Nord e Sud - anno XIX - n. 151-152 - lug.-ago. 1972

NORD E SUD Rivista mensile diretta da Francesco Compagna Aldo Garosci, Massimalismo) trasformismo) riformismo - Bruno Visentini, Dall'ICE all'IVA - Ennio Ceccarini, La sinistra e il terrorismo - Autori vari, Il disegno di Carli - Italo Talia, Una ristrutturazione lunga un secolo - Tullio ·d'Aponte, L'Europa dell'etilene . - Luigi Mendia, L'età dell'ambiente e scritti di Marinella Balestrieri Terrasi, Vittorio· Barbati, Adriana Bich, Francesco Coµipagna, Adolfo De Cecco, Mario Del ·Vecchio, fabio Felicetti, Maria Laura Gasparini, Ugo Leoqe, Elio Manzi, Giuliana Martirani,. Ernesto Mazzetti, Sandro Petriccione, Pasquale Saraceno, Claudia Vinciguerra. ANNO XIX - NUOVA SERIE - LUGLIO-AGOSTO 1972 - Nn. 151-152 (212-213) . EDIZIONI SCIENTIFICHE IT.ALIANE - NAPOLI

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NORD E SUD Rivista mensile diretta da Francesco Compagna ANNO XIX - LUGLIO-AGOSTO 1972 - Nn. 151-152 (212-213) DIREZIONE E REDAZIONE: Via Chiatamone, 7 - 80121 Napoli - Telef. 393.347 Amministrazione, Distribuzione e Pubblicità: EDIZIONI SCIENTIFICHE ITALIANE - S.p.A. Via Chiatamone, 7 - 80121 Napoli - Tel. 393.346 Una copia L. 600 - Estero L: 900 - Abbonamenti: Sostenitore L. 20.000 - Italia annuale L. 5.000, semestrale L. 2.700 - Estero annuale L. 6.000, semestrale L. 3.300 - Fascicolo arretrato L. l.200 - Annata arretrata L. 10.000 - Effettuare i versamenti sul C.C.P. 6.19585 Ediz. Scientifiche Italiane - Via Chiatamone 7, Napoli

SOMMARIO Editoriale [ 3] Aldo Garosci Massin1alismo, trasformismo, rifonnis1110 [ 6] Ennio Ceccarini La sinistra e il terrorismo [ 17] Autori vari Il disegno di Carli [27] Pasquale Saraceno Sandro Petriccione Francesco Compagna Cronache meridionaliste Il Sud nel siste1na econo111ico italiano ed europeo [37] Gli strateghi del sottosviluppo [54] L'occasione metropolitana [61] Cronache parlamentari Bruno Visentini Dall'ICE all'IVA [65] Adriana Bich Maria Laura Gasparini Adolfo De Cecco Giornale a più voci Istruzione tecnica e formazione umana [78] I meridionali nelle scuole straniere [ 81] Da Fossacesia a Gaeta [84] Regioni Mario Del Vecchio Trasporti, Mezzogiorno e Regioni [89] Vittorio Barbati / nodi delle Regioni [98] M. Balestrieri Terrasi Le Regioni e il Progra1nn1a [ 111 J Inchieste Claudia Vinciguerra L'Acquario fra z 111arosi [ 125] Italo Talia Tullio d'Aponte. Giuliana Martirani Industria Una ristrutturazione lunga un secolo [ l 39] L'Europa dell'etilene [ 149] L'industria del cuoio e delle pelli [161] Testimonianze Luigi Mendia L'età dell'ambiente [ 192] Ugo Leone Elio Manzi Ernesto Mazzetti e Fabio Felicetti Paesi e città La « riserva » del Molise [204] I Regi Lagni [216] Cronache e memorie Un'industria e un quartiere alla periferia di Napoli [232]

Editoriale Dare un giudizio sulle possibilità di durata e sulle caratterizzazioni politiche del governo Andreotti ci sembra assai difficile; fare ipotesi su quello che sarà lo svolgimento del congresso del PSI con1.porta il rischio di avventurarsi sempre più sul terreno della profezia che non su quello della previsione politica. Dobbiamo quindi attenerci ai fatti e tener conto degli avvenimenti che si sono succeduti tra il risultato delle elezioni del 7 maggio e la formazione del secondo governo Andreotti. Il risultato elettorale dava la possibilità di ricostruire due 111.aggioranze già precedentemente sperimentate: quella di centro-sinistra e quella di centro. Riguardo alla prima bisogna dire che essa presentava invalicabili li111.itidi credibilità politica, se è vero che era stata messa in crisi dalla rdterata proposta socialista degli equilibri più avanzati, se è vero che contro gli equilibri più avanzati la DC aveva ottenuto un succes 1 so elettorale, e se è vero che proprio questa formula di centro-sinistra aveva ricevuto il colpo di grazia allorché disinvolta,nente in sede di comnzento dei risultati elettorali il segretario del PSI aveva detto che la garanzia ner la democrazia in Italia era rappresentata dal 40 per cento di voti ottenuti con1plessivamente dalla sinistra. Il linzite della maggioranza di centro, anche senza scendere in in1.plicazioni di carattere strettamente politico, era ed è un limite aritmetico: è molto difficile governare stabilimente un paese a regirne pluripartitico con una rnaggioranza del 51 per cento. Scarsa 0111.ogeneitàpolitica, quindi, per il centro-sinistra, gravi difficoltà aritmetiche per la maggioranza di centro. Dinanzi a tutto ciò il paese, i problemi: come osservavamo nell'editoriale del precedente numero di questa rivista, i molti casi di fabbriche chiuse o sull'orlo della chiusura; le crescenti difficoltà per le nuove leve delle forze di lavoro, laureati e diplomati, operai con qualifiche e manovali, di trovare una stabile occupazione; le condizioni finanziarie assai più allarmanti .dì quanto non lo fossero alcuni anni or sono, quando già erano assai più allarmanti di quanto non fossero disposti a riconoscere tutti coloro che hanno poi contribuito ad aggravarle. Sul piano politico poi il minaccioso (anche se minore di quanto l'on. Al,nirante non avesse previsto) successo dell'estrema destra, che 3

