Nord e Sud - anno XIX - n. 155 - novembre 1972

NORD E SUD Rivista mensile diretta da Francesco Compagna Alessandro Amati, Il « vertice di Parigi» - Luigi Compagna, Il marxismo co1ne teologia - Fabio Narcisi, La politica territoriale degli incentivi - Autori vari, Congiuntura e Mezzogiorno - Nino Novacco, Le scelte per la chimica e scritti di Vibio Bongini, Mario Centorrino, Antonino de Arcangelis, Manlio Di Lalla, Annamaria Gentile, Vincenzo Litta, Tommaso Luce, Maurizio Mistri, Fabio Narcisi ANNO XIX - NUOVA SERIE - NOVEMBRE 1972 - N. 155 (216) EDIZIONI SCIENTIFICHE ITALIANE - NAPOLI

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NORD E SUD Rivista mensile diretta da Francesco Compagna ANNO XIX NOVEMBRE 1972 - N. 155 (216) DIREZIONE E REDAZIONE: Via Chiatamone, 7 - 80121 Napoli - Telef. 393.347 Amministrazione, Distribuzione e Pubblicità: EDIZIONI SCIENTIFICHE ITALIANE - S.p.A. Via Chiatamone, 7 - 80121 Napoli - Tel. 393.346 Una copia L. 600 - Estero L. 900 - Abbonamenti: Sostenitore L. 20.000 - Italia annuale L. 5.000, semestrale L. 2.700 - Estero annuale L. 6.000, semestraie L. 3.300 - Fascicolo arretrato L. 1.200- Annata arretrata L. 10.000- Effettuare i versamenti sul C.C.P. 6.19585 Ediz. Scientifiche Italiane - Via Chiatamone 7, Napoli

SOMMARIO Editoriale [ 3] Alessandro Amati Il « vertice » di Parigi [7] Luigi Compagna Il marxismo come teologia [15] Fabio Narcisi La politica territoriale degli incentivi [21] Autori Vari Congiuntura e Mezzogiorno [28] Cronache parlamentari Nino Novacco Le scelte per la chimica [34] Giornale a più voci Mario Centorrino La laurea del sottosviluppo [ 42] Vincenzo Litta Le nuove tariffe telefoniche urbane [ 48] Fabio Narcisi Contraddizioni per il Mezzogiorno [52] Annamaria Gentile Lo sviluppo delle « pipelines » in Europa [54 J Argomenti Maurizio Mistri Il « leasing » immobiliare [ 60] t\ntonino de Arcangelis Il saldo regionale di vitalità [79] Industria Tommaso Luce Un'industria per l'energia elettrica [88] Testimonianze Vibio Bongini Un giornalista contro l'« Ordine » [94 J Saggi Manlio Di Lalla I nodi del liberalisn10 [ 101]

Editoriale In questo editoriale riteniamo opportuno riprendere ed aggiornare il commento al convegno di Reggio Calabria che abbiamo anticipato su « La Voce Repubblicana » del 24 ottobre: sia perché la platea dei lettori di un quotidiano di partito, sia pure il più vicino alla nostra linea politica, non coincide che in parte con quella dei lettori di una rivista mensile come « Nord e Sud»; sia perché l'indignazione per le bombe seminate sui percorsi dei treni che conducevano lavoratori di altre regioni a Reggio Calabria ha distolto l'attenzione dai contenuti di un convegno che meritava di essere seguito da con1menti e discussioni più di quanto non sia stato possibile dal momento in cui commenti e discussioni sono stati dirottati dalle esplosioni. In particolare, è proprio questa una di quelle occasioni che consentono di precisare come e perché le posizioni del meridionalismo di ispirazione classista si distinguono dalle posizioni dei meridionalisti che, come noi, non derivano dal classismo i loro criteri di valutazione politica, ma si richiamano alla teoria democratica degli interessi generali; e come e perché, tuttavia, le posizioni critiche dei secondi possono influenzare, correggendoli, gli atteggiamenti dei primi, che oggi, infatti, ci sembrano assai più responsabili di quanto finora non lo siano stati, anche se c'è ancora, fra i sindacalisti, chi si muove nella logica della categoria e non intende quella della programmazione, così come c'è ancora a sinistra chi è rimasto condizionato da un lessico della « confl.ittualità » che non accenna a diventare meno delirante di quanto lo era prima che la crisi industriale si manifestasse in tutta la sua gravità. Se però dovessimo dire che cosa ci ha colpito dello stile e del tono dei sindacalisti convenuti a Reggio Calabria, diremmo che è proprio l'ilnpressione di una minore risonanza di questo lessico della « conflittualità », di una maggiore propensione a subordinare la « conflittualità » alla con1patibilità: anzitutto alla compatibilità dell'intento di assicurare lo sviluppo dell'occupazione nel Mezzogiorno con le rivendicazioni contrattuali e settoriali. A Reggio Calabria si è parlato, di « c·entralità » della questione meridionale e si è detto esplicitamente che l'impostazione data alla politica delle riforrne relegava il Mezz.ogiorno « in una posizione non prioritaria nell'elenco dei temi di rifonna da affrontare ». Rilievo critico indirizzato dai sindacati alle forze. politiche? Certo; e non infondato. Ma anche re3

