davanti a noi e presuppone anche un problema di riordinamento delle partecipazioni statali e un problema di contenimento, di selezione rigorosa, degli interventi di salvataggio cui gli enti di gestione sono continuamente sollecitati da pressioni sindacali e locali, moltiplicate da una crisi industriale che incrudelisce. Se dunque ci dobbiamo preoccupare per la scomparsa del risparmio pubblico e per la competitività delle aziende a partecipazione statale, e quindi per la originalità del nostro sistema di economia mista, possiamo ricordare senza jattanza quante volte negli editoriali di « Nord e Sud», in questi ultimi anni, abbiamo denunciato l'illusione che il paese possa continuare a vivere al di sopra delle sue possibilità; quante volte abbiamo constatato che si consumano quote crescenti di un reddito ancora da produrre; quante volte abbiamo deplorato coloro che hanno preferito la parte del medico pietoso; quante volte abbiamo ammonito a non ipotecare, attraverso il crescente indebitamento, entrate future, o sperate: denuncie, constatazioni, deplorazioni, ammonimenti che ora trovano risonanza nella relazione dell' on. Bassi al bilancio dello Stato per il 1972, una relazione nella quale si legge, tra le altre, l'affermazione che, senza ammortamenti e senza profitti da destinare a nuovi investimenti, « non è possibile spezzare la spirale evolutiva in cui rischia di avvitarsi vieppiù la nostra economia ». Ci saremmo quindi aspettati dal Ministro del Tesoro, a conclusione del dibattito sul bilancio dello Stato, un discorso severo e preoccupato; tanto più che in altre, recenti occasioni lo stesso on. Malagodi aveva detto che la situazione è « grave, anche se non disperata ». Abbiamo avuto invece un discorso che ci è sernbrato più inclinato verso lo sforzo di riconoscere nella situazione economica sintomi di ripresa di quanto non lo fosse, come la relazione dell'on. Bassi, verso l'esigenza di far valere l'ammonimento a non commettere altre imprudenze dopo le tante che « l' I talia malata » ( si veda il recente libro dell'on. Preti) ha già commesso. Ma la verità è che la situazione economica - mentre incrudelisce, appunto, la crisi industriale - più che presentare sintomi di ripresa, presenta ulteriori sintomi di aggravamento e induce a ritenere che, se si commettessero altre imprudenze, potrebbe diventare anche disperata: questo è quanto si ricava da testimonianze e documenti, dai rapporti della Medio4

Editoriale banca e del Censis come della stessa relazione dell'on. Bassi per il bilancio del 1973. Non si può addebitare, però, al governo dell'on. Andreotti la colpa di avere provocato l'aggravamento di una situazione economica che questo governo ha ereditato dai governi precedenti. E se il problema di questo governo è di rovesciare, malgrado le sua esigua maggioranza, le tendenze che hanno provocato la crisi, il problema dei partiti che hanno avuto nei precedenti governi le maggiori responsabilità (DC e PSI) è di ammettere che hanno con1n1esso gravi errori e di capire quali errori hanno commesso per poter poi confrontare la risultanze dei loro ripensamenti. D'altra parte, è anche vero che le cause principali della crisi ( e quindi le tendenze che l'hanno provocata) hanno le loro radici a monte delle contingenti formule politiche e vanno ricercate nella realtà economica e sociale del paese. In altri termini, come sempre abbiamo detto e scritto, le cause della crisi di struttura che ci investe sono tutte riducibili alla questione meridionale. Ma proprio di questo non sono stati consapevoli quei governi che, 111.ediante la programmazione, avrebbero dovuto, nella continuità dello sviluppo, assicurare una coerenza di tutte le scelte con la concezione meridionalista dello sviluppo. Certo, la priorità n1eridionalista è stata enunciata a parole molte volte dai governi di centrosinistra, ma le compatibilità n1eridionaliste sono state altrettante volte, se non più volte, maltrattate nei fatti da quegli stessi governi. Del resto, anche il convegno di Perugia della DC ha dimostrato come certi esperti, che hanno tenuto il campo in questi anni quali consiglieri della programmazione, e che frequentano tutti i con1itati, tutti i convegni e tutte le tavole rotonde, siano tutt'altro che consapevoli degli errori che sono stati commessi da quando è stata abbandonata la linea di pensiero che aveva ispirato i documenti preliminari della programmazione, lo sche111a di Vanoni, la nota aggiuntiva di La Malfa, il rapporto di Saraceno. La loro esperienza di università americane è stata forse fuorviata_. per mancanza di quell'esperienza concreta della realtà italiana che ha sempre arricchito i contributi degli esperti formatisi nella Svimez di Morandi e di Vanoni, di Menichella e di Saraceno. E difatti, tra le relazion1 presentate a Perugia, ci è sembrato che si distinguesse proprio quella cui è stato dedicato n1inore risalto nei commenti e nelle polemiche, ma che merita invece di essere oggetto di riflessione e di confronto (di confronto anche e prima di tutto con le relazioni più commentate e più discusse): la relazione di Nino Novacco che pubblichiamo in questo numero di « Nord e Sud», nel suo testo integrale. La rela!ione di Novacco è tutta dominata dalla consapevolezza che, se il Sud non progredisce, regredisce il Nord: affermazione che risulta 5

