Adriana Bich mente a sbocchi occupazionali. Perciò, che da giovani provenienti per la quasi totalità dai ceti popolari, quali sono gli studenti degli istituti professionali, siano sempre più richiesti corsi quinquennali, deve essere, a mio parere, considerato, se non altro, un dato meritevole · di una analisi realistica e approfondita, anziché essere accantonato dopo un processo s01nmario, non importa se fatto da destra, in nome della tutela della selettività della scuola e della « spendibilità» dei titoli, o da sinistra, per rifiuto di una scolarità che si imporrebbe come « parcheggio» alle classi proletarie. Del resto, se è vero che la liberalizzazione degli accessi universitari è largamente utilizzata dai diplomati degli istituti tecnici e professionali specie perché mancano loro, al termine degli studi, adeguati posti di lavoro; se si cerca, cioè, di deflazionare in modo fittizio la domanda di lavoro e la disoccupazione reale inflazionando l'università, è altrettanto vero che una inversione di tendenza non è attuabile istituendo o conservando curricula scolastici che sbàrrino, anche a chi per libera scelta desideri fruirne, il passaggio all'università, che cioè deflazionino questa in modo altrettanto fittizio, rna piuttosto favorendo· e creaùdo possibilità d1 occupazione, anche e soprattutto temporanee, ai livelli intermedi. D'altra parte, l'attuale spinta verso la « deprofessionalizzazione », o meglio, contro la professionalizzazione precoce, di certi settori della scuola secondaria, cui fa riscontro, come si è visto, una analoga spinta alla « delicealizzazione » di altre istituzioni scolastiche, interpreta istanze sociali valide e risponde altresì alla necessità pratica dj sollecitare, nel futuro lavoratore, l'emergere di capacità e di attitudini, che saranno in ségu1to messe a frutto in modo flessibile, in mansioni varianti sia per il mutare delle tecnologie, sia per il fatto che sempre meno la prima collocazione occupazionale dovrà restare destino irreversibile per l'individuo. Non dimentichiamo che l'attuale crisi dell'istruzione professionale è stata provocata anche, e in non piccola parte, dalla improvvisazione e dalla settorialità con cui la scuola è stata indotta a rispondere alle richieste, anch'esse settoriali e prive di una razionale pianificazione, del mondo imprenditoriale. E questo già dal tempo della riforma Gentile, ma non meno, forse anzi di più, negli ultimi venticinque anni. Se, infatti, i titoli di studio forniti dall'istruzione tecnica e professionale, e le mansioni cui essi abilitano, appaiono invecchiati, dequalificati, insufficienti; se, come è stato rilevato giustamente, essi tracciano ancora in modo al tempo stesso troppo parcellizzato e troppo generico, i profili dei vecchi « n1estieri »; - e, aggiungerei, delle professioni. intermedie tradizionali -, ciò deriva dalla sopravvivenza di strutture scolastiche predisposte affinché gli imprenditori ottenessero, direttamente dalla scuola, il « prodotto finito», ossia il lavoratore pressoché pronto ad essere immesso nel ciclo produttivo, senza quasi alcun onere da parte loro, e senza alcuna salvaguardia per lui, qualora il tipo di attività cui era unilateralmente addestrato non fosse stato più redditizio. Pertanto c'è da considerare positivamente, come segno di una nuova sensibilità sociale delle categorie imprenditoriali e sindacali, il fatto che le 80
RkJQdWJsaXNoZXIy MTExMDY2NQ==