Nord e Sud - anno XIX - n. 151-152 - lug.-ago. 1972

Una ristrutturazione lunga un secolo tempo esso era in fase di declino. Sempre alla data del censimento del 1951 l'industria serica si era ridotta a circa 70 mila addetti, pari cioè al 10% della consistenza totale. Era da più tempo, infatti, che si andava contraendo la produzione di materia prima, mentre contemporaneamente si affermavano vittoriosamente sul mercato i succèdanei, dal raion al nailon ed a numerose altre fibre sintetiche. Mentre, dunque, la trattura della seta si andava riducendo sempre più alle filande venete (Treviso ed Udine) e la torcitura sopravviveva, sia pure in modo stentato, nei tradizionali distretti del comasco, del varesotto e nelle provincie di Milano e Bergamo, per i cotonifici ed i lanifici italiani, ·dopo oltre mezzo secolo di espansione, sia pure tra non poche crisi e recessioni, superate sempre grazie all'intervento pubblico (partilarmente grave fu la recessione del 1930), iniziava una crisi strutturale legata a molteplici fattori, che li ha portati nelle condizioni accennate all'inizio di questo articolo. Se, infatti, anche durante gli anni 50 e 60 l'industria cotoniera e laniera rivivrà qualche momento felice dovuto a congiunture particolari, non vi è dubbio che il dopoguerra segna la fine dell'espansione. Quali le cause? Elencati alla rinfusa, i motivi vanno dalla concorrenza esercitata dalla nascente industria tessile dei paesi sottosviluppati, dove il costo del lavoro è estremamente basso, ai macchinari, tecniche e gestioni antiquate; dalla mancata integrazione con le produzioni a valle nel campo dell'abbigliamento e della grande distribuzione, a conduzioni familiari incapaci di adeguarsi ai tempi. Organizzarsi o perire era dunque, alla metà degli anni 50, il dilemma entro cui si dibatteva il cotonificio ed il lanificio tradizionale. Dilemma da tempo presente nelle zone tessili tradizionali del mondo occidentale: dall'Inghilterra agli Stati Uniti, dalla Francia alla Germania, l'industrìa tessile era oramai « la grande ammalata » che, dopo avere avviato il ciclo capitalistico dell'industria europea ed americana, non riusciva più « ad operare vigorosamente all'interno del ciclo economico in espansione »; e anche quando riusciva a conservare il proprio mercato di smercio remunerava oramai « i capitali investiti con profitti assai minori di quelli distribuiti dalla petrolchimica o dalla meccanica ». Anche in Italia è accaduto, agli inizi degli anni 50, qualcosa di simile. « La funzione storica », - afferma Bruno Caizzi nella sua Storia. dell'industria italiana - « che filature e te~niche ebbero nel passato fu quella di gettare un primo ponte fra l'agricoltura e l'industria, fra la campagna e la città, creando numerosi posti di impiego a rr1aestranze fornite di un3: sommaria qualificazione proféssionale, in epoca in cui la struttura sociale del paese non offriva ancora occasioni di lavoro più 143

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