Editoriale anche più fondata di quanto non lo sia l'altra, cui tanto spesso si ricorre, che, se non progredisce il Nord, non può progredire neanche il Sud. E a chi volesse rilevare che il Sud non ha progredito quanto si sarebbe voluto, Novacco preventivan1ente risponde che, grazie alla politica 1neridionalista, il Mezzogiorno è diventato più industrializzabile; e che non risulta indus'trializzato quanto si sarebbe voluto e potuto perché, in buona sostanza, prima, durante e 1nagari anche dopo il centro-sinistra sono state, 1naltrattate le compatibilità meridionaliste. E c'è nella relalazione di Novacco anche una buona esemplificazione di questi n1altrattamenti. Si dirà che è merito del centro-sinistra la nuova legge per il Mezzogiorno. Certo. Ma il connotato di novità nella continuità di questa nuova legge è rappresentato dall'idea dei « progetti speciali » a carattere interregionale e intersettoriale; e a questo proposito si deve pur dire che rischiamo di sciupare questa idea, in.vece di realizzarla nella pienezza delle sue possibilità e del suo « valore promozionale e incentivante »: secondo una preoccupazione che avevamo a suo ten1po manifestato (si veda « Nord e Sud» dell'ottobre 1972 ). Al discorso sui « progetti speciali» dedichiamo perciò largo spazio in questo stesso numero della rivista, che si apre appunto con un articolo di Pasquale Saraceno su ciò che i « progetti speciali» potrebbero e dovrebbero essere; e all'articolo di Saraceno segue l'articolo di Demetrio De Stefano sul più interessante fra i « progetti speciali » in corso, quello sulla produzione intensiva di carne, mentre ripubblichiamo anche, nella rubrica delle « cronache meridionaliste », a seguito della relazione di Novacco a Perugia, l'articolo sui « progetti speciali» che Francesco Compagna ha scritto per « Il Giorno». Il tutto è riconducibile alla preoccupazione per il nuovo «dualismo»; alla preoccupazione, cioè, che ha ispirato il contributo dei nostri amici di Portici per questo prùno nu1nero del 1973. Per quanto riguarda, infine, le critiche della politica dei redditi che hanno fatto rumore a Perugia e da Perugia, vorremmo riformulare questa domanda: « quale ammontare di risorse sarà destinato alla creazione di nuovi posti di lavoro nel Mezzogiorno, invece che all'ulteriore aumento della produttività del lavoro nelle regioni più ricche?». Riformuliamo anche la risposta: « è difficile negare ... che una politica dei redditi, che desse garanzie assolute su questo punto, non deve essere più soltanto un'aspirazione delle autorità monetarie, ma dovrà essere anche una risolutiva richiesta delle popolazioni meridionali ». Sono parole dello stesso Saraceno che ha autorevolmente presieduto i lavori di Perugia (si veda « Nord e Sud» di agosto-settembre 1972). 6

I progetti speciali di Pasquale Saraceno ~:- L'istituto del progetto speciale è forse l'innovazione più rilevante che l'ultima legge sul finanziamento della« Cassa » (L. 6 ottobre 1971, n. 853) introduce nella politica specificamente diretta all'area meridionale. Rilevanti incertezze esistono, però, con1e è noto, sui contenuti del « progetto speciale ». Mi sembra perciò che al loro superamento possa giovare una riflessione che prenda le mosse ancora una volta dall'idea di progran1mazione, di un'azione cioè imposta dal fatto che il conseguimento di qualsiasi obiettivo di qualche rilevanza richiede, nella società contemporanea, un insieme coordinato di decisioni in diversi campi e a diversi livelli. Solo pochi anni fa animate discussioni intorno al rapporto tra piani economici e piani urbanistici riempivano atti di convegni e pagine di riviste: oggi, in riconoscimento che sviluppo economico e riorganizzazione del territorio sono aspetti inscindibili di un'unica politica, tale questione non solleverebbe altro rilievo che quello dell'ovvietà. Di conseguenza è altrettanto pacifico il superamento della vecchia concezione della zona industriale come ristretto perimetro specificata1nente attrezzato; e anche se incertezze ed ondeggiamenti possono riscontrarsi negli indirizzi legislativi e amministrativi in questo campo (aree e nuclei di industrializzazione, direttrici di penetrazione interna, ecc.), nessuno porrebbe in dubbio che l'esercizio dell'industria, come quello di una moderna agricoltura, richiede, oltre alle attrezzature specifiche, un'ampia gamma di infrastrutture generali e di servizi, e che i vantaggi derivanti dalla compresenza di attività produttive, servizi e residenze siano fruibili nell'ambito di un territorio ampio ma agibile, meglio che in un territorio ristretto ma congestionato o tendente alla congestione. E se la realtà non si mostrasse così pervicacemente incline a secondare interessi i1nmediati e particolari, non vi sarebbe certamente motivo di insistere sul maggiore costo, non solo per la collettività, ma, a lungo andare, anche '' Il presente testo riproduce la parte di uno studio dedicato ai progetti speciali dal quale è stata tratta parte della relazione svolta dal Prof. Saraceno alla « Giornata del Mezzogiorno », tenuta a Bari, alla Fiera del Levante il 18 settembre 1972. 7