Editoriale versibile, come rilievo critico che le forze politiche potrebbero indirizzare ai sindacati. Autocritica dei sindacati? Forse anche. È comunque importante che i sindacati abbiano voluto procla1nare la centralità e la priorità dell'azione 111eridionalista; e ancor più che abbi2no voluto preannunciare che da ora in poi intendono ravvisare nel Mezzogiorno il punto di riferin1ento costante dell'azione sindacale. Tante volte, negli ultirni anni e negli ultimi mesi, abbiamo scritto sulle pagine di questa rivista che è semplicistico parlare di riforme per la casa, per la scuola, per la sanità, per i trasporti, per il Mezzogiorno (e magari eccetera). Queste riforme devono avere tutte come punto di riferiJnento costante il Mezzogiorno, se non si vuole che risultino appena in grado di medicare gli effetti,. senza poter incidere sulle cause di squilibri sempre più gravi. Perché queste cause sono tutte riconducibili allo squilibrio degli squilibri, per così dire: quello fra le due I talie, a nord e a sud della linea Ron1a-Pescara. Il Mezzogiorno non va collocato, quindi, fra le riforme che si devono fare, perché è « orizzontale », o se si preferisce « centrale », rispetto a tutte le riforme e rispetto a tutte le politiche settoriali. E quando,. negli ultirni anni e negli ultimi mesi, abbia,no denunciato gli errori di co111portamento sindacale che hanno contribuito a determinare, con la crisi industriale, la crisi della politica meridionalista, ci riferiva,no agli stessi errori di cui ora ha scritto Bruno Trentin su « l'Unità », prima di « scendere » a Reggio Calabria: « limiti di settentrionalismo e di contrattualisn10 »; e perfino « limiti di corporativismo ». Non solo: se Trentin ha scritto di questi «·lirniti », e degli « errori del passato » che ne sono derivati, e ne ha dedotto che si devono avviare le « necessarie revisioni critiche », un discorso autocritico in senso meridionalistico è stato avviato anche all'interno della CISL: da parte di Scalia e, con molta efficacia, da parte di Taccone. E del resto la preoccupazione per il settorialismo, per il contrattualisn10, per il corporativismo aveva cominciato a serpeggiare da qualche tempo fra gli stati maggiori della CGIL: avvertita da dirigenti che hanno conoscenza ed esperienza dei dati della questione meridionale, come Vignola, e condivisa dallo stesso Lama in più di un'occasione. Non ci era sfuggito a suo tempo il senso che voleva avere, e che aveva, il documento delle tre Confederazioni pubblicato il 15 luglio del 1971 e nel quale si leggeva della necessità di cogliere le « strette implicazioni» fra l'azione contrattuale e quella per il Mezzogiorno e l'occupazione. A quel documento abbiamo dato 1nolto rilievo nei nostri editoriali, così come l'abbiamo dato alle affennazioni di Lama che lo ricalcavano e lo richiamavano (dibattito con Giolitti sul « Mondo » del marzo del 1972) perché da 4

Editoriale quelle affermazioni poteva1no dedurre che c'è un punto d'incontro fra l'azione sindacale e l'azione n1eridionalista; e c'è con1unque un punto d'incontro fra le « necessarie revisioni critiche » che impegnano i sindacati ed il nostro discorso di sempre sul nesso fra la scelta delle priorità e la verifica della co1npatibilità, sulla concezione 1neridionalista dello sviluppo italiano, sul disegno globale che deve dare coerenza alla strategia delle riforme. Ma ora ci domandiamo: fino a che punto, dopo il convegno di Reggio Calabria, del quale si è detto che non voleva essere una « parata » e che doveva configurarsi co111e « un 1nomento di riflessione critica», il Mezzogiorno sarà pietra di paragone dell'azione sindacale? Fino a che punto si terrà conto, nei con1portamenti degli stati 1naggiori sindacali, dell'im,possibilità di conciliare uno « scontro duro », come quello preannunciato da Carniti e con1e quello del 1969, con le buone intenzioni meridionalistiche proclamate da Reggio Calabria? Fino a che punto ci si rende conto che il costo più alto dei limiti di settorialismo, contrattualisn10, corporativismo e anche, per certi effetti, settarismo, che hanno viziato dal '69 in poi i co1nportamenti sindacali, lo sta pagando il Mezzogiorno, dove l'industrializzazione si è fern1.ata e comincia e regredire? L'affermazione di Trentin che ha richiamato l'attenzione degli osservatori del convegno di Reggio Calabria è questa: « abbiamo sbagliato limitandoci ad organizzare le categorie degli occupati». È un'affennazione interessante, in quanto potrebbe consentire di fissare almeno i termini generali di un discorso revisionistico che investe i tradizionali comportamenti dei sindacati e soprattutto le più recenti degenerazioni corporativistiche di tali comportamenti ( imputabile, a nostro giudizio, assai più ai quadri intermedi e alle basi che non ai vertici dei sindacati). Si tratta, infatti, di collocare al centro del discorso revisionistico il problema dei disoccupati e sottoccupati del Mezzogiorno, dal quale si è voluto prescindere finora, accusando di voler dividere la classe operaia e di voler attentare all'autono1nia sindacale (anche un primitivo socialista calabrese ha rilanciato in questi giorni tale accusa dalla « Tribuna precongressuale » dell'« Avanti! ») chi insisteva, richiamandosi ad un Salvemini più attuale che 1nai, a sollecitare i sindacati perché non si lin1itassero a « tallonare » lo sviluppo, e poi magari a contrastarlo, ma si ùnpegnassero, al « tavolo della program,nazione », oi fini di una diversa ·e migliore qualificazione civile dello sviluppo econo,nico; e in particolare per evitare che le categorie più deboli e le regioni più deboli siano condannate a diventare sempre più deboli in conseguenza di un'azione di governo e di un'azione sindacale condizionate, l'una e l'altra, dalle pressioni delle categorie più forti e delle regioni più forti. 5

Editoriale Si vedrà nel prossin10 futuro quale sarà il seguito di Reggio Calabria e se la coerenza meridionalista, che a Reggio si è. detto di voler cercare e trovare, sarà effettivamente cercata e trovata; o se a Reggio si è cercata soltanto una copertura tattica, tanto più necessaria dopo le ultime vicende della CISL, nei confronti della critica meridionalista ai tradizionali schemi di azione sindacale ed ai comportamenti settoriali, contrattuali, corporativi e settari degli ultimi tempi. Noi ovviamente ci auguriamo che l'autocritica sindacale sia schietta e il più corrispondente possibile alla critica meridionalista, che, a sua volta, sembra corrispondere alla « lezione delle cose ». Ma sappiamo che, scelto il punto di partenza, non è detto che sia vicino quello di arrivo. Perché, se il punto di partenza è il riconoscimento degli errori di contrattualismo, settorialismo, corporativismo, il punto di arrivo dovrebbe essere il riconoscimento del nesso fra la scelta delle priorità e la verifica delle compatibilità, e quindi la presenza al « tavolo della programmazione ». 6