Editoriale dovrebbe significare ritorno al senso di responsabilità per chiunque abbia a cuore le sorti di questa repubblica. Ci sembra che, dinanzi a questi fatti, la proposta repubblicana di un governo di emergenza a cinque, dai liberali ai socialisti, avrebbe dovuto meritare da parte delle sinistre democristiane e degli stessi sociaUsti una n1aggiore attenzione. Queste sinistre democristiane e questi socialisti han.no prima messo in crisi il centro-sinistra proponendo « patti coçtituzionali » e « nuovi equilibri», poi hanno detto di no al governo di emergenza, per infine dover bollare il governo Andreotti come il governo della svolta a destra. Noi non ci siamo mai, a differenza di altri, fatti soverchie illusioni sulla vocazione di sinistra dell'on. Andreotti, ma dobbiamo purtuttavia riconoscere che questo. gover1lo ha significato ad un certo punto lo sbocco abbligato della crisi,. se è vero che tutte le altre situazioni erano state bocciate da socialisti e sinistre democristiane. Per questo motivo ci asteniamo dal dare un giudizio su questo governo, che se ad un certo punto ha rappresentato l'unica via per uscire dalla crisi, non rappresenta certo una via che sicuramente porta lontano. Di qui anche l'importante funzione che il PRI, stando disciplinatamente n't?-llamaggioranza ma fuori del governo, può e deve svolgere come punto di riferimento per tutte le forze democratiche durante e dopo la stagione d8i congressi. Perché anche all'indomani del congresso socialista potrebbero essere ancora attuali quelle soluzioni di emergenza prospettate dai repubblicani e che non solo i socialisti, ma anche le sinistre democristiane «che accettlindole avrebbero potuto svolgere un ruolo po~itivo a breve o a media scadenza nei confronti del PSI» non hanno voluto prendere in considerazione. Le sinistre dernocristiane, infatti, denunciano come governo di restaurazione centrista quello nel quale non sono volute entrare, ed al quale promettono soltanto la disciplina di partito, salvo a violarla, con1e ha fatto Donat Cattin, alla prima prova indicativa: salvo a violarla per poter provocare l'inquinamento della maggioranza e protestare contro questo. inquinamento dopo averlo provocato. I partiti democratici e i repubblicani in particolare, che si sono attenuti e continueranno ad attenersi al promesso impegno di osservare la disciplina di maggioranza e di farla valere a confronto della disciplina di partito promessa e già non mantenuta dalle sinistre democristiane, devono essere consapevoli del fatto che l'isolamento dei fascisti passa anche ·per la corresponsabilizzazione dei liberali nell'azione di governo, intesa, questa azione, come impegno comune di tutte le forze democratiche a portare il paese fuori dalla situazione di emergenza. Ma bisogna altresì essere consapevoli del fatto che se non è lecito né possibile riproporre 4

Editoriale al paese la formula di centro-sinistra qual era diventata dopo il 1968, non è neanche lecito, né possibile proporre al paese un ritorno al centrismo qual era diventato dopo il 1953. Questa consapevolezza può .e deve costituire un punto di partenza per un serio discorso sulle cose, che coinvolga anche quelle sinistre democristiane che non vogliono essere condannate a subire le iniziative narcisistiche dei Donat Cattin, e naturalmente, soprattutto, quei socialisti che non vogliono essere condannati a subire i giochi di interdizione dei Bertoldi. Ecco quindi che la collocazione dei repubblicani, dentro la maggioranza e fuori del governo, assume un significato politico preciso: quello dt un segnale d'allarme alle sinistre democristiane ed ai socialisti, per passare dai giochi di interdizione della V Legislatura ad un discorso costruttivo per la V I Legislatura; e di richian10 all'impegno comune di tutti i denzocratici responsabili a trovare le forme di solidarietà e a r;reare le soluzioni concrete e coerenti per far fronte ai gravi problemi di una situazione di emergenza. Perché o si esce da questa o si esce dall'Europa. 5

Massimalismo, trasformismo, riformismo di Aldo Garosci Che l'odierno riflusso di voti e di paure verso l'estrema destra (o, nel caso migliore, sulla « diga » democristiana) debba molto a un qualche genere di massimalismo, credo sia ormai convinzione largamente diffusa. Per uno strano caso, credo di ricordare come, alla vigilia delle elezioni del 1968 se ne avvertissero i primi sin tomi. Nel corso di una di quelle interminabili riunioni della pletorica direzione del Partito Socialista Unificato a cui mi avvenne di partecipare, fu espresso da qualcuno, e se non vado errato proprio da Nenni, il parere che non si potessero pretendere le riforme tutte in una volta e subito, di fronte agl'intralci di un partito alleato e svogliato, alle lunghe abitudini acquisite dall'apparato dello Stato, al tortuoso iter parlamentare, e via dicendo; e quel qualcuno parlò di un riformismo estremistico, astratto, massimalistico. Fernando Santi, che alla oratoria populistica e popolare univa una buona dose di arguzia, rispose con un discorsetto çhe ci divertì tutti, sottolineato da molte risate, affermando che in vita sua gli era capitato di sentir parlare di molti massimalismi, ma che per la prin1a volta gli toccava di sentir parlare di un massimalisn10 riformista. Non ne dispiaccia alla memoria di Fernando Santi, pure il fenomeno cui abbiamo assistito, in modo massiccio, in questi ultimi tempi (parlo in particolare del periodo che ha avuto termine con le elezioni di maggio) è proprio quello del massimalismo riformista. E non dovrebbe esser cosa da stupire. In effetti, che cosa è in sé il massimalismo? Forse un piano o una volontà rivoluzionaria? Al contrario, il massimalismo consiste in una velleità, nel tener viva una prospettiva estrema, che si considera la sola reale, pur nel corso di un'operazione politica in cui si sa che tale prospettiva non può essere realizzata, e soprattutto senza approntare i mezzi, morali e materiali, fisici e costituzionali, che potrebbero condurre al parziale conseguimento dei fini che si affermano preminenti. La categoria « massimalismo » si applica 6