Pasquale Saraceno per le imprese, di interventi tendenti a correggere a posteriori, anziché a prevenire programmaticamente, le conseguenze dello scempio dei valori e degli squilibri ambientali. Alla luce di queste premesse i quattro contenuti che l'art. 2 della nuova legge assegna ai progetti speciali - infrastrutture generali, valorizzazione e salvaguardia della natura e dell'ambiente, attrezzature delle aree metropolitane e di nuove zone di sviluppo, promozione di attività produttive - mi sembra debbano giudicarsi non tanto specifici di quattro distinte categorie di progetti, quanto aspetti interconnessi di singoli progetti. Credo che questa sia una condizione importante perché i progetti speciali siano quello che pressantemente si richiede al Mezzogiorno nella fase che esso ha oggi raggiunto: più precisamente, un'efficiente articolazione di quell'unica politica di sviluppo economico e di assetto territoriale cui prima s1 accennava. Questa compresenza dei quattro contenuti indicati nell'art. 2 mi sembra anche una condizione importante per intendere il valore, insieme innovativo e di continuità, dei progetti speciali, rispetto alle linee di tendenza dell'intervento straordinario, dal 1950 ad oggi; una tendenza ad una finalizzazione via via più rigorosa allo sviluppo di attività produttive del nuovo capitale fisso sociale, che in qualche caso appare oggi persino eccedente le attuali capacità di utilizzazione; una tendenza altresì verso una concezione non più soltanto tecnica dell'organicità delle opere, ma programmatica, nel senso della complementarietà rispetto a precisi obiettivi di sviluppo civile e, conseguentemente, di riorganizzazione di ·determinati territori. La molteplicità, la varietà e il costo delle azioni costituenti sistemi progettuali finalizzati ad obiettivi di questa natura fanno quindi dei progetti speciali un istituto del tutto diverso dai sistemi progettuali di natura prevalentemente tecnica intorno ai quali si era svolta l'esperienza precedente. A meno che non si vogliano concentrare la disponibilità e l'azione della Cassa in talune aree, inevitabilmente limitate, ritenendo che l'azione straordinaria non sia più richiesta sul restante territorio meridionale, i sistemi progettuali, che prefigura l'art. 2 della nuova legge, mi sembra debbano concepirsi come composti di due parti: l'una, costituita da quelle azioni che, per la loro essenzialità - logica e cronologica - rispetto agli obiettivi, dovranno essere realizzate con le procedure proprie dell'intervento straordinario e quindi sotto la responsabilità della « Cassa » - e l'insieme di queste azioni si chiamerà·« progetto speciale » - l'altra, costituita dalle altre azioni, complementari alle 8

I progetti speciali prime, che saranno di competenza delle amministrazioni ordinarie centrali e locali, oppure che saranno oggetto di programmi d'investimento definiti da imprese pubbliche e private in sede di contrattazione programmata, oppure, ancora, di azioni che scontano determinati flussi di iniziative industriali e turistiche di piccola o di media dimensione o determinati assetti di vaste aree agricole. Se questa è l'interpretazione da darsi alla nozione di progetto speciale si dovrebbe concludere che, entro un periodo non certo di pochi mesi ma neppure di troppi anni, dovrebbe essere individuato un complesso di sistemi progettuali contenenti progetti speciali: tale per cui tutta l'area meridionaìe venga avviata verso l'assetto cui deve mettere capo l'intervento straordinario iniziatosi vent'anni or sono con l'istituzione della Cassa. Con questa affermazione non si vuol certo escludere, in un mondo in rapido e imprevedibile cambiamento come è l'attuale, che altri progetti non debbano essere configurati in tempi più lontani e che in taluni progetti del blocco iniziale non si debbano introdurre elementi innovativi di grande rilievo. Ciò che interessa rilevare qui è che l'identificazione dei progetti speciali deve aver luogo secondo una logica che trae origjne dalla considerazione di tutta l'area meridionale. Il fatto poi che le risorse utilizzabili per l'attuazione dei progetti non siano illimitate deve rendere attenti a dare ad essi un avvio secondo un ordine che valga non solo a creare un equilibrio vitale a1l'interno di ognuno di essi, ma anche ad ottenere che vengano eliminati gli squilibri che l'intenso mutamento avvenuto ha suscitato nell'insieme dell'area: squilibri che sarebbero probabilmente accentuati o si farebbero più numerosi se l'avvìo dei progetti avesse luogo in maniera episodica, in relazione a possibilità di sviluppo che via via si presentano in questa o in quell'area o, peggio, alla maggiore capacità di certe aree di accaparrarsi i progetti speciali varati nella fase iniziale di applicazione della nuova legge. Così procedendo si potrà meglio tener conto di quelle altre esigenze di coordinamento che nascono dal fatto che lo sviluppo di nessuna area può essere considerato come effetto esclusivo delle azioni che si compiono al suo interno, ma, in quanto l'area è inserita in sistemi territoriali più vasti, anche delle azioni che si compiono al suo esterno, a scala regionale e interregionale, e quindi, ira l'altro, nelle aree non coperte da prÒgetti speciali. Occorre a questo punto domandarsi - affinché il discorso resti su un ter~eno di valutazioni realistiche - se questa configurazione del progetto speciale sia compatibile con il dato normativo, ovvero 9

Pasquale Saraceno in1plichi una rev1s1one delle disposizioni in vigore. Ora sembra di poter affern1are, anche sulla base dei lavori parlamentari, che l'interpretazione sin qui data non contrasti con le norme che prevedono i progetti speciali. I problemi sorgono invece in rapporto all'attuazione dei progetti speciali così configurati, specie per quanto concerne il ruolo delle Amrninistrazioni ordinarie e quello delle regioni. Nell'attuazione di quello che si è chiamato sistema progettuale (inteso come somma di progetto speciale più interventi ordinari nazionali e regionali, più, eventualmente, investimenti direttamente produttivi), infatti, i1nportanza rilevante assumerà l'attività di controllo dell'ordinato procedere delle azioni affidata a ciascuno degli entì impegnati nell'attuazione, cosicché gli obiettivi vengano realizzati integralmente in tempi determinati. Impresa certan1ente molto ardua data la varia natura degli organismi impegnati nell'attuazione, la lunghezza dei periodi occorrenti per portare ad effetto ciascun tipo di intervento e l'entità degli sprechi che sarebbero determinati da una insufficienza di coordinamento. Questa attività di coordinan1cnto, spettante ovviamente al CIPE - che già ne è titolare in base alle nonne che ne rego]ano l'attività - può contare sulla Cassa come organo tecnico investito del compito di seguire il grado di avanzan1ento delle singole parti, esterne al progetto speciale, che compongono un sistema progettuale. Ma qualora, come è inevitabile, insorgessero strozzature, e queste non fossero superabili in sede di azione ordinaria, statale o regionale, il CIPE dovrebbe poter di nuovo contare sulla Cassa trasferendo dall'azione ordinaria al progetto speciale determinati interventi o loro parti; il che, allo stato attuale della normativa, non sarebbe possibile. In particolare, per quanto riguarda 1'attività dell'amministrazione ordinaria, appare indispensabile integrare il vincolo puramente quantitativo, costituito dalle riserve a favore del Mezzogiorno del 40% delle spese cli investimento delJe Amministrazioni dello Stato - il cui rispetto è garantito dal 3° comma dell'art. 7 della legge n. 853, che destina al finanziamento dei progetti speciali le somme che nell'ambito della suddetta riserva risulteranno non impegnate a chiusura di ciascun esercizio - con un vincolo programmatico sulle effettive destinazioni di quelle spese. Occorre, altresì, adottare nuove disposizioni per assicurare il coordinamento tra progetti speciali e interventi regionali, attualmente precluso, sia perché le Regioni, articolazioni costituzionali dello Stato, sono titolari di un potere autonomo di iniziativa politica e di competenze proprie nelle materie interessate dai progetti 10