Il " vertice " di Parigi di Alessandro Amati Tracciare un bilancio del recente vertice di Parigi implica una serie di valutazioni da una varietà di prospettive, che non rendono facile un giudizio globale. Si tratta di vedere quanto questi programmi siano realizzabili e fino a qual punto la enunciazione di principi sia adeguata alle esigenze della situazione internazionale e possa tradursi in azione pratica. La riunione fa seguito al vertice de l'Aja del dicembre 1969, convocato anch'esso per injziativa deHa Francia, in cui il Presidente Pompidou, da poco assunto il potere, tolse il veto all'ingresso dell'Inghilterra e degli altri paesi dell'EFTA. Logicarnente, quindj, il nuovo vertice si è tenuto nel momento in cui i nuovi Stati, con la defezione della Norvegia all'ultimo momento, si apprestano a diventare membri di pieno diritto della Comunità, come è ricordato in testa alla Dichiarazione conclusiva. L' « allargamento » è quindi un fatto compiuto, e non sarà un nuovo governo laburista - con buona pace dei dottrinari che, per la prima volta, e non per sua fortuna, hanno un peso preponderante in quel partito - che potrà distruggere ciò che è stato costruito. Nei tre anni trascorsi dalla riunione de l'Aja si è lavorato attivamente attorno alla costruzione europea negli organi co1nunitari, negli incontri dei Ministri, nelle varie capitali, per realizzare, dopo l'« allargamento», l'« approfondimento», terzo termine del noto trittico (il primo, il « completamento », si era realizzato a l'Aja, quando venne riconosciuta la irreversibilità della politica comunitaria e si deci~e di passare dal periodo transitorio alla fase definitiva della Comunità europea). I progressi maggiori si sono avuti nel campo 1nonetario; e ciò è ben naturale dopo la preparazione effettuata e gli avvenimenti verificatesi negli ultimi anni, dalla fluttuazione del marco e del fiorino alla svalutazione del dollaro. Ora, nel riaffermare l'obiettivo della creazione dell'Unione economica e monetaria entro il 1980, sono state prese alcune importanti decisioni per realizzarlo: Con il gennaio del 1974 si passerà 7

Alessandro Amati alla seconda tappa di tale unione, con un programn1a graduale, ma preciso. Entro il 1973 sarà creato un Fondo europeo di cooperazione monetaria che nella fase iniziale avrà il compito di concertare l'azione delle banche centrali per mantenere la parità tra le varie monete, provvedere alla gestione del sostegno a corto termine tra le banche centrali alla fine di ogni mese. Due rapporti dovranno essere presentati entro il prossimo anno: entro il 30 settembre per le questioni riguardanti i crediti a breve termine ed entro il 31 dicembre per la messa in comune progressiva delle riserve. Il Fondo, una volta 111esse in con1une parte delle riserve delle banche centrali comunitarie, potrebbe emettere « unità di conto europee». Principi realistici ed equilibrati vengono fissati all'azione dei paesi comunitari in vista della riforma del sistema monetario internazionale; ed a questo riguardo si può notare un ammorbidimento di talune onnai classiche posizioni dottrinarie francesi circa la funzione dell'oro. Questo insieme di misure, di cui non si può non rilevare l'im.- portanza e la concretezza nel settore considerato, dovrebbe fornire ai paesi della Comunità - o, per meglio dire, alla Comunità stessa - lo strumento primo per la sua espansione ed il suo equilibrio economico. Poiché, però, per ottenere un equilibrato sviluppo economico e sociale, l'ordine monetario è elemento necessario, ma non sufficiente, si è deciso di correggere gli squilibri regionali dell'area co1nunitaria attraverso l'azione di un Fondo per lo sviluppo regionale che dovrà essere alimentato dalle risorse proprie della Comunità e che dovrà entrare in funzione prima del 31 dicen1bre 1973. Come è noto, l'istituzione del Fondo è stata un successo per il nostro paese il quale si è trovato ad avere alleati per tale obiettivo l'Inghilterra e l'Irlanda nel quadro di quel vasto do ut des a cui danno luogo gli incontri comunitari. La formula adottata rispecchia fedelmente gli interessi dei tre principali interessati. Il Fondo dovrà infatti correggere - con priorità e con azione coordinata con quella nazionale - « i principali squilibri regionali nella con1unità ampliata, in particolare quelli risultanti da una predominanza agricola, dalle trasformazioni industriali e da una sotto-occupazione strutturale ». Se tale decisione viene ovviamente incontro alle nostre esigenze, è anche chiaro che l'uso che si farà del Fondo, « coordinato con gli aiuti nazionali », darà luogo a tutta una problematica che 8

Il « vertice » di Parigi nel quadro di questo scritto non trova posto neppure per un breve cenno e di cui ci si limita a sottolineare l'importanza. Meno preciso risulta - ma meraviglierebbe il contrario - il programma di azione nel campo sociale di cui la paternità risale al governo della Repubblica federale. Premesso che si considera indispensabile pervenire ad una crescente partecipazione delle parti sociali alle decisioni economiche e sociali della Comunità, si dà mandato alle istituzioni comunitarie di redigere un program1na, entro il 1° gennaio del 1974, avente per fine l'attuazione di una politica coordinata in materia di occupazione, la collaborazione dei lavoratori negli organi delle imprese, nonché la tendenza alla conclusione di contratti collettivi europei. Neppure si dimentica l'azione volta alla protezione dei consumatori in un programma non poco an1bizioso e, nella sua vastità, non eccessivamente coerente. Altro rapporto è commissionato alle istituzioni comunitarie, sempre per il 1° gennaio del 1974, per un programma di azione nel campo dell'industria che miri a creare una base industriale eguale per tutta la comunità. Il quadro d'azione nel campo economico e sociale è completato dall'affermazione di interesse per una politica di protezione dell'ambiente per una politica energetica che garantisca un approvvigionamento in condizioni economiche soddisfacenti. Questo programma, variamente concreto, ma indubbiamente concepito in base ad una visione globale, pur con talune manchevolezze, ed enunciazioni di principio la cui attuazione sembra problematica (il punto primo della Dichiarazione ricorda molto opportunamente, anche per chi è al di là dei Pirenei, che .l'Europa è fondata sulla democrazia - e la democrazia senza qualificazioni si fonda sulle elezioni, e l'elettore deve pure essere considerato), fornisce comunque una piattaforma più che sufficiente all'azione che dovranno svolgere gli organi comunitari. Pertanto il giudizio che se ne dà è completamente positivo e ciò tanto più in quanto i risultati che si sono illustrati sono stati raggiunti in seno alla Comunità allargata, nella quale i nuovi membri (già dal 1° gennaio del 1972 praticamente ammessi nei consessi comunitari) hanno mostrato di saper pienamente adattarsi allo spirito e ai metodi della prassi comunitaria e di dare un contributo più che apprezzabile alla costruzione europea. Sul piano istituzionale sono anche da registrare dei progressi. Non quelli auspicati da molti:· reiezione dei n1embri del parlamento 9