Massim.alismo, trasforn1is1no, riformis,no perciò non solo quando il fine che si procla1na di voler raggiungere, ma rispetto al quale si rimane inerti, è la rivoluzione, bensì anche quando è la riforma; ogni qual volta questo fine sia proclamato e non voluto realmente, perseguito nella propaganda o in una legislazione inefficace, senza disporne i 1nezzi né aver coscienza dei sacrifici necessari per raggiungerlo. Ogni svalutazione della politica presente, la sola reale, su cui si muove il contrasto e l'accordo dei partiti, per una politica futura molto più vasta e desiderabile, « voluta dalle masse », è massimalismo. Devo ricordare che quella lettera agli « Amici di Romagna » di Andrea Costa, in cui Valiani ha ravvisato « l'atto di nascita del massimalismo italiano~>, propugnava per l'appunto in primo luogo la conquista delle amministrazioni e del potere politico, avvertendo però in pari tempo che, attraverso le riforme con tali mezzi tentate, e a cui la borghesia si sarebbe opposta con la forza, il proletariato avrebbe acquistato maggiore coscienza della ineluttabilità del fine rivoluzionario, per il momento accantonato? In ogni caso, quel che è accaduto ai governi di centro sinistra è appunto la pratica di un cotale massi1nalismo: l'affermazione della necessità delle riforme senza una esatta scelta, una valutazione di esse, dei loro effetti, della loro « digeribilità » da parte di un sistema che si affermava, almeno in principio, di voler mutare e far evolvere, e non rovesciare. E tanto più è tipico che il problema balenasse, sia pure in forma paradossale, già prima dei governi demolitori di Rumor e Rumor - De Martino, nel periodo immobilista e stagnante di Moro, discutendo quale brano o abbozzo di riforma potesse ancora « passare » prima delle elezioni (e fu scelta non a caso la più indeterminata: quella della legge per le Regioni; e per volontà prevalente di Francesco De Martino). Se diamo, in effetti, uno sguardo indietro al panorama delle « riforme » compiute nel quadriennio di quella che si può considerare la vera legislatura di centro sinistra, conclusa con lo scioglimento delle Camere, vediamo accanto al cirr1itero delle riforme dalla chiara linea di incidenza sulla vita dell'uomo comune e soprattutto del lavoratore (le famose case scuole ospedali, ma anche la giustizia più rapida e certa, la equa distribuzione dei carichi), l'attuazione di riforme che redistribuiscono un po' a tutti potere, senza ben definirne e garantirne l'uso. Tale è, in molte sue parti e in ogni caso nei suoi effetti irreversibili, lo « statuto dei lavoratori », astratto dalla disciplina sindacale che la Costituzione suppone concretata nella legge e che in ogni caso non è stata attuata neppure 7

Aldo Garosci per prassi; tali sono gli « statuti regionali », di cui tutti incominciano a rendersi conto che tanto varranno quanto varranno, come amministratrici delle competenze a loro trasferite, -le forze politiche locali in confronto di quella nazionale, ma che in ogni caso non toccano per ora, e non hanno toccato in questi anni, la vita dell'uomo comune che si suppone interessato alle riforme. Unica riforma di stile « riformista », anche se contaminata da contraddizioni introdottevi dal compromesso parlamentare per ottenerne l'approvazione e combinatoria di vari criteri e provvedi1nenti, che potevano anche venir introdotti uno alla volta, la rifonna fiscale. Con tutto ciò, mai si è parlato tanto come ora - o piuttosto come sei mesi fa - di riforme. I sindacati, chiamati e ammoniti a partecipare alle riforme con il loro senso di responsabilità, nulla hanno trovato di meglio che indire « per le riforme » grandi scioperi generali ultimativi per il Governo e il Parlamento, pur conoscendo benissimo la complessità del processo riformatore, la sua gradualità, il clima, se non di pace e di tregua sociale, almeno di assenza di timori esagerati che esso comporta. E il n1assimalismo è stato il compagno costante di una coalizione politica che si annunciava riformatrice. Non c'è stato, si può dire, ministro, il quale non abbia accarezzato il sogno di una grande legge di riforma, abbracciante l'intera materia di competenza del suo ministero, e che non abbia cercato di adempiere a questo suo compito e al sogno dei suoi consiglieri con la presentazione di una legge onni_comprensiva, la quale ha finito per essere o per diventare, vuoi un mostro di contraddizioni (come la legge sulla casa, che ha voluto essere di riforma urbanistica - dopo che il criterio di una legge urbanistica generale era stato ingiustificatamente abbandonato, e proprio da un ministro massimalista - e assieme di pratica facilitazione per la costruzione di case popolari, né sembra che abbia posto termine allo stato di crisi edilizia cui pure si proponeva di ovviare), vuoi una legge largamente corporativa nelle sue indicazioni concrete (riforma universitaria, uguale legge per gli incaricati e assistenti; riforma sanitaria, uguale legge per il personale sanitario; miniriforma della procedura penale con la legge sugli avvisi di reato, uguale legge per i diritti dell'avvocato difensore, non certo dell'imputato) accompagnata da larghe e incerte indicazioni di direttive per i futuri riformatori concreti, non molto più impegnative di un articolo di giornale, o di un piano quinquennale giolittiano avente forza di legge. Questo « massimalismo delle riforme » si può raccogliere, come 8

Massin1alismo, trasforn1is1no, rifonnismo teorizzazione, nei discorsi o in genere negli interventi di Riccardo Lombardi nei Comitati Centrali e nei Congressi socialisti. È stato Riccardo Lombardi che ha inventato l'idea della rifor1na « sasso nell'ingranaggio » del sistema, quasi che una riforma, la quale impedisca al sistema economico di funzionare e svilupparsi, possa mai avere efficacia altrimenti che nella lotta per il potere; è stato Riccardo Lombardi che accettato la possibilità di staccare o sostituire pezzi di un meccanismo economico in isviluppo senza rallentarne la corsa; è stato Riccardo Lombardi che ha affermato la necessità di adeguare « non i bisogni al sistema, ma il sistema ai bisogni »; come se esistesse un qualsiasi sistema, spinto o avanzato che sia il grado del suo egualitarismo quanto si voglia, che possa adeguarsi ai bisogni, a tutti i bisogni, senza previa definizione di essi. E l'elenco potrebbe continuare: perché, che cosa è la teoria degli « equilibri più avanzati » dell'on. De Martino (specialmente se congiunta nella candida fede dell'« irreversibilità » delle tendenze) se non l'affermazione simultanea di due maggioranze, una attuale e possibile, ma svalutata dalla stessa considerazione che se ne fa coine di un ponte di passaggio verso altre formule, e un'altra non attuale, ma molto più desiderabile di essa? Che cosa, se non una concessione di fondo (del resto convalidata dall'atteggiamento del suo giornale in ogni singolo problema) alla affermazione dello stesso Riccardo Lombardi che la forza decisiva per l'attuazione del progresso in Italia non potesse essere la politica del suo partito, il P.S.I., per cui pure si chiedevano i voti al cittadino, ma quella di uno schieramento nuovo, la forza nuova e indistinta delle masse, ponendosi in tal modo il P.S.I. come se1nplice ausiliario delle sinistre radicali e contestatrici in quasi ogni circostanza, specie se coinvolgente l'ordine pubblico? Abbiamo trascelto i nostri esempi dall'ambito del P.S.I., che è, come la sinistra democristiana, il partito in cui essi sono più osservabili. Ma non c'è, si può dire, partito, anzi non c'è frazione di partito che a questo massimalismo non abbia fatto qualche concessione. Per restare nell'ambito del socialismo, ricorderemo che il partito unificato (che dopotutto univa le sue forze dopo una cri.si delle sinistre totalitarie, dopo l'evoluzione seguita alla repressione della Comune Ungherese) condannava a pari titolo massimalismo e riformismo, dimenticando che l'unica via possibile al socialismo democratico è quella delle riforme: e proprio non delle riforme « di tipo nuovo », di cui è da diffidare come delle democrazie « di 9