I progetli speciali speciali, sia perché esse non partecipano all'approvazione dei progetti speciali se non con il parere richiesto al Comitato interregionale ( di cui al 3° comma dell'art. 1 della legge n. 853 ). Oltre che nella partecipazione delle regioni alla elaborazione dei sistemi progettuali, la soluzione potrebbe essere trovata nel ricorso all'istituto dell'accordo Stato-Regione. Non si tratta di violare le competenze costituzionali o delegate delle Regioni, ma di prevedere la possibilità giuridica di stipulare appositi accordi tra Stato (CIPE) e Regioni, da approvarsi dai Consigli regionali interessati, in ordine alle procedure di coordinamento tra il progetto speciale e gli interventi regionali complementari, con l'esplicito impegno di trasferire al progetto speciale quegli interventi di competenza regionale che, per motivi indipendenti dalla volontà della stessa Regione, risultasse impossibile realizzare nei n1odi e nei ten1pi stabiliti. Ciò ovviamente in1plicherebbe la necessità di estendere oltre il termine stabilito del 31 dicembre 1973 ( 1 ° comma dell'art. 5 della legge n. 853) la facoltà della Cassa di provvedere, sempre su richiesta delle Regioni, alla progettazione ed attuazione degli interventi di competenza regionale. In tema di industrializzazione, poi, dovrebbe prevedersi un rapporto analogo a quello delineato, in teina di infrastrutture, tra intervento ordinario e intervento straordinario: qualora una impresa venisse meno agli impegni presi in sede di contrattazione programmata, dovrebbe essere prevista una procedura che valga a promuovere, nell'ambito sia pubblico che privato, inizjative atte a svolgere un ruolo per quanto possibile sostitutivo degli effetti attesi da quegli . . 1111pegn1. Queste innovazionj normati, e consentirebbero al progetto speciale di costituire la risposta data dal nostro ordinan1ento alla richiesta di intensificare l'intervento e di ottenere che i vari ordini di iniziative da prendere siano strettamente coordinati nel tempo, nella dimensione e nello spazio. !'-Jon dimentichian10 a quest'ultimo riguardo che nel ventennio 1951-71 gli investimenti nel M zzogiorno sembra siano aumentati a saggi persino superiori a quelli del CentroNord. È quindi sulla qualità degli investimenti e nella ricerca della loro ottima co111binazione che occorre specialmente portare il nostro interesse nell'attuale fase; ed è questo il ruolo che può essere appunto assegnato ai progetti speciali. In questo duplice compito di coordinan1ento e di supplenza da assegnarsi all'intervento straordinario, rilevanti sviluppi sono da prevedere nell'attività non solo della Cassa, ma anche di altri istituti caratteristici dell'intervento straordinario: IASl\1, FORMEZ, FINAM. 11

Pasquale Saraceno Affer1nato il principio che il carattere di « organicità » dei progetti speciali va riferito ad obiettivi, precisati nei tempi, di sviluppo globale di determinati territori; riconosciuta l'esigenza che venga al più presto configurato un insieme di progetti speciali, concepito al fine di eliminare sia il generale squilibrio Nord-Sud, sia gli squilibri interni al territorio meridionale, appare ancora una volta evidente che l'intervento straordinario non può essere che una componente - sia pure la più agile e dinamica - della politica per il Mezzogiorno. È alle altre componenti di tale politica che spetta in pri1no luogo mobilitare risorse, pubbliche e private, nazionali ed europee, adeguate alle esigenze di sviluppo del Mezzogiorno e garantirne utilizzazioni coerenti rispetto agli obiettivi fissati. I fenomeni di sovradotazione di opere, cui si è accennato, possono considerarsi come indizi della non corrispondenza tra l'intensità dell'intervento straordinario in infrastrutture, da una parte, e l'ancora modesta efficacia della politica di industrializzazione, l'incerto procedere de]- 1' opera di costruzione di una nuova agricoltura e i troppo lenti, irregolari o incoerenti ritmi di intervento delle Amministrazioni ordinarie e degli enti locaJi, dall'altra. Qualora si considerassero i progetti speciali come semplice innovazione tecnico-progettuale dell'intervento straordinario (nella sostanza un semplice perfezionamento del tradizionale complesso organico di opere), l'isolamento di quest'ultimo nel contesto politicoamministrativo del Paese si accrescerebbe; di fatto si accentuerebbe la tendenza ad addossare ad esso il massimo di responsabilità dello sviluppo meridionale, scaricandone la politica generale e l'intervento ordinario, e dalle inevitabili delusioni trarrebbero paradossalmente ispirazione i critici dell'intervento straordinario, reo di aver troppo operato. PASQUALE SARACENO 12