Alessandro A111ali europeo a suffragio universale e diretto, ai termini dell'art. 138 del Trattato di Roma, è rin1andata implicitamente a tempi migliori malgrado la coraggiosa azione della delegazione olandese. Ma il principio è stato riaffern1ato ed è confermata la decisione del Consiglio della Comunità, dell'aprile 1970, di rafforzare i poteri di controllo del Parlamento europeo e di migliorare i rapporti di questo con il Consiglio e la Commissione. Si è anche deciso che il Consiglio prenda, entro il 30 giugno del 1973, misure pratiche destinate a migliorare « le sue procedure di decisione e la coerenza dell'azione oomunitaria ». In taile settore, oltre ad altre misure che non vale ricordare in dettaglio, è assai importante che ci sia trovati d'accordo che, per realizzare i compiti definiti nei vari programmi d'azione della Comunità, è opportuno utilizzare ampiamente quell'art. 235 del Trattato di Roma che è carico di potenzialità in quanto permette di integrare le disposizioni del Trattato quando un'azione della Comunità risulti necessaria per raggiungere uno degli scopi della Comunità. Per far ciò occorre, ed è ben naturale, l'unanimità del Consiglio su proposta della Con1missione e dopo aver consultato l'Assemblea. Ma è chiaro che attraverso il ricorso a tale disposizione si potrà imprimere un dinamismo n1aggiore all'opera di costruzione europea. Tuttavia i proble1ni economici e sociali, nonché quelli istituzionali, sono solo un elemento - importante -certo, ma sempre un elemento - del quadro politico generale in cui si colloca l'azione dei paesi della Comunità. Ed infatti la Dichiarazione finale, dopo tutta una serie di considerants, proclama che « è giunta l'ora per l'Europa di prendere una chiara coscienza dell'unità dei suoi interessi, dell'ampiezza delle sue capacità ... L'Europa deve essere in grado di far sentire la propria voce nelle cose mondiali ... ». E nel comunicato, in testa al capitolo riguardante le relazioni esterne, si afferma chiaramente il concetto della strumentalità della costruzione comunitaria. Vi si dice, infatti, che questa non ha senso che nella misura in cui gli Stati-membri riescono ad agire insieme per far fronte alle responsabilità crescenti che incombono all'Europa nel mondo. Queste espressioni non possono non essere caldamente approvate, ma l'osservatore politico non si è ancora accorto che sulla scena mondiale, e per qualche problema importante, i paesi europei agiscano con una v1s1one politica ed una volontà comuni. Il solo settore in cui si è realizzata una certa misura di unità 10

Il « vertice » di Parigi di atteggiamento è quello n1onetario, il che è un fatto positivo, sempre che si abbia cura di inquadrare il non facile negoziato che si aprirà con gli Stati Uniti, nonché quello che investirà gli scambi commerciali in seno al GATT, nel quadro dei rapporti globali che l'Europa ha con essi. In tale quadro l'Europa ha tutto l'interesse di rinsaldare una base di intesa, nell'attuale situazione mondiale, con la superpotenza i cui interessi fondamentali potrebbero non apparire coincidenti solo se dalle due parti si compissero errori macroscopici di valutazione politica. Non crediamo che tale osservazione sia del tutto oziosa perché sulla Dichiarazione (presentata dalla Francia e lievemente emendata dalla conferenza) aleggia tuttora un certo spirito gollista. Così, ad esempio, all'ultimo punto della Dichiarazione mancava ogni riferimento alle amicizie tradizionali dell'Europa che gli altri paesi hanno fatto inserire. Così (strana scala di priorità), sia nella Dichiarazione che nel comunicato, prima si accenna ai rapporti con i paesi in via di sviluppo, poi a quelli con i paesi dell'Est ed infine a quelli con gli Stati Uniti ed al posto dell'Europa nel mondo. La mancanza di unità di atteggiamento dei nove appare infine nel modo più evidente nei confronti dell'avvenjmento internazionale più vicino e più importante, la conferenza per la sicurezza europea. Da questa conferenza, i cui lavori preparatori si apriranno: per la parte procedurale, il 22 novembre ad Helsinki, dipenderà il futuro politico dell'Europa. Concepita e voluta da lunga data dall'URSS, che ne ha ottenuto la convocazione con una tenacia che merita rispetto, essa non sarà un vuoto esercizio in un foro in cui si scambiano dichiarazioni di buone intenzioni. I rapporti con gli Stati Uniti, che attraverso l'alleanza atlantica costituiscono la base della sicurezza dell'Europa occidentale, dovranno - è un interesse elementare - essere ed apparire solidi e intatti per poter negoziare con i sovietici senza subire quelle pressioni che essi esercì tano quando i paesi europei - è necessario citare episodi recenti? - si presentano allo scoperto e in ordine sparso. Tutto ciò deve essere fatto al più presto, non appena la tanto sospirata pace nel Vietnam avrà fatto ·scomparire, con i fu1ni della guerra, anche quelli che offuscano talvolta la reale immagine della politica di Washington. Occorre poi che sia chiaro ciò che i paesi europei vogliono che esca da tale conferenza e ciò che essi a nessun costo potrebbero accettare. È buona tattica diplomatica farlo sapere 11