Aldo Garosci tipo nuovo », ma delle riforme di sempre, quelle destinate a dare « case scuole ospedali », e magari ritlni di vita e di lavoro meno sfibranti, che però ovviamente andranno pagati con un rallentamento dei consumi sociali (leggi riforme) e di quelli individuali (leggi salari effettivi); a meno che, e sarebbe beffa orribile non diciamo per dei socialisti ma per chi ama il paese, non si voglia farli pagare ai disoccupati o a chi si muove in cerca di nuove occupazioni. Ricorderemo che il P.S.I. unificato, mentre aveva agli Esteri un suo capo che cercava di guidare, nella fiducia dell'Occidente, verso la distensione, votava ordini del giorno per il riconoscimento del Nord-Vietnam, che avrebbero implicato immediata tensione con l'alleato an1ericano e quindi abbandono di ogni pur tenue speranza di inserirsi nel ravvicinamento tra i due potenti della terra. E ciò r\lla unanimità, affrettatamente, alla fine di logoranti schermaglie per concordare testi di politica interna; nella convinzione, fondata del resto, che quel pezzo di carta non avrebbe mutato di uno iota la politica estera del governo in cui il P.S.I. era in1pegnato, ma avrebbe dato ai proponenti l'alibi necessario per presentarsi in piazza a dirne male in compagnia del P.S.I.U.P. e del P.C.I. Né è il luogo, in una rivista laica, di parlare del massimalismo democristiano, al crocevia di sogni anabattistici, di kennedisn10 e di economia corporativa; ma solo di ricordare che esso infettava non unicamente le sue sinistre, in cui militavano fior di conservatori, ma lo stesso moroteismo, non secondo a nessuno nello svalutare lo Stato, per non dir nulla del populjsmo fanfaniano: salvo a rientrare al momento di presentarsi all'elettore. Naturalmente, non vorrei qui, me1nore delle responsabilità che mi toccano come uomo di partito oltre che come pubblicista, e della facilità con cui taluno può confondere una libera critica con chissà quale manovra interna alle maggioranze, infierire sul massimalismo inerente alla stessa politica di uno degli uomini senza dubbio più geniali della democrazia italiana: Ugo La Malfa. A parte il fatto di aver cercato il rimedio alla prima « perdita di colpi » del centro sinistra non in un ripensamento (e ripensamento più severo) dell'alleanza, ma in un suo allargamento al « dialogo », del tutto inattuale, con Amendola (a cui in ogni caso sarebbe stato da pensare dopo la vittoria, e non nelle difficoltà del centro sinistra), non· è masshnalismo assicurarci del contributo delle Regioni alla pianificazione nazionale, quando né questa esiste, né si è in alcun modo sottoposta a condizione la responsabilità dei piani regionali? O aver preteso di « responsabilizzare » dei sindacati che nulla ave10

At1assi1nalisn10, trasforn1is1110, rifor111isn10 vano a che fare con quelli della realtà e fondato su questa operazione assurda i propri piani? O aver partecipato alla grande sarabanda sul corpo dell'Università, salvo a cercare di rimediarvi in extremis, dopo che tutti hanno già scontato gli effetti, con la proposta di concorsi « seri » o « aperti »? Né lo stesso partito socialdemocratico, nel suo periodo più belligerante contro il massimalismo, può essere esentato da ogni responsabilità, e per il suo contributo ai pasticci Misasi, e per aver accettato da Rumor che le elezioni regionali venissero indette pdma di una legge che ne definisse le funzioni, lasciando così una enorme materia di litigio (e litigio politico) alla Corte Costituzionale; e persino la compo:q.ente socialdemocratica della U.I.L., di cui nessuno può certo mettere in dubbio che sia stata la prima a opporsi al pansindacalismo, ma che ha scelto la via tattica dell'autonomia dell'organizzazione, piuttosto che la via difficile, strategica, redditizia solo a lunga scadenza, dell'opposizione di metodo. Non importa poi molto che gli stolti scioperi antigovernativi e per le riforme siano patrocinati da un'alleanza (in forma attenuata) piuttosto che da una organizzazione unitaria la quale dovesse fare i conti con una esplicita critica di n1etodo, sia pur minoritaria, al suo interno. E infine, toccante l'intero schieramento laico, si vide mai operazione più massimalistica del rifiuto di portare di fronte al suffragio popolare la più savia e moderata riforma civile votata in Parlamento, il divorzio, squalificando così anni di agitazione che avrebbero dovuto essere anche di educazione? Ma perché lin1itarsi alla cosiddetta« classe politica » (essa stessa espressione di sapore massimalistico, perché coinvolge in responsabilità generiche critiche le quali, o riguardano precisamente alcuni gruppi e partiti, oppure è una sorta di alibi per non affrontare il problema dei difetti del nostro sistema parlamentare, della debolezza dell'esecutivo, della fiacchezza dei Presidenti del Consiglio)? La verità è che questo « massimalismo delle riforme >> pervade tutto il paese; che ne è satura fino al midollo la categoria giornalistica, il cui « qualunquismo » degli anni cinquanta si è mutato lentamente, con il mutare degli indirizzi in alto loco, in « massimalismo riformista» senza mutar la sua profonda natura. Per limitarci alla politica estera, quello che era un fenomeno marginale, l'antiamericanismo, si è mutato per parecchi colleghi « militanti » (a assai buon pJ.ercato, secondo il nostro debole parere), in un fatto massiccio. Siamo saturi di antinixoniani, indifferentemente « mcgoverniti », « tupamaros » o vietnamiti o fedain: hanno il loro nido pre11