Verso l' economia del neodualismo di Autori vari :iLe cronache consegna te alla tradizione insegnano che la prima grave depressione del dopoguerra si manifestò in Italia nel mese di ottobre del 1963. È un anno ormai lontano, che fu per la storia del paese carico di eventi. La instaurazione di un governo di centrosinistra, le aspre polemiche che avevano seguito la nazionalizzazione dell'industria produttrice di energia elettrica avvenuta l'anno precedente, il crollo di borsa che ne era seguito, le fughe di capitali conseguenti ai disinvestimenti attuati nei mercati finanziari nazionali, il disavanzo della bilancia dei pagamenti, il crescere della spirale inflazionistica, sono tutti avvenimenti che restano legati a quell'anno significativo, che vide insieme l'apertura della compagine governativa a forze politiche che ne erano rimaste escluse per lunghi anni e la brusca interruzione del processo di sviluppo. Con l'ottobre di quell'anno, per la prima volta dopo un dodicennio di espansione, l'indice della produzione industriale invertiva la tendenza e l'econornia del paese entrava in una lunga fase di depressione. Gli eventi immediati della crisi sono stati narrati più volte. Quanto è stato detto non richiede sostanziale revisione, anche a distanza di tanti anni. Quella che invece non è stata mai narrata in modo soddisfacente è la storia di quanto è seguito al fatale ottobre del 1963, nel corso di dieci lunghi anni che, attraverso alterne vicende, hanno visto sostanzialmente perdurare immutato lo stato di depressione dell'economia nazionale. Gli scritti che analizzano le vicende dell'economia italiana dopo la crisi sono numerosi; ma tutti, per un verso o per l'altro, non· * Questa nota è stata redatta a cura di alcuni ricercatori del Centro di Specializzazione e Ricerche economico agrarie per il Mezzogiorno dell'Università di Napoli (stesura a cura· di A. Graziani). 13

Autori vari forniscono la sintesi interpretativa necessaria. Da un lato, abbondano le analisi tecniche di aspetti singoli (inflazione, bilancia dei pagamenti, imprese pubbliche, controllo deHa liquidità); ma si tratta di visioni parziali, che si muovono nel campo nell'analisi di periodo breve, senza dare un'idea della direzione generale in cui l'economia nazionale si è andata muovendo, né di quali siano le forze che in questi lunghi anni l'hanno tenuta in vita e, bene o male, spinta verso configurazioni nuove. D'altro canto, non mancano interpretazioni strutturali. Ma queste, oltre che essere assai meno esaurienti e complete, ricalcano sovente linee di pensiero più generali, forse troppo generali, per dare risposte esaurienti alle curiosità dell'osservatore. Dire che la crisi dell'economia italiana è una manifestazione tipica delle contraddizioni del capitale, e che i conflitti cui abbiamo assistito sono l'espressione della lotta tra padronato e classe operaia, è qualcosa al tempo stesso di troppo facile e di troppo vago, se non è accompagnato da una interpretazione esplicita del modo in cui tali lotte si sono svolte e dei risultati cui hanno condotto. È perfettamente possibile che le categorie concettuali dell'economista marxista risultino efficaci nell'interpretazione dell'evoluzione della nostra economia; ma il farne un uso semplificato e paradigmatico, senza entrare nell'analisi dei singoli meccanismi, non può che dare luogo a diagnosi ampie e generali, e in definitiva insoddisfacenti. I quesiti che oggi ci poniamo si muovono su un piano di dettaglio maggiore: quali sono specificamente gli squilibri emersi nel corso della crisi? quale battaglia si è svolta in questi anni e tra quali forze? con quali risultati? Se uno sforzo va fatto, esso deve tendere a trovare risposte a questi interrogativi, non ad altri. Il quadro generale degli anni successivi al 1963 è un quadro di depressione. Un semplice sguardo agli indicatori più significativi mostra però che, nell'ambito degli otto anni seguiti al culmine dell'espansione, si possono distinguere tre fasi. La prima, che occupa gli anni dal 1964 al 1965, è una fase di depressione pronunciata; la seconda, che occupa gli anni fra il 1966 e il 1969, segna una moderata ripresa; la terza coincide con la nuova e più grave depressione degli anni 1970, 1971 e probabilmente 1972. · Nella prima fase ( 1964-65), tutti gli indicatori sono chiaramente orientati al declino: gli investimenti industriali cadono al ritmo de] 20% all'anno, gli investimenti in abitazioni rallentano e poi cadono del 6-7%, l'occupazione nell'industria manifatturiera si contrae del 14

Verso l' econo,nia del neodualis,no 2-3% , e perfino l'esodo agricolo quasi si arresta. Per converso, il saldo delle partite correnti della bilancia dei pagamenti si capovolge; e, da un passivo di 450 miliardi del 1963, passa ad un attivo di oltre 400 e poi addirittura di 1.400 miliardi: segno questo palese della caduta della domanda interna. La seconda fase segna una blanda ripresa: gli investimenti nell'industria risalgono faticosamente la china, e finalmente nel 1969 toccano nuovamente i livelli raggiunti nel 1963; gli investimenti in abitazioni reagiscono con maggiore velocità, riguadagnando i livelli del 1963 già nel 1967, e continuano ad espandersi fino al 1969; il reddito nazionale riprende a crescere a ritmi più sostenuti (intorno al 6% annuo) e l'occupazione industriale, dopo tre anni di declino, riprende a crescere. Resta tuttavia cospicuo l'avanzo della bilancia cornn1erciale, a testimoniare di una costante sottoutilizzazione delle risorse interne, segno di una ripresa non adeguata alle possibilità produttive del sistema. Questa fase di blanda ripresa viene interrotta nel 1970. Quest'anno segna una nuova svolta all'ingiù. Gli investimenti in abitazioni cadono del 7,4 % , il tasso di accrescimento del reddito nazionale flette dal 5,9°/o al 4,9%, gli investimenti industriali crescono ancora nella prima parte dell'anno, ma successivamente declinano nel 1971 e 1972; analoga sorte subisce l'occupazione; il saldo attivo delle partite correnti, che tocca un livello minimo nel 1970 con 500 miliardi, sale di nuovo a 1.200 miliardi nel 1971, e (secondo le previsioni) si avvia a toccare i 1.700 nel 1972. L'economia del paese si trova così nuovamente immersa nell:1 depressione. La ripresa degli anni 1966-69 è stata soltanto temporanea e non tale da configurare in sé e per sé una autentica fase di espansione. La sostanza degli eventi indica che l'economia del paese, entrata in una fase di crisi nel 1963, non ne è mai veran1ente uscita. La depressione per la quale tanti studiosi ricercano un filo interpretativo non è dunque un evento transitorio, ma una lunga parentesi durata quasi un decennio. Le interpretazioni della lunga depressione sono diverse. Per sen1plicità, conviene schernatizzarle in due filoni distinti, anche se simili riduzioni fanno inevitabilmente torto alla complessità e all'articolazione che ogni versione presenta. · Il primo filone richiama l'attenziòne essenzialmente sui proble-- mi dell'inflazione. In sintesi, questa versione degli eventi sostiene che, di volta in volta, sono se1npre state crisi di inflazione quelle che hanno costretto le autorità monetarie a intervenire con n1anovre re15