Alessandro Amati all'altra parte, ed è necessario farlo nei nostri regimi democratici in cui le azioni dei governi debbono essere sostenute dall'opinione pubblica. Malgrado ripetute riunioni di Ministri degli Esteri ~ di ambasciatori non si ha l'ilnpressione che si siano fatti progressi in tal senso. Che le riunioni siano più frequenti può essere un bene, ma la :frequenza non può essere un sostitutivo della volontà politica, anche se si dice, come è detto nel comunicato, che la consultazione ha per scopo di definire posizioni comuni a n1edio e lungo termine. I riferimenti alla conferenza sulla sicurezza europea contenuti nel comunicato di Parigi non sono né adeguati né felici. L'aspetto della « sicurezza », che è quello fondamentale, è ignorato; e per quel che riguarda la cooperazione si afferma la volontà di perseguire nei riguardi dei paesi dell'Est una politica cornmerciale comune a partire dal 1 ° gennaio del 1973, come è disposto dal Trattato di Roma, nonché quella di cooperare con tali paesi su basi di reciprocità. In questo contesto si è inserita la nozione del « concerto costruttivo » tra i paesi europei nella loro condotta alla CSCE; inserto che non sembra sia avvenuto senza qualche difficoltà, tanto grande permane l'orrore, sulle rive della Senna ed anche in altri luoghi, per quanto possa apparire manifestazione di una politica di « blocco ». A queste osservazioni critiche gli ottimisti possono rispondere che il punto più importante, la chiave di volta dell'edificio che si vuole costruire, è dato dalla proclamazione dell'obiettivo di « trasformare, prima della fine dell'attuale decennio e nel rispetto assoluto dei trattati sottoscritti, l'insieme delle relazioni dei paesi membri in una Unione europea ». (Ma anche dando il massimo valore a tale dichiarazione essa non risolverebbe i problemi - e quali problemi - a breve scadenza). Della natura e dei compiti di tale Unione nulla si dice. Certo, il termine è scelto per superare le rituali querelles tra fautori di una federazione e fautori di una confederazione. Ma ciò non ce ne dà una configurazione positiva. Due soli elementi di valutazione ci sono dati. In primo luogo si tratta di trasformare i rapporti esistenti. Il termine trasformare ha una connotazjone statica o dinamica? La trasformazione sarà formale o sostanziale? Così, punto capitale, rientreranno nell'Unione i problemi della difesa? Sarebbe tempo che, almeno nelle discussioni non ufficiali, cadesse quel tabù che non fa abbordare seriamente tale argomento. Una Unione politica, se vuole avere una sua politica 12

Il « vertice » di Parigi estera, deve anche avere una sua politica militare pur nel quadro dell'alleanza a cui partecipa. In secondo luogo si parla di assoluto rispetto dei trattati sottoscritti. Non è del tutto chiaro il significato di tale espres.sione. Essa può significare un progresso (se si applica il dormiente art. 138 sull'elezione a suffragio universale e diretto dei 1nembri del Parlamento europeo), come può rappresentare una limitazione: nessuna trasformazione della Comunità dall'interno se non per mezzo dell'art. 235 (di cui sembra volersi limitare l'applicazione ai compiti derivanti dai programmi). L'Unione verrebbe quindi ad essere qualcosa di diverso dalla Comunità e non un salto qualitativo di questa. Un rapporto dovrebbe essere presentato entro il 1975 ed essere esaminato da una nuova conferenza al vertice. Lo redigeranno le istituzioni della Comunità, cioè in primo luogo la Commissione, e questo è un fatto importante e positivo. Se è auspicabile che auroenti il benessere dei popoli europei, se ogni sforzo deve essere fatto per promuoverne il progresso economico e sociale, sarà bene che i governanti europei ricordino l'elementare lezione della storia, che i popoli ricchi e deboli non hanno conservato la loro indipendenza. Essi sono caduti, secondo i casi, preda dei loro avversari o dei loro protettori o dell'intesa tra i due. Dell'urgenza di scelte precise, della drammaticità della situazione in cui si trova l'Europa - confinante con una Unione Sovietica sempre più potentemente armata, che, grazie alla sua forza ed all'impegno asiatico degli Stati Uniti, ha segnato numerosi punti al suo attivo sul piano diplomatico; dipendente, per la sua sicurezza,. dalla protezione nucleare degli Stati Uniti, il cui in1pegno in Europa, per una serie di cause di cui la responsabilità non è solo degli europei, si è attenuato; presente in un mondo che ha assistito alla riconciliazione di due potenze di prima grandezza tra di loro complementari, in Estremo ·Odentè - non vi è traccia ne.i documenti usciti dalla conferenza di Parigi. Nessuno si attendeva che i capi di Stato e di governo terminassero i loro lavori con una riedizione, in chiave europea, dell'ultimo capitolo- del « Principe », la cui eloquenza non impedì del resto agli avvenimenti di seguire il loro corso. Ma se il lavoro compiuto a Parigi è per tanti rispetti apprezzabile e positivo, se esso contiene anche germi promettenti, è meditata impressione di chi scrive che· la conferenza non è stata pari alle 13

Alessandro Amati aspettative degli spiriti maggiormente pensosi dell'avvenire politico dell'Europa. Solo gli avvenimenti futuri daranno la prova della serietà dell'impegno dei governi a questo riguardo. Questo impegno non può realizzarsi solo sul piano diplomatico. Non si fa la storia, soprattutto nei nostri paesi e nella nostra epoca, solo- con i documenti delle cancellerie. Occorre suscitare quelle forze politiche, quelle ondate di fondo delle nostre opinioni che sole possono portare gli europei a prendere in mano il loro destino, uscendo da quella ovattata condizione di irresponsabilità in cui si trova l'Europa. Guai a chi, in un mondo caratterizzato da contrasti drammatici di civiltà e di concezioni di vita, ri1nanesse in ritardo di un'idea o di un'ora. ALESSANDRO AMATI 14

Il • marxismo come teologia di Luigi Compagna È stato Girolamo Cotroneo che recentemente, sulle pagine di questa rivista, ha approfondito i motivi fondamentali del préjudice f avorable di una certa parte del cattolicesimo politico nei confronti del marxismo, « il quale, in quanto nato e sviluppatosi in polemica alla cultura laica e borghese, concorrerebbe a far vendetta ' de la vendetta del peccato antico ' ». Il bersaglio preferito di questa parte della cultura cattolica pare sia ancora oggi il pensiero « laico » e « liberale », quello che, nel corso degli ultimi due secoli, ha percorso le strade della « ragione » e le ha poi saldate con quelle della « ragione storica ». In questo senso, è lecito ritenere che, come notava Cotroneo, quando la cultura cattolica « ha deciso di uscire dal ghetto nel quale si era volutamente reclusa, il complesso di inferiorità che i.nevitabilmente si doveva portare appresso, la spinse non già al recupero di quei valori che fino ad allora aveva sdegnosamente respinto, ma verso quello che ad essa apparve come il momento politico e culturale più avanzato: il marxismo ». Cot1roneo riportava anche alcune osservazioni di Arturo Carlo Jemolo, uno studioso che su questi temi risulta forse ancora più significativo e più suggestivo di quanto non lo sia già di per sé. Aveva scritto Jemolo che per « una formazione mentale cattolica - la cui caratteristica è l'ancoramento a capisaldi, il distacco dalla storia, il rifiuto di molteplicità ed eterogeneità dei fini che non si riassumano nel solo fine di servire Dio, la negazione di ambiti diversi nell'uno dei quali può avere valore altissimo quel che in un altro va segnato con nota negativa - il passaggio arduo è al liberalismo e soltanto a questo »; e quindi « per chi abbia una sicura formazione cattolica (ma credo il discorso possa ripetersi per i protestanti) il passaggio al comunismo è una sostituzione di quadri a quadri, mobili a mobili, ma l'ordine della casa resta il medesimo. La via del liberalismò importerebbe uno sconvolgimento totale nel modo di ragionare, di sentire ». Si potrebbe a questo punto capovolgere il discorso di Cotroneo e di Jerriolo sulla incon1patibilità creatasi fra il cattolicesi1no (o quanto meno fra un certo tipo ·di cattolicesimo) e il liberalismo, fra 15