Aldo Garosci ferito nella R.A.I.-T.V. o nel « Giorno », ma incominciano a deporre le loro uova nel rispettabile « Corriere della Sera » ( con gli Zingone, i Bugialli, gli Ottone), nella « Stampa», un po' dappertutto. Non si tratta, badiamo, di antiriformisti coscienti, di gente che ha scelto la rivoluzione o il gaullismo o l'URSS o la Cina: anzi, sono tutti sostenitori convinti dell'Occidente: un Occidente s'intende, riformato, asettico, con le mani in ogni momento pulite, innocente e, se possibile, indifeso. Per lo più, se volete scorgere le origini del loro massimalismo, dovete risalire (ahimé, spiace di dover smitizzare anche il ricordo di coloro che amam1no e in fondo ancora amiamo) alla « sfida » e alla « nuova frontiera » Kennediana, la quale illuse i suoi seguaci che potesse esserci un paradiso democratico, quando non c'è mai che un purgatorio; e se il mito è terminato in tragedia per il presidente e per Bob, è finito in un mediocre film giallo per il più giovane Teddy, tuttora tenuto in serbo dall' establish1nent ove occorresse accontentare i radicals. Quel che è detto dei « giornalisti » vale di tutti gl'Italiani rap-. presentativi di una categoria qualunque; dai professori che, abbandonati da quelle autorità ministeriali le quali dovevano loro protezione in iscambio del loro lavoro, hanno finito ben presto per trovare il loro appoggio nei « riformatori massimalisti fuori corso », in quelli che erano i funzionari della contestazione, ai magistratilegislatori e partitanti, ai dirigenti industriali che hanno, a mente fredda, riversato sullo Stato il loro compito di classe di difesa dello sviluppo, via via a tutte le categorie, _così da permettere a La Malfa stesso di concludere amaramente or sono pochi giorni che tutti chiedono e nessuno vuole pagare. Né, per tornare in famiglia, mi pare sia andata esente da qualche forma di massimalismo riformistico neppure questa bella rivista. Non solo per la misura (e non tornerò sull'argomento) in cui ha lasciato soffocare_ la profonda ispirazione storicistica dalla moda sociologica; ma anche per alcuni aspetti particolarmente militanti e aggressivi del suo rifomismo, che avrebbero avuto senso non massimalistico solo se formulati in un'altra Italia, in un altro Mezzogiorno. Accennerò solo, aggiungendo che ognuno di quei punti di vista era difendibile, ma che tutti assieme sommavano a una massa di richieste insopportabile per la concreta società in isviluppo che avevamo dinanzi, alla polemica intransigente contro i « tempi lunghi » di Einaudi (forse che la nostra polemica ha contribuito anche di poco a ridurli a « tempi brevi » ?), all'indicazione dei « disincentivi » come mezzo importante ·di sviluppo del Mezzo12

l\1.assimalismo, trasformismo, rifonnismo giorno, alla scarsa valutazione dell'aspetto positivo, anche grondante di lacrime e sangue, dell'esodo rurale e al non averne fatto il dato di partenza per un nuovo ordine meridionale, ecc. Posso ben far adesso queste critiche, perché, dettate come sono dal senno del poi, esse stesse sono il sintomo di una tendenza al « riformismo massimalista», di nobile origine azionista del resto, nell'autore stesso di quest'autocritica. Le conseguenze del massimalismo, riformista o no, sono ben note: angoscia e reazione nella massa dei cittadini, così da accentuare· quei pericoli che non si chiamano « di destra » in senso conservatore (che è, se mai, la reazione agli errori del riformismo normale) ma di destra in senso eversivo e da noi di neofascis1no. Ma accanto e prima di questa conseguenza ce n'è un'altra più immediata, chiaramente visibile, che si chiama trasformismo. Quando il riformismo cessa di essere una operazione graduale, cosciente, sofferta; quando si crede che una maggior giustizia sia raggiungibile senza sacrificio - o che è lo stesso, con sacrificio degli altri - la riforma rimane inattuata nei suoi fini di giustizia e sviluppo di libertà, anche se ha avuto sanzione legislativa. I suoi frutti restano 1 in mano delle categorie intermedie, che hanno nelle mani i rubinetti della spesa pubblica: gli impiegati e dirigenti degli enti pubblici, le categorie « parassitarie », quei dirigenti sindacali con cui è stato spartito, senza precisi obblighi, il potere; la cospicua massa dei nuovi ceti medi, ancora ineducati al lavoro creativo, ma abbeverati di ogni sorta di promesse. Non serve dire che, poiché questa volta il massimalismo non è che secondariamente fenomeno di classe, e specie della classe operaia, non ci sarà reazione fascista. La reazione al trasformismo, che può anche avere una ragione morale, sarà comunque eversiva; e in assenza di un dignitoso ideale rivoluzionario in cui sperare (dopo il mezzo secolo russo e il venticinquennio europeo-orientale e cinese), s'indirizzerà all'eversione nelJ 'oscurità. Si peccherebbe però dello stesso massimalismo se si confondesse la necessaria satira, che qui ho composta, dei tempi nostri, con una apocalittica rinuncia alla stessa premessa riformistica. _Se si deve gettar via, al più presto, l'açqua del bagno massimalista (un « al più presto » che comporta un difficile processo politico, e per cominciare la penitenza delle « vacche magre » da affrontare con coraggio) non bisogna al tempo stesso gettar via il bambino riformista. La cornice delle riforme volute dal centro sinistra, e di 13