Autori vari strittive. L'origine remota della depressione risiederebbe quindi nel potenziale inflazionistico che l'economia italiana porta con sé. A questo punto, l'analisi si sposta necessariamente sull'identificazione dei fattori che sarebbero causa pern1anente di inflazione. Qui le interpretazioni sfociano in una molteplicità di valutazioni, che differiscono tra loro non solo nei dettagli, ma anche nell'impostazione di base. C'è chi vede alla radice dell'inflazione la pressione dei salari (questa è ovvia1nente la versione degli ambienti industriali, ed in parte la versione dell'Istituto di emissione); c'è chi considera causa determinante il fatto che la pressione salariale si sia concentrata in alcuni settori privilegiati, i quali hanno la forza contrattuale e la possibilità economica di ottenere trattamenti sempre più elevati, e finiscono con il trainare nella stessa scia tutti gli altri settori, ivi compresi quelli che, per motivi strutturali, non avrebbero alcuna possibilità di concedere aumenti salariali altrettanto elevati (questa è la versione di chi attribuisce la pressione salariale a spinte corporative, ed invoca quindi una disciplina salariale generalizzata sotto forma di politica dei redditi o di altre forme di regolamentazione concordata). C'è poi chi attribuisce la carica inflazionistica agli squilibri strutturali che sussistono dal lato dell'offerta di beni e servizi: secondo costoro, ogni aumento di salari, anche giustificato, comporta un aumento di domanda che urta contro un'offerta che, almeno in alcuni settori, risulta rigida: ne derivano aumenti dei prezzi (ad esmpio nel settore delle abitazioni, in quello dei prodotti alimentari, ecc.), che a loro volta mettono in moto la spirale dell'inflazione. Al polo opposto, contro gli interpreti dell'inflazione strutturale, vi è ancora chi pone alla radice dell'inflazione la spesa pubblica eccessiva, il costante disavanzo del bilancio dello stato, o, come talvolta si dice, la situazione rovinosa delle finanze pubbliche (anche se questi autori sono i medesimi che riconoscono come i cospicui disavanzi di competenza diano luogo ad altrettanti residui non spesi, per cui, quale che sia lo stato della finanza pubblica, è difficile che questa possa costituire fonte di inflazione). Al di là delle polemiche sulle cause dell'inflazione, l'aspetto principale sul quale è opportuno richiamare l'attenzione è che l'inflazione italiana, nel suo complesso, non è stata più veloce dell'inflazione negli altri paesi industrializzati. Questo è un elemento che non va trascurato, perché, quando si indica l'inflazione come elemento determinante delle manovre restrittive, si vuole evidentemente affermare che le autorità monetarie sarebbero state costrette ad intervenire, non per tutelare la stabilità monetaria in sé e per sé (anche 16

Verso l'economia del neodualismo se talune dichiarazioni ufficiali potrebbero indurre a pensare proprio così), ma soprattutto per tutelare la competitività delle nostre esportazioni sui mercati esteri. Ma se il tasso medio di inflazione in Italia non è stato superiore a quello degli altri paesi, la perdita di competitività non si è evidenternente verificata (o, se si è verificata, non va attribuita all'aumento dei prezzi). Quindi, le manovre restrittive delle autorità monetarie non possono avere avuto come movente quello della stabilità monetaria messa in pericolo. Su questo punto, basta ricordare pochi dati sintetici. Secondo dati elaborati dall'OCSE, in un gruppo di una quindicina di paesi industrializzati, osservati tra il 1963 ed il 1972, l'Italia, quanto a tasso di inflazione, non figura affatto al primo posto, bensì al dodicesimo. Il primo posto, come paese più colpito dall'inflazione tra quelli industrializzati, spetta alla Danimarca, la cui moneta, nel corso dei dieci anni presi in esame ha perso il 42 % del suo potere d'acquisto; l'ultimo posto spetta alla Germania Federale, la cui valuta ha perso soltanto il 25% del suo potere d'acquisto. L'Italia, come si è detto, si colloca in una posizione più che tranquillizzante, con una perdita di potere d'acquisto pari appena al 29%. Se poi ci si limita ad esaminare i sei paesi del Mercato Comune, con i quali i rapporti commerciali sono più intensi, il risultato non cambia di molto. Quanto a tasso di inflazione, il primo posto, in questo caso, spetta ai Paesi Bassi (perdita di potere d'acquisto del 38%) e l'Italia si colloca al penultimo posto, subito prima della Germania che, anche questa volta, chiude la serie. Un ulteriore elemento di conferma di questa situazione è dato dall'esame comparato dei prezzi dell'esportazione dall'Italia e dagli altri paesi industrializzati. Utilizzando le elaborazioni della Banca d'Italia, la situazione emerge sufficientemente chiara. I prezzi all'esportazione dei manufatti italiani, dopo un periodo di stabilità durato dal 1963 al 1968, sono cresciuti, fino al 1971, con un aumento di circa il 15%; i prezzi all'esportazione, sempre dei manufatti, sono cresciuti invece negli altri paesi con ritmo pressoché ininterrotto dopo il 1963, fino a raggiungere, nel 1971, un aumento quasi del 25% . Anche sotto questo aspetto, non sembra ragionevole parlare di una perdita di competitività delle esportazioni italiane, attribuibile all'andan1ento dei prezzi. Se quindi si vuole puntare l'indice accusatore contro l'inflazio-· ne, forse si chiama in causa un element'o non determinante; se poi si vuole dire che l'inflazione è stata contenuta entro limiti di sicurezza proprio a causa delle misure prese dalle autorità monetarie, bisogna anche riconoscere che tali misure sono andate oltre il neces17