Luigi Con1pagna il messaggio di Dio e l'eredità del pensiero politico occidentale, tra il verbo della Chiesa e la cultura laica. Ci si potrebbe domandare se anche per il marxismo valgano queste stesse incompatibilità, per cui possa egualmente dirsi che « il passaggio arduo è al liberalismo e soltanto a questo » o addirittura che « Marx assomiglia tanto ad un profeta del Vecchio Testamento ». La verità è che la concezione n1arxista, così con1e si è sviluppata nel corso dell'esperienza storica e dell'analisi politica, si è certamente configurata come una sfida al liberalismo, all'eredità del pensiero politico occidentale, alla cultura laica; quel liberalismo, quella eredità, quella cultura di cui pure l'opera di l\tlarx - e questo i cattolici mostrano troppo spesso di ignorarlo - voleva essere un compimento, prima ancora e più ancora che un superamento. Vi è quindi all'interno del pensiero 1narxista, e dello stesso pensiero di Marx, un oscillare continuo tra storicismo e determinismo, tra « laicismo » e « dogmatismo ». L'idea-forza di l\1arx ( « il mito » avrebbe detto più tardi Sorel), l'idea che ha assicurato il suo successo nel movimento operaio, stava nell'aver proclamato come « verità scientifica » la missione storica del proletariato: dall'alto della filosofia, erede della teologia, Marx aveva consacrato la classe operaia « popolo eletto della storia ». Alla quotidiana lotta dell'operaio per l'esistenza era sta'Lo dato un significato, un'esaltante dignità: in tal senso - e questo i cattolici « progressisti » lo avvertono, magari lo enfatizzano e co1nunque ne sono attratti - Marx è stato senza dubbio uno dei più grandi creatori di speranza che mai il mondo occidentale abbia conosciuto. Alla classe operaia era stata data una « dottrina », che, prima ancora di essere dottrina, era un'arma nella sua lotta per l'emancipazione. La prossima fine del capitalismo, che recava in volto tutti i segni della condanna, il prossin10 avvento del socialismo, questa grande speranza cui Marx aveva saputo dare per primo una base « scientifica », sarebbero stati i contenuti essenziali su cui formare, e forse anche catechizzare, la coscienza di classe degli operai dell'industria. In questo bisogna cercare il segreto della sua autorità su milioni di uomini, pochissimi dei quali conoscono la sua opera e in questo bisogna pure cercare l'origine della tendenza di molti suoi seguaci a considerare la dottrina marxiana oome un « blocco », da sottrarre ai distruttivi effetti dell'analisi critica. Se è vero ed indiscutibile che Marx ha avuto il merito di far passare il socialismo dallo stadio dell'utopia a quello della dottrina sociale con pretesa 16

Il marxis1no come teologia « scientifica », grazie ad un considerevole apparato teorico nell'interpretazione dei fatti economici (che poi era quello degli economi5ti classici, liberali) e ad un magistrale uso della dialettica hegeliana, si deve pure aggiungere che l'essenza più intima e più seducente del marxismo si muoveva ancora, se non nel campo dell'utopia, senz'altro in quello dell'aspirazione religiosa. Il suo messaggio esprimeva il grande sogno dello sfruttato, la sua vendetta suprema, la promessa del suo dominio: tutti valori che potevano riassumersi nella frase: « il povero è niente, sarà tutto », di evidente intona•• zione etico-religiosa e soprattutto capace di identificare - sul piano emotivo, ma talvolta anche sul piano conoscitivo - l'« operaio » con il « povero ». << Bisogna esser sordi - ha scritto François Fejto - per non intendere che le idee che sono alla base del marxismo, quella dell'uomo alienato, dell'uomo totale, hanno un accento religioso. Il giovane Marx che, di fronte alla feroce società borghese, rivendica il diritto del povero a spigolare, dichiara guerra a Dio da parte dell'uomo; ma la sua sollecitudine per l'uomo è sospetta: lo sa Dio quanto crede nel suo avversario! Il marxismo si leva, dalla sua nascita, come una controreligione, cioè come un movimento a carattere religioso. I marxisti « scientifici » hanno naturalmente sempre rifiutato, e continuano a rifiutare, di riconoscerlo, ma dopo la pubblicazione delle opere giovanili di Marx non si possono più avere dubbi sui ' presupposti scientificamente indimostrabili e inverificabili' che il marxismo comporta in quanto sistema concettuale. Non sembri tuttavia che questi presupposti abbiano alcunché di vergognoso. Di vergognoso c'è semmai solo l'accanimento che così spesso si mette nel negare l'esistenza di postulati morali nel cuore stesso del movimento marxista. Il socialismo guadagnerebbe n Il'affermarli e chiarirli, salvo a distruggere i pregiudizi ». Come si vede, il discorso tende a spostarsi da Marx ai marxisti eù a precisare le distinzioni necessarie a cogliere quella incessante tensione tra storicismo e determinismo, revisionismo e dogmatismo. Lo storicismo, che è per sua natura instancabilmente revisionista e risolutamente anti-dogmatico, non ha mai mancato di far valere la. sua insofferenza nei confronti di un marxismo concepito come verità rilev_ata una volta per sempre, schema fisso in cui far rientrare tutte le vicende degli individui e dei popoli, punto di partenza nell'interpretazipne e punto d'arrivo nell'evoluzione storica della società industriale. E ciò anche dall'interno dello stesso pensiero marxista. Basti pensare, nell'ambito della cultura italiana, a come Gram17