Aldo Garosci fatto inattuate, tranne per i trasferimenti di potere già indicati, rimane. Va, essenzialmente, mutato il metodo. Questo mutamento porta, mi sembra, su due o tre punti essenziali. Anzitutto, per quella che è l'azione governativa, si deve mirare a ottenere tra le forze di governo accordi parziali e concreti, piuttosto che accordi su formule promettenti, che nascondono contraddizioni e dissensi di interpretazione. Bisogna, cioè, passare dai grandi piani di riforn1a non finanziati, a provvedimenti singoli, che rientrino in un ragionevole piano stabilizzatore, e che rimedino a mali concreti, a concrete ingiustizie. Non che sia personalmente contrario ai grandi piani di riordinamento amministrativo di tutta una materia: in questo campo anche politici che non ci hanno altrimenti lasciato fama di grandi, e che avevano la loro parte reazionaria o trasformista, hanno compiuto cose egregie: Rattazzi, Crispi, Zanardelli, persino il primo ministero formato dopo la marcia su Roma. Ma si tratta di operazioni che richiedono ordini costi tuzionali che non possediamo e di cui non possiamo a freddo e per questa sola ragione desiderare l'insediamento. Nelle attuali condizioni, l'unità delle « piccole riforme » che si sommano per farne una grande è affidata alla capacità del Presidente del Consiglio e alla fiducia che egli riesce a riscuotere dai compagni di cordata, i dirigenti la coalizione, chiamandoli a dividere responsabilità e pubblico credito per la sua azione. Ma un'azione governativa di questo tipo comporta un grandissimo senso di responsabilità nei partiti coalizzati anzitutto, e poi via via nel paese. Nei partiti coalizzati: poiché riforme del genere da noi propugnato comportano sacrifici; e i sacrifici, per definizione (e come ben sanno prima di tutto i rivoluzionari) sono sopportati dal popolo. Le riforme devono perciò apparire a chi se ne avvantaggia non come risultato di « lotte », ma di organizzazione: di abilità contrattuale, certo, ma soprattutto della capacità di osservare il contratto, concluso in una prospettiva di sviluppo. Perché è impossibile alla società avvantaggiarsi in un punto senza qualche rinuncia in un altro. Incominciano a rendersene conto anche i più avanzati economisti moderni: non si tratta certo di tornare alla « legge di bronzo dei salari » o al « fondo salari » prefissato; ma, pur nello sviluppo dinamico della produzione, i costi permangono. È l'organizzazione successiva alla riforma che deve essere superiore alla precedente; non solo più civile, più umana, ma dove possibile più redditizia, e comunque più redditizia in termini· di buona volontà, di sicurezza, di armonia sociale. Non è dunque possibile che 14

Massin1alis1no, trasform.ismo, rifonnismo la riforma sia concepita, nel suo processo, come lotta che tende a radicalizzare i conflitti; essa esige, una volta strappata e decisa, un largo consenso, una collaborazione efficace dei più capaci; collaborazione che non si ottiene col terrore, se non per brevi periodi, né con la minaccia. Ecco perché poco atti alla riforma, malgrado tutte le loro doti di disciplina, sono i comunisti, e anche - direi soprattutto - i massimalisti del P.S.I.; e perché i primi non stanno in una coalizione di riformisti, e i secondi vi stanno a disagio. Non perché siano comunisti (questo riguarda se n1ai la riserva della politica estera) né perché siano del P.S.I. Ma perché quel continuo tessere l'elogio di lotte in parte notevole inventate, in parte recepite da altri, in parte fomentate con il sottinteso che non metterranno capo mai a un risultato soddisfacente (per il P .C.I., ove questo partito non prenda il potere, e per il P.S.I., neppure in questo caso) nega alla radice ogni possibilità riformista. Ciò che non vuol dire che, nei particolari, non vi siano in molti militanti di queste formazioni vere vocazioni riformiste. È nota l'opera trasformista-riformista di molte amministrazioni comuniste padane. La buona legge sui passaporti che possediamo è il frutto di un negoziato condotto da un parlamentare demartiniano che pure non è avaro di pretese massimalistiche nella sua ordinaria attività. Ma come volete che le vocazioni riformiste si destino se, non appena una resistenza riformista al massimalismo di principio si pronuncia, tutti i 1ninori e minimi si affrettano a rinnegarla a parole, riaffermando il proprio integrale modello di riforn1a totale (per lo più antiquato)? Tutte queste esigenze rifonniste solevano anche esprimersi nel principio, largamente accettato, che vi sono « priorità » nell'opera di riforma. Ma restare fedeli alle « priorità » una volta stabilite è risultato pressoché sovrumano. Perché? In verità, non intendiamo qui riaprire una disputa tra piani• frcazione « elastica » e autoritaria (non c'è architetto che non modifichi nel corso dei lavori i suoi piani; ma non affiderei rnolto volentieri la costruzione di un modesto tetto a un pianificatore « elastico » ). Conta piuttosto considerare attentamente in quale clima si realizzino le riforme. ·Quando i piani della nostra generazione riformista furono concepiti, a parte la fiducia forse eccessiva nei « modelli » permanenti, essi avevano comunque dietro a sé una carica ideale, una pienezza 15

Aldo Garosci di fede, una ispirazione etico-politica che conferiva loro pienezza e flessibilità. Successivamente, la mancanza di un bersaglio definito, come la tirannia, la crisi delle ideologie, gli stessi risultati di benessere, hanno logorato quelle premesse etiche (pensate, se volete, al Sud di Salvemini o di quando cominciò« Nord e Sud» e alla situazione odierna, squilibrata per tutt'altre ragioni e mi comprenderete). Senza una ispirazione etico-politica, senza la fede del capolega prampoliniano o del kibbuzista o del cospiratore russo del sottosuolo, non c'è riformismo possibile. I grandi maestri di vita eticopolitica, i Croce, gli Einaudi, i Salvemini, non sono stati sostituiti. I superstiti di quella generazione brillano talvolta più della luce di allora che di quella originale. La costruzione europea diventa sempre più un hoax, né compiuta né abbandonata, mentre nuove forze politiche e nuovi equilibri premono. Ma fuori di un clima etico-politico di entusiasmo non vi sono probabilità per un riformismo concreto. Lo provano a contrario i n1olti giovani tuffati ne]- l'avventura nichilista, che spregiano a priori il riformismo perché questo non gli ha offerto modelli di vita, esempi di sacrificio a cui riscaldarsi. Non essendo profeta e non avendo vocazioni carismatiche, non saprei dare un precetto immediato per rimediare a questo stato di cose. Ma da vecchio piemontese (figlio del resto di un emigrato da quello che allora era il nostro Sud mediterraneo, la Liguria), una cosa ho tratto dall'ambiente familiare, un insegnamento che si ricongiunge a quello più alto del maggio~ filosofo dell'età in cui ho vissuto. Ed è che se ciascuno di noi non può essere un capo un filosofo un poeta un santo, tutti siamo uomini con una ben precisa vocazione; e condursi con serietà nell'ambito di essa, riformisti o rivoluzionari che si sia, è servire l'innalzamento di ciò che abbiamo di più prezioso in noi. Mentre mentire a questa vocazione per il puro potere (e chi, in piccolo o in grande, non ha peccato, magari pensando di riprendersi poi, scagli la prima pietra), è spegnere quel dono che, piccolo o grande, a nessuno è negato. ALDO GAROSCI 16