Autori vari sario, e che anche un tasso di inflazione più elevato non avrebbe gravemente danneggiato la nostra posizione competitiva. La riprova di questa interpretazione è fornita dalla situazione dei nostri conti con l'estero. Il saldo delle transazioni correnti (merci, servizi e redditi dei fattori) è stato costantemente positivo a partire dal 1964; e perfino il saldo dei soli movimenti di merci (che, in condizioni normali, data la struttura dell'economia italiana, dovrebbe essere passivo) è stato attivo in cinque degli otto anni che vanno dal 1964 al 1971. Accusare l'inflazione e la perdita di competitività delle nostre esportazioni sembra quindi fuor di luogo. Un secondo filone di interpretazioni si rifà ai problemi dei rapporti tra produttività e salari, visti questa volta non come fonte di inflazione, ma come elemento determinante del profitto e quindi degli investimenti. Secondo questo modo di vedere, la pressione costante dei salari al di là degli aumenti di produttività avrebbe compresso oltre n1isura i margini di profitto, riducendo per questa via gli investimenti. Questa visione procede a sua volta in due versioni distinte. La prima considera i profitti soprattutto come fonte di finanziamento per l'impresa, e ritiene quindi che la compressione dei profitti avrebbe comportato anzitutto l'inaridirsi delle fonti di finanziamento, rendendo così assai più ardua, se non impossibile, l'esecuzione degli investimenti. Questa versione, coltivata soprattutto (ma non esclusivamente) negli ambienti imprenditoriali, sostiene coerentemente che la via della ripresa debba passare per una preventiva restaurazione di equilibri più ragionevoli nei bilancì aziendali. La seconda versione vede nel profitto anzitutto uno stimolo all'investimento, dal momento che il sistema capitalistico è per definizione un sistema produttivo nel quale la produzione viene svolta esclusivamente per il conseguimento del profitto. La pressione salariale, secondo questo modo di vedere, avendo oltrepassato un limite massimo, avrebbe ridotto il livello dei profitti al disotto di quello che è necessario per la preservazione del sistema capitalistico stesso. A livelli di profitto così bassi, sarebbe semplicemente impossibile trovare imprenditori disposti a rischiare su base individuale, ed a svolgere la funzione che il gioco del capitalismo loro assegna. Ambedue queste tesi vanno valutate anzitutto alla luce dei fatti, quali risultano dalle statistiche ufficiali. Secondo dati elaborati dalla Banca d'Italia, e pubblicati nell'ultima Relazione annuale, la quota di reddito attribuita al lavoro dipendente è andata costantemente diminuendo negli anni successivi al 1964, ed ha mostrato un'inver18

Verso l'economia del neodualismo sione di tendenza al rialzo soltanto nel 1970 e nel 1971. Attualmente, la quota di reddito attribuita al fattore lavoro non supererebbe il livello del 1964 se non del 4-5 %, variazione questa che non sembrerebbe tale da giustificare tutte le conseguenze che viceversa se ne vogliono trarre. Questa situazione, vale la pena di aggiungerlo, si riscontra sia nel sistema economico nel suo complesso, sia nel solo settore privato; l'unico settore che fa eccezione è quello dell'agricoltura, che è il solo nel quale la quota di reddito attribuita al lavoro dipendente sia sostanzialmente cresciuta dopo il 1964. Vi è però un secondo elemento che, in quanto influisce sui profitti, non va trascurato, e che viceversa l'interpretazione basata esclusivamente sui rapporti tra salari e produttività lascia del tutto nel1' ombra. Quando, per spiegare la caduta degli investimenti, si risale alla caduta dei profitti, non bisogna dimenticare che il profitto (sia misurato come margine di profitto che come volume globale) dipende strettamente dal grado di utilizzazione degli impianti. In periodi di depressione, è probabile che i profitti vengano compressi non tanto dalla pressione dei salari, quanto dal fatto stesso che la domanda del mercato sia bassa, e produca dei salari, quanto dal fatto che la domanda del mercato sia bassa, e produca in tal modo un grado di utilizzazione degli impianti insufficiente. Se prendiamo in considerazione i dati relativi al grado di utilizzazione della capacità produttiva nell'industria manifatturiera italiana, il fenomeno risulta evidente. Il grado di utilizzazione degli impianti, dopo avere toccato un livello massimo nel 1963, al culmine della fase di espansione, è andato sostanzialmente declinando. Le cifre elaborate a questo proposito dall'Istituto nazionale per lo studio della congiuntura mostrano la situazione nei seguenti termini. Il primo spunto di ripresa seguito alla depressione del 1964 culn1ina nella primavera del 1969, quando si raggiunge un grado di utilizzazione pari all'84%. Dopo di allora, il grado di utilizzo declina progressivamente, fino a toccare, nel primo trimestre del 1972, il livello del 75% appena. In queste condizioni è evidente che è la bassa utilizzazione degli impianti che incide negativamente sui profitti. Quando il costo degli impianti grava su un volurne di produzione ridotto, il costo medio ne risulta automaticamente accresciuto, quale che sia la componente salariale, e la sua incidenza sui costi. Se si vogliono discutere gli effetti che i salari hanno esercitato sul livello dei profitti, occorre esaminare periodi di tempo nel corso dei quali il grado di utilizzo della capacità produttiva è stato omogeneo; se si paragonano periodi di alta utilizzazione con periodi di utilizzazione ridotta, qual19