Luigi Compagna sci sentiva Marx - « maestro di vita spirituale e morale, e non pastore armato di vincastro » - ed a come invece. lo sentiva Bordiga - « un messia che abbia lasciato una filza di parabole gravide di imperativi categorici, di norme indiscutibili, assolute, fuori delle categorie di tempo e di spazio ». Quello che è certo è che la radice del « dogmatismo marxista», ben oltre i « marxisti », ben oltre Lenin e Stalin, va rintracciata, dal punto di vista meramente concettuale, nello stesso Marx, che pretendeva di avere espulso dal suo pensiero ogni vestigio di profetismo utopistico, qualsiasi segno della « coscienza mistica » e del sogno; e quindi le interpretazioni che più si sforzano di mantenersi fedeli all'originario pensiero marxiano contengono sempre una pericolosa confusione fra postulati e determinismo, presuppostj ideali e dati empirici verificabili, « scienza » e « religione ». La confusione tra « scienza » e « religione » consente al marxismo di essere e di agire come una dottrina omnicomprensiva, dove tutto trova il suo posto; e poiché tutto trova il suo posto succede che non trovi posto la libertà. « La libertà nasce dalla necessità », l'uomo prerivoluzionario non è libero ma è condizionato dalle forze sociali su cui egli non esercita alcun controllo, è avido, aggressivo, imn1orale, egoista e così via, mentre l'uomo postrivoluzionario è finalmente libero, pronto a cooperare ed a dividere i sui beni con gli altri, disposto ad accettare le necessità degli altri come guida essenziale per le sue azioni. Questa immagine deterministica dell'uomo, 1 prima negativa e poi positiva, rientra, per ·certi aspetti, nella tradizione cristiana, che considera l'uomo in base alla dottrina del « peccato originale », ossia come un essere derelitto e senza speranza che può essere salvato solo dalla grazia infinita di Dio; solo che, invece della grazia di Dio che riscatta l'uomo dalla sua cattiva natura, è lo spirito della rivoluzione a portare a termine questa radicale trasformazione. In termini di cultura laica, si può dire che Marx abbia previsto la trasformazione dell'uomo di Hobbes nell'uomo di Rousseau, attraverso un'azione rivoluzionaria che abbatta il Leviatano di Hobbes ed instauri la società primitiva di Rousseau. Ma fra i due momenti, che strategicamente si riassumono nella conquista del potere statale da parte dei rivoluzionari e quindi nella sua estinzione dopo la rivoluzione, era stata anche prevista una fase intermedia, la dittatura del proletariato, che è poi quella su cui maggiorrnente si incentra ai giorni nostri l'analisi storica e la valutazione politica del marxismo e delle esperienze marxiste. Conquistato il potere, la ditta18

Il marxisrno come teologia tura del proletariato, ossia una dittatura esercitata nell'interesse del proletariato, sarebbe riuscita a mutare rapidamente l'organizzazione sociale e politica esistente e a creare al suo posto la società senza stato della terza fase, avrebbe insomma realizzato il passaggio da Hobbes a Rousseau. Leggendo Marx, tanto nel Manifesto quanto nella Critica al programma di Gotha, o gli stessi rilievi di Lenin in Stato e rivoluzione, risulta chiaran1ente che entrambi pensavano al potere statale come a qualcosa che si può eliminare con la massima facilità. Si prende, si conquista, si esercita e poi basta. Nelle loro concezioni vi è una scarsa considerazione per quella che la scienza politica moderna definisce la fluidità del potere, vale a dire il fatto che il potere è qualcosa che esiste solo nel suo esercizio. Essi non hanno tenuto conto che prendere il potere significa, in realtà, distruggere il potere di una parte (non sempre di una « classe ») e che, in seguito, è necessario edificare il proprio potere, che non si conquista semplicemente mediante la rivoluzione perché consiste nelle azioni degli uomini che lo esercitano. Non è solo e non è tanto questione di scalzare i detentori del potere e sostituirsi ad essi; bisogna, secondo la lezione del Machiavelli, « edificare un ordine politico », « costruire uno stato ». Ed è su questo terreno che ogni determinismo si scontra con quella che vien detta la « opacità » della storia, la resistenza che essa oppone alle idee ed agli schemi che gli uomini pretendono in1porle dall'esterno, « l'infinita libertà di determinazione della storia», come diceva Vittorio de Caprariis. Ogni concezione etico-religiosa della società e dell'uomo, invece di allargarsi a concezione etico-politica dello sviluppo storico, ha finito col trasformarsi in teologia della storia. Riteneva giustamente de Caprariis che al fondo della crisi della filosofia politica contemporanea vi fosse la crisi definitiva della filosofia cristiana della storia, la crisi della teologia della storia. « Può 5embrare paradossale - scriveva de Caprariis - ma anche agli scrittori in apparenza più lontani dal cristianesimo, perfino un Voltaire, perfino i teorici giacobini o quelli della democrazia o gli evoluzionisti, perfino un Marx sono tributari della filosofia oristiaria della storia: essi hanno tutti creduto· che per spezzare lo schema agostiniano fosse sufficiente cambiare l'ultima epoché, mettere il regno della ragione tutta spiegata e lo stato proletario o la democrazia, una città terrena, ins_omma, al posto della città di Dio. E non si avvedevano che, immaginando a questo modo un termine 19