La • • s1n1stra e il • terrorismo di Ennio Ceccarini Domanda dell'inquirente: « che cosa pensavi di ottenere con questo massacro? ». Risposta dell'interrogato: « niente. Era una azione giusta in se stessa. Ora, ve ne supplico, permettetemi di morire. Ho assolto il mio compito, da questo momento sono un martire ... ». · Il dialogo, allucinante, è tratto dai verbali della polizia dj Tel Aviv, il « martire» è Kozo Okamoto, il superstite dei tre kamikase giapponesi che hanno compiuto all'aeroporto internazionale di Lod una strage di innocenti (25 morti, 78 feriti) il 30 maggio scorso. Okamoto verrà. poi condannato, il 17 luglio, al1' ergastolo. Un settimanale italiano, all'indomani delJa carneficina di Lod, ha commentato: « con questo massacro entra in scena un nuovo tipo di terrorista: lo stern1inatore per commissione. Che accadrà ora? ». Esiste dunque una centrale internazionale del terrorismo, un'organizzazione mondiale della violenza che pianifica freddamente lo sterminio, il rapimento, l'esecuzione, il dirottamento, il ricatto, l'attentato? che gioca su una scacchiera in cui il ca1nuffamento delle pedine (giapponesi a Lod oggi, brasiliani a Stoccarda domani o a Milano) è metodo sicuro di gioco per assicurare l'impunità del crimine? Siamo dunque alla Spectre delle spy stories futurologiche di James Bond? Oppure vale l'ipotesi accennata da Indro Montanelli ( « Il Corriere della sera » del 18 maggio) per cui « l'anormale che, in preda ad una sua ossessione, la incarna in un uomo e su lui scarica la propria furia vendicatrice e liberatrice, è un fatto patologico che fa parte della- fisiologia di qualsiasi società, anche la più sana »? Oppure entrambe le ipotesi non colgono appieno il senso di questo che è stato, finora, il terribile anno dell'eccidio 9rganizzato e occorre volgersi alla" ricerc~ di una ipotesi più adeguata? I collegamenti, anche stretti, tra le diverse organizzazioni terroristiche sono innegabili, come noto è il loro principale centro geografico. e politico di incontro e d1 addestramento. Nei campi palestinesi del Libano si sono addestrati e si addestrano 1ns1eme 17

Ennio Ceccarini uomini della banda tedesca Baader-Meinhof, guerriglieri « provisionals » dell'IRA, giapponesi del Renko Sekigun (Esercito rosso unificato), la setta fanatica che ha fornito gli assassini di Lod, « tupamaros » di tutte le nazionalità latino-americane, pantere nere e membri del Black liberation army, uomini dell'Esercito turco di liberazione (l'organizzazione che ha rapito e ucciso il diplomatico israeliano David Elsrom). L'ambiente per l'addestramento è ideale assai più dei vari « covi» nazionali di questi uomini del terrore: mezzi militari ed economici, vasti spazi, nessuna polizia alle spalle. Ma si può per questo affermare che esiste una centrale del rivoluzionarismo arn1ato, un cervello o un brain trust del crimine terroristico? Anche se, cinque anni fa, a Cuba si tenne una conferenza per la progettazione della rivoluzione e della guerriglia da esportare, anche se incontri e contatti si tengono clandestinamente in varie città europee e tra i membri delle diverse organizzazioni e anche se l'episodio di Lod ha confermato che il «prestito» di uomini da un'organizzazione all'altra è orn1ai dato di fatto, l'ipotesi della Spectre non tiene. I fanatici della cospirazione violenta (come ha scritto giustamente Alberto Ronchey su « La S_tampa » dell'l 1 giugno) sono incapaci di usare una logica aggregatrice e complessa tipica della politica, e della politica che diviene organizzazione. Essi appartengono alla sottopolitica ed alla sotto-organizzazione. Una velleità ideologico-organizzativa è certo alla base della loro milizia, ma lo spunto della loro azione è schizoide, cioè saltuario, individualistico, fuori di ogni regola pensata con l'occhio ad un concreto disegno futuro. Resta l'ipotesi della « follia solitaria », della nevrosi che esplode nella violenza individuale vendicatrice delle frustrazioni, del comportamento anormale che elegge a motivo della propria liberazione un oggetto da distruggere. Un fenomeno antico, certamente, n1a insufficiente a spiegare il terrorismo degli anni settanta. C'è innanzitutto una quantità di violenza che fa anch'essa differenza qualitativa. Una scorsa alle cronache di questi primi mesi del '72 lo conferma. Dall'l 1 al 24 maggio nella Germania federale si sono registrati sei attentati gravissimi, con numerosi morti e feriti. Nel 1971, gli attentati nella stessa RFT sono stati circa 500 contro i 48 del 1969. In Italia la scalata della violenza ha indici quantitativi più bassi, ma episodi non meno tragici: dalle macchine al tritolo che uccidono i carabinieri di Gorizia al « traliccio » di Feltrinelli e all'omicidio del commissario Calabresi. La guerriglia urbana dei 18

La sinistra e il terrorisn10 tupamaros uruguaiani scandisce ormai quotidiana1nente i propri episodi di sangue e le bombe della faida di Belfast incendiano ogni notte della capitale irlandese. Un'esplosione simile - e tralasciamo l'elenco praticamente in1possibile dei dirottamenti aerei, dei rapimenti e di altri atti di terrorismo - non può essere spiegata sulla base della « follia solitaria », del « volto tra la folla » che pretende un allucinato posto di rilievo nella storia da cui la sua condizione di « massificato » lo esclude. Ci sono dunque un fattore qualitativamente nuovo, un comportamento nichilistico (e vedremo quanto anch'esso diverso dalla tradizione europea del delitto politico), un tipo di infezione morale, un'ideologia della violenza che, con diverse motivazioni e sulla base di cause sociali diverse, qualificano e quantificano il terrore, moltiplicano le cellule impazzite del caos. Un denominatore comune con pretese di ideologia e strutture e metodi d'azione mutuati dal mondo del crin1ine. Il primo approccio alla definizione di questa novità va con1piuto in termini di valutazione morale 1 • I terroristi di Tel Aviv, come l'ala estremista dell'IRA, co1ne i membri della Rote Armee Fraktion di Andreas Baader, come i tupamaros assassini di Dan Mitrione e di Oberdan Sallustro non colpiscono i « colpevoli », n1a sp·argono la ferocia sugli innocenti. Sono i nuovi « Giusti » che non arretrano dinnanzi al figlio del granduca. Il loro bagaglio è una somma di sinistri rifiuti: il rifiuto della ragione che si traduce nel disprezzo della vita (l'altrui e la propria), nell'eclisse dei valori più elementari di umanità; il rifiuto della storia che li porta alla perdita del senso etico dell'esistenza, alla violenza nuda e criminale come sistema e con1e valore. Il secondo apprezzamento deve essere riferito alla pretesa dei nuovi « Giusti » di essere considerati in qualche filone rivoluzionario. La loro azione, in verità, rappresenta una rottura secca con la tradizione anarchica ottocentesca e novecentesca. Gli anarchici, i nichilisti della storia europea hanno compiuto i loro atti isolati di lucida follia, hanno predicato ed attuato la violenza, hanno contato le loro vittime prirna di salire su un patibolo o di offrirsi alle pallottole di un plotone d'esecuzione, ma il loro gesto si rivolgeva 1 Vedere in proposito gli esemplari articoli di SANDRO BoNELLA su « La Voce repubblicana » del 31 maggio e del 2 giugno. 19

Ennio Ceccarini sempre contro un « colpevole », contro un « tiranno », a riscatto e purificazione di un'umanità n1entaln1ente ritratta in ceppi. Il terrorismo d'oggi nulla ha in comune con questa filosofia. La sua weltanschauung è quella rozza e criminale del · kidnapping, la sua chiamata in causa dei « veri » responsabili somiglia alle scuse procesStiali del banditismo o delle gangs urbane, il suo balbettìo ideologico pretende che l'intolleranza e la violenza « ripropongano » la vera ideologia rivoluzionaria abbandonata dai revisionisti 2 • Un terzo tipo di considerazione deve riguardare la collocazione del fenomeno terroristico n1oderno nel contesto della situazione internazionale. « La logica del terrorismo -.- ha seri tto Arrigo Levi ( « La Stampa » del 4 giugno) - è pre-atomica ... ». È vero. Si tratta di una logica che tenta, con mezzi sanguinari anche se fortunatamente inadeguati, di risospingere la società verso una condizione di caos. Il suo bersaglio internazionale è l'ordine, quel tanto di pace .e di quiete relative che l'uso della responsabilità da parte dei dirigenti delle superpotenze ci consente. La sfida pazza di questi nuclei di violenti è rivolta contro la distensione e contro la coesistenza. Il perché è evidente. Il nuovo corso degli equilibri politici internazionali tende ad escludere la forza come mezzo di soluzione dei contrasti tra le potenze o i gruppi di alleanze, a ridurre e controllare ( crisis management, dottrina comune ai sovietici come agli an1ericani e, ora, anche ai cinesi) le zone di frizione o accensione spontanea; nel contempo l'equilibrio nucleare, i delicati meccanismi di tutela della pace e della sopravvivenza del genere umano, tolgono spazio alle visioni esasperatamente ideologiche dei rapporti internazionali. Una nuova visione, per la verità, ed una nuova ideologia si affacciano predominanti nel mondo che trattiene l'atomo. È una concezione critica, antidogmatica, scientifica che si sforza di individuare, dietro le continue sollecitazioni al contrasto e alla sfida, le ragioni per cui il mondo con i suoi sistemi politici e sociali è ineluttabilmente e legittimamente « diverso ». Il punto d'approdo di questo spirito laico, volto alla ricerca e alla comprensione, è l'individuazione di punti di convergenza che consentano di combattere i mali e i pericoli che, al di là di ogni differenziazione ideologica, si profilano comuni ai diversi sistemi. L'unità nella diversità della società umana è il lievito morale e culturale di questa spinta razionalizzatrice e sistematrice, la pace il fine essenziale proprio 2 Cfr. Formare l'armata rossa -. I tupamaros d'Europa?, testi del « gruppo Baader-Meinhof-Horst Mahler », Bertani editore, 1972, pp. 164-165. 20

La sinistra e il terrorìs1no perché il pericolo nascosto negli arsenali e immane e la potenza distruttrice può ad ogni momento rendere irreparabile quel precario vivere nella sicurezza e nella costruzione che è pure la prima forza motrice della storia. Il terrorismo si oppone con disperazione folle a questo spirito laico e razionale. Il sogno fosco ed irrazionale che la violenza dei gruppuscoli oppone è quello di un disastro cosmico che, travolgendo i sistemi esistenti, capitalisti o revisionisti che siano, renda automaticamente salva e pura la società. Un sottobosco di angosce e rancori primitivi, elementari, irrazionali pretende di µorsi come alternativa alla civiltà moderna ed alla sua operosa, faticosa, mai disperata anche se drammatica, spinta all'esistenza e all'in- . venz1one. Questi appaiono, ad una sommaria analisi, gli elementi costitutivi del 1nale che si è affacciato in questi anni a 1ninare il nostro difficile « quantum » di sicurezza. La domanda che ora si pone è quella dei rapporti tra questa visione e le ideologie e le forze politiche tradizionali. E la domanda investe anzitutto - non per polemica, ma, come vedremo, per oggettive ragioni - la sinistra. L'atteggiamento della sinistra rispetto al fenomeno terroristico è vario e contraddittorio: ci sono dissociazione e deplorazione, ma vi è anche un imbarazzo e un'ombra di indulgenza intellettuale. La sinistra spazia dalla suspicione nutrita nei confronti delle « trame nere>> e delle occulte complicità dello Stato di classe, all'accusa di infiltrazioni provocatorie per coinvolgere i movimenti progressisti organizzati, all'attribuire all'imperialismo la vera causa della violenza (e quindi ad una forma di assoluzione). Il pasticcio è grande e muoversi alla ricerca di una spiegazione coerente quasi impossibile. Il fatto è che i movimenti terroristici partono da un principio noto, anche se applicato poi in n1aniera aberrante: la necessità di una lotta mondiale contro il sistema consolidato dell'imperialismo. È un principio che, in qualche n1odo, si richiama a posizioni ideologiche ufficiali della sinistra. Storicamente il terrorismo nasce come reazione disperata alle regole positive dei rapporti internazionali di questi anni, cioè in rottura con la distensione e la coesistenza. Ma anche la sinistra, pur convergendo di necessità nell'appoggio alla distensione, ha tentato un'operazione ambigua, risolta in una non completa accettazione intellettuale e culturale delle regole e delle conseguenze della coesistenza:· cioè nel tentativo di distinguere tra distensione, come rifiuto dei mezzi violenti di soluzione dei conflitti tra sistemi, e 21

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