Autori vari siasi illazione in merito alle conseguenze della pressione salariale non può che essere logicamente viziata. Resterebbe una sola possibilità per attribuire .alla pressione salariale il calo dei profitti. Ed è quella che, pur riconoscendosi che la caduta dei profitti è dovuta alla scarsa utilizzazione degli impianti, si voglia sostenere che a sua volta la scarsa utilizzazione degli impianti è dovuta a fattori connessi alle agitazioni sindacali, ed alle irregolarità che hanno caratterizzato lo svolgimento dei processi produttivi dall'autunno del 1969 in poi. Ma sono gli stessi imprenditori a smentire le eventuali interpretazioni in questo senso. Le inchieste congiunturali mensili condotte da « Mondo Economico », i cui risultati ognuno può agevolmente consultare indicano che la schiacciante maggioranza degli imprenditori, dovendo individuare i motivi che hanno ostacolato l'attività di produzione, accusa l'insufficienza della domanda, e non altri fattori. L'impressione conclusiva che si trae da queste osservazioni può quindi essere sintetizzata così. Su tutti gli elementi passati in rassegna, domina, come fattore primo della depressione, la caduta della don1anda. È questa che ha condotto alla sottoutilizzazione degli impianti, che a sua volta ha provocato simultaneamente la caduta dei profitti e la stasi degli investimenti. A questo punto, sorge evidentemente il quesito: perché questa lunga caduta della domanda globale, che ha pesato sull'economia del paese per quasi un decennio? Va essa attribuita alla pressione salariale, alla crisi di inflazione, alle strette· creditizie (siano esse state inevitabili o prese con una consapevole deliberazione)? Una risposta ovviamente non è facile. Forse il modo migliore per orizzontarsi è quello di ripercorrere brevemente alcuni aspetti particolarmente significativi delle vicende che l'economia del paese ha attraversate, nel tentativo di individuare un eventuale disegno logico, tracciato, in modo sia pure inconsapevole, dagli eventi. Cominciamo da alcune osservazioni più generali. Tre modificazioni strutturali hanno dominato l'economia italiana nel decorso decennio. La prirna è l'incremento sempre più profondo nell'economia europea: inserimento che, iniziatosi nel corso del decennio 1951-1961, è proseguito vigorosamente negli anni più vicini a noi. Nel 1952,-le esportazioni italiane verso l'area comunitaria rappresentavano il 21 % del totale; nel 1961, il 31 %, nel 1971 quasi il 45 % . Analoga evoluzione si è avuta dal lato delle importazioni: nel 1951, le importazioni dai paesi della CEE erano il 159-'6 20

Verso l'econo,nia del neodualis,no del totale, nel 1961 poco meno del 30%, nel 1971 erano passate al 42 % . Occorre altresì tenere presente che ormai il 95 % delle nostre esportazioni è rappresentato da prodotti dell'industria manifatturiera; e questo significa che, per una quota considerevole, la nostra produzione industriale è esposta direttamente alla concorrenza di paesi industrialmente assai più avanzati e dinamici. La pressione competitiva sulle nostre produzioni è quindi non solo molto elevata, ma quel che più conta, continuamente crescente. Il secondo aspetto che si deve ricordare è costituito dalla redistribuzione della popolazione tra agricoltura e centri urbani. Negli anni successivi al 1963, l'esodo agricolo è proseguito, nonostante la stasi della produzione industriale. In definitiva, una diminuzione dei lavoratori permanenti in agricoltura, al ritmo di 250 mila unità all'anno, quale si verificò fra il 1959 ed il 1963, non stupisce affatto, se si pensa che quelli erano gli anni in cui l'industria (non solo italiana, n1a anche europea) assorbiva manodopera a ritmi apparentemente illimitati. Una caduta di eguali proporzioni stupisce invece quando essa si verifica tra il 1967 e il 1971, perché in questi anni, men tre gli addetti permanenti all'agricoltura sono diminuì ti di circa un n1ilione, gli addetti all'industria sono aumentati soltanto di poco. Il risultato è che, mentre negli anni del miracolo l'esodo agricolo alimentava l'occupazione industriale, negli anni più recenti l'esodo agricolo ha alimentato gli addetti al settore terziario, e cioè commercio, servizi, pubblica amministrazione. Si potrebbe pensare che il rigonfiamento del settore terziario rientri nelle necessità organiche dello sviluppo industriale. Ma gli eventi del nostro paese smentiscono questa possibile interpretazione. Fra il 1959 ed il 1963, anni di intenso sviluppo industriale, gli addetti alle attività terziarie rimasero praticamente stazionari; viceversa, fra il 1967 ed il 1971, anni di stasi produttiva, gli addetti al commercio sono cresciuti di oltre 400 mila unità. Il settore terziario quindi si gonfia, ma non nella misura richiesta da una naturale funzione cornplementare rispetto alle attività manifatturiere, bensì per svolgere qualche altra funzione sua propria, che meriterebbe di essere indagata. Il terzo punto che occorre richiamare è lo sviluppo prepond_erante dell'impresa pubblica, o a part~cipazione pubblica. È ormai un fatto accettato che, nel settore delle grandi imprese, ben poco è rimasto in mani private, almeno per quanto concerne le attività manifatturier~ (diversa la situazione nel campo finanziario e assicurativo). È del pari fatto largamente accettato che le strategie dell'im21

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