Luigi Compagna obbligatorio della storia, n1utavano i nomi, non la sostanza delh~ cose: poiché la città terrena assumeva di necessità gli attributi della città di Dio. In realtà occorreva riconoscere semplicemente l'eterno movimento della stor-ia un1ana, senza catastrofi e senza trionfi obbligatori e definitivi; occorreva trasferire Dio in questo movimento e non lasciarlo fuori e alla fine di esso, sia pure con nome mutato. Solo eliminando rigorosamente ogni residuo teologico, si sarebbe umanizzata la storia, sarebbe stata possibile una nuova e più matura filosofia politica ». Solo partendo da « una dottrina della storia laica » si può fondare il concetto basilare di ogni filosofia politica, il concetto di libertà. Ecco perché anche per gli schemi della « lotta di classe », cosl come per quelli della « fraterna comunità degli uomini », può dirsi certamente che « il passaggio arduo è al liberalismo e soltanto a questo ». Eppure il rimprovero di fondo che si usa muovere alla filosofia liberale, appunto in nome della « lotta di classe » o della « fraterna comunità degli uomini », o magarj di entrambi, è quello di essere restata filosofia e di non essersi tramutata in religione attiva e operosa. Qui starebbe la grande inferiorità del liberalismo rispetto al marxisn10: poiché quest'ultimo riesce ad infondere una fede ardente nelle masse, una fede che trascorre fino al fanatismo, laddove il primo, « con la sua freddezza razionale », non riesce a tanto. Questo, però, per dirla ancora con de Caprariis, significa confondere il liberalisn10 come « filosofia politica » col liberalismo come « mito »: anche il liberalismo « è stato ed è una fede operosa e ha suscitato gigantesche rivoluzioni che hanno mutato la società, ha vinto e vince le sue battaglie. Ma la sua superiorità è proprio nel fatto che non nega gli altri alla stregua di tutti i fanatismi e che non si esaurisce in nessuna delle rivoluzioni da esso stesso suscitate, che cioè non nega m1ai se stesso ». In questo senso, e per la cu1tura cattolica e per la cultura marxista, confrontarsi con il liberalismo non significa tradire la « religione» (o la controreligione), ma vuol dire piuttosto rinunciare alla « teologia ». LUIGI COMPAGNA 20

La politica territoriale degli • • • 1ncent1v1 di Fabio Narcisi Se questa estate 1972 passerà alla statistiche metereologiche come la più fredda del secolo, non altrettanto potrà dirsi per il clima politico che proprio nei mesi solitamente definiti della « canicola » ha raggiunto livelli di « surriscaldamento » piuttosto intensi. Basterà a questo proposito ricordare le polen1iche sulla televisione a colori e quelle, non meno aspre, sull'aumento dei prezzi e sull'uso di strumenti come il calmiere per frenarne l'ascesa. Ma forse di maggior rilievo, almeno per i problemi di fondo che veniva coinvolgendo, è stato il dibattito sul Mezzogiorno. P,a quando Eugenio Cefis sul finire della primavera ha chiesto per le aziende centro-settentrionali della Montedison in crisi gli stessi incentivi esistenti al Sud, si è aperta una vivace e non di rado dura polemica, che dal caso Montedison si è ben presto allargata al più vasto problema del rapporto congiuntura-Mezzogjorno. Una polemica sviluppatasi in sedi diverse (Parlamento, stan1pa, convegni, ecc.) con una gamma molto ampia e diversificata d'interventi, dietro ad ognuno dei quali era possibile intravedere, come in una filigrana, le diverse posizioni occupate nella « scacchiera >> meridionalistica, spesso diversa - e non da oggi - da quella degli schieramenti politici. La risonanza che questo dibattito ha avuto - anche per l'importanza della posta in gioco - ha però relegato in secondo piano un altro fatto non meno rilevante: il prendere corpo, attraverso una serie di decreti di attuazione e di delibere del CIPE, della nuova strategia meridionalista definita, giusto un anno fa, con la legge 6 ottobre 1971, n. 853. È questa una materia ancora scarsamente approfondita e sulla quale ci si so:ffennerà forse maggiormente nei prosismi mesi, quando acquisteranno maggiore concretezza operativa due tra gli strumenti « nuovi » messi in moto proprio nel corso dell'estate: l'autorizzazione per i nuovi impianti di rilevanti dimer:isioni e i « progetti speciali ». _ Dove invece tutto è definito, tutto è ormai operante e suscita, come vedremo, non poche perplessità, è la politioa territoriale degli incentivi. .l'A;aprima di approfondire l'argomento è opportuno ricapitolare brevemente le laboriose fasi di attuazione della 853, peraltro non ancora concluse. 21

Fabio Narcisi Dopo le direttive del CIPE emanate il 14 marzo, il primo decreto di attuazione, relativo alla graduazione degli incentivi finanziari, veniva pubblicato sulla « Gazzetta Ufficiale » del 27 maggio. Altri due mesi di silenzio fino a luglio, quando sulla « Gazzetta » apparvero ben quattro decreti: tre molto brevi e di carattere strettamente tecnico (agevolazioni finanziarie per gli impianti di dissalazione nelle isole minori, e tassi d'interesse per le iniziative industriali e comn1erciali), il quarto di notevole rilievo perché regolamentava e rendeva operativa l'autorizzazione per gli impianti di grandi dimensioni. Il 4 agosto il CIPE dava il via al nuovo strumento d'intervento straordinario introdotto dalla 853 con i « progetti speciali », approvandone 21. Rimanevano ancora da regolamentare le agevolazioni al comn1ercio e quelle relative al leasing ( oltre alla costituzione della Finanziaria meridionale, che però fa un po' caso a sé). Ma soprattutto non si aveva notizia del decreto sulle « zone di spopolamento » e di quello sulle « localizzazioni prioritarie», ambedue importanti perché proprio attraverso di essi avrebbe dovuto prendere concreta1nente forma la nuova strategia territoriale dello sviluppo industriale tracciata con la 853. Era lo IASM che il 18 settembre a Bari, in occasione della giornata del Mezzogiorno alla Fiera del Levante, rendeva noti i due decreti - che risultavano emanati nel mese di maggio - includendoli in una apposita pubblicazione che raccoglieva il testo della nuova legge, le direttive del CIPE e i decreti ministeriali di attuazione approvati a quella data 1 • A parte questa stranezza procedurale, sono i contenuti dei due decreti a lasciare piuttosto perplessi. Da essi si attendeva - come si è accennato - di veder concretizzate quelle linee di politica territoriale delle localizzazioni industriali che erano poi la risultante di un ampio dibattito sul problema della diffusione e della concentrazione degli investimenti industriali nel Sud, apertosi agli inizi del 1969 a Bari con una « tavola rotonda » che ebbe una larga risonanza. Senza rrevocare le varie fasi di questo ampio ed interessante dibattito, ed i risultati pratici cui dette luogo, ricorderemo soltanto come le preoccupazioni di chi, da una parte, avvertiva l' esigenza di non dimenticare le zone interne del Mezzogiorno soggette 1 I due decreti sono stati successivamente pubblicati nel « Notiziario i> del Ministero degli Interventi Straordinari nel Mezzogiorno, N. 2 - 1972. 22

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