Nord e Sud - anno XIX - n. 150 - giugno 1972

, NORD E SUD Rivista mensile diretta da Francesco Compagna Girolamo Cotroneo, La rivoluzione improbabile - Roberto Berardi, I meridionali nelle scuole del Nord - Tullio d'Aponte, L'industria chimica fra due Piani - Manlio di Lalla, Antifascismo e post/ ascismo e scritti di Autori vari, Vittorio Barbati, Franco Bernstein, Mario Cataudella, Francesco Compagna, Maria Laura Gasparini, Antonino Laganà, Sebastiano Maffettone, Nino Novacco, Antonino Répaci, Paolo Sylos Labini. ANNO XIX - NUOVA SERIE - GIUGNO 1972 - N. 150 (211) EDIZIONI SCIENTIFICHE ITALIANE - ì-.JAPOLI

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SOMMARIO Editoriale [3] Girolamo Cotroneo La rivoluzione improbabile [7] Roberto Berardi I meridionali nelle scuole del Nord [16] Tullio d'Aponte L'industria chimica fra due Piani '[25] Cronache meridionaliste Paolo Sylos Labini Il malessere dell'economia [36] Francesco Compagna La crisi economica, il Mezzogiorno, il programn1a [40] · Nino Novacco Congiuntura e Mezzogiorno [ 44] Francesco Compagna Politica 1neridionalista e « azioni » settoriali [ 46] Saggi Manlio di Lalla Antifascismo e postfascismo [51] Antonino Laganà Sebastiano Maffettone Maria