Lettere al Direttore meridionali, indirizzandosi la loro azione più al consenso che al dissenso con le forze sociali egemoni del Sud. Certo, la storia del Mezzogiorno non è data da una somnia indifferenziata di negatività; progressi indubbiamente vi sono stati dai vicerè spagnoli ad oggi. Ma, com'Ella d'altronde sa bene, non è questo il punto. Solo gli epigoni di uno stanco storicismo possono considerare seria la banale constatazione che ogni fase del processo storico reca in sé anche elementi di progresso e di sviluppo, come inevitabili momenti interni di dialettica e di distinzione. Ma il vero problema è di stabilire la 1nisura e l'ambito delle fasi progressive rispetto all'intero corso del processo storico. È scontato fino all'ovvietà considerare il Mezzogiorno degli anni '70 diverso dal Mezzogiorno di Fortunato e di Nitti, co,ne, d'altro canto, è altrettanto pacifico che il Mezzogiorno di Fortunato e di Nitti non era quello di Genovesi e di Galanti: e tutto autorizza a credere che il Mezzogiorno degli anni 2000 non sarà più quello degli anni '70. Ma, anche sul piano di un corretto e moderno nietodo storico, quel che conta non sono le variabili bensì la costante; e quelle hanno un senso solo se rif eri te a questa. Ora, qual'è la costante della società meridionale da più di cent'anni a questa parte? Espri1ne essa una linea evolutiva all'interno del generale processo storico che ha caratterizzato le vicende dell'Italia o dell'intera area europea-occidentale in tale periodo? O non piuttosto una serie continua di contraddizioni che per essere nuove o diverse da quelle precedenti e, poniamo, perfino minori rispetto ad altri paesi mediterranei, non sono per questo 1neno evidenti e storicamente rilevanti? D'altronde, l'immagine di un ll.J ezzogiorno statico e immobile è già da tempo rifiutata dagli studiosi. Nel '500, nel '700, nella prima metà dell'Ottocento e così via, è possibile osservare episodi di trasformazione deboli e preoari, se si vuole, 1na non del tutto irrilevanti. La stessa legge speciale del 1904, ad esempio, cambiò qualcosa nella Napoli di allora. Ma qual'è il risultato oggettivo di tutto ciò? In che misura esso ha realn1ente eliminato la disgregazione della società meridionale? E se non l'ha elùninata, quali ne sono le cause reali? Se porsi queste domande e cercarne la risposta è per Lei storicismo di superficie e sociologismo di nianiera, io non so che farci: qui parlano i fatti e non le idee. E quali siano i fatti, cioè quale sia la depressione economica e civile del Mezzogiorno, Ella stessa ha contribuito ad indicarli per il presente, come il condirettore di «Nord e Sud », Galasso, ha contribuito ad indicarli per il passato. Nitti: qui c'è un equivoco ancora maggiore. Ella, mi pare, scambia per « concretezza nittiana » l'uso (e l'abuso) che Nit ti fece di dati statistici, di deduzioni economicistiche, d'innovazioni tecnologiche, di fattori «alternativi» di sviluppo. Certo, nessuno ha mai negato la grande importanza di un discorso impostato in tali termini. In una società preindustriale, qual'era il Mezzogiorno nittiano, l'impiego dei dati quantitativi e del moderno ragionamento economico rompeva, innanzitutto, con una tradizione pan-politicistica o solo moralistica (essa sì sociologizzante ed astratta) che caratterizzava gran parte del meridionalismo di allora. La quale se dava, da un lato, i suoi frutti migliori con un Pasquale Villari o con un Giustino Fortunato, era anche, dall'altro 118
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