Editoriale quelle affermazioni poteva1no dedurre che c'è un punto d'incontro fra l'azione sindacale e l'azione n1eridionalista; e c'è con1unque un punto d'incontro fra le « necessarie revisioni critiche » che impegnano i sindacati ed il nostro discorso di sempre sul nesso fra la scelta delle priorità e la verifica della co1npatibilità, sulla concezione 1neridionalista dello sviluppo italiano, sul disegno globale che deve dare coerenza alla strategia delle riforme. Ma ora ci domandiamo: fino a che punto, dopo il convegno di Reggio Calabria, del quale si è detto che non voleva essere una « parata » e che doveva configurarsi co111e « un 1nomento di riflessione critica», il Mezzogiorno sarà pietra di paragone dell'azione sindacale? Fino a che punto si terrà conto, nei con1portamenti degli stati 1naggiori sindacali, dell'im,possibilità di conciliare uno « scontro duro », come quello preannunciato da Carniti e con1e quello del 1969, con le buone intenzioni meridionalistiche proclamate da Reggio Calabria? Fino a che punto ci si rende conto che il costo più alto dei limiti di settorialismo, contrattualisn10, corporativismo e anche, per certi effetti, settarismo, che hanno viziato dal '69 in poi i co1nportamenti sindacali, lo sta pagando il Mezzogiorno, dove l'industrializzazione si è fern1.ata e comincia e regredire? L'affermazione di Trentin che ha richiamato l'attenzione degli osservatori del convegno di Reggio Calabria è questa: « abbiamo sbagliato limitandoci ad organizzare le categorie degli occupati». È un'affennazione interessante, in quanto potrebbe consentire di fissare almeno i termini generali di un discorso revisionistico che investe i tradizionali comportamenti dei sindacati e soprattutto le più recenti degenerazioni corporativistiche di tali comportamenti ( imputabile, a nostro giudizio, assai più ai quadri intermedi e alle basi che non ai vertici dei sindacati). Si tratta, infatti, di collocare al centro del discorso revisionistico il problema dei disoccupati e sottoccupati del Mezzogiorno, dal quale si è voluto prescindere finora, accusando di voler dividere la classe operaia e di voler attentare all'autono1nia sindacale (anche un primitivo socialista calabrese ha rilanciato in questi giorni tale accusa dalla « Tribuna precongressuale » dell'« Avanti! ») chi insisteva, richiamandosi ad un Salvemini più attuale che 1nai, a sollecitare i sindacati perché non si lin1itassero a « tallonare » lo sviluppo, e poi magari a contrastarlo, ma si ùnpegnassero, al « tavolo della program,nazione », oi fini di una diversa ·e migliore qualificazione civile dello sviluppo econo,nico; e in particolare per evitare che le categorie più deboli e le regioni più deboli siano condannate a diventare sempre più deboli in conseguenza di un'azione di governo e di un'azione sindacale condizionate, l'una e l'altra, dalle pressioni delle categorie più forti e delle regioni più forti. 5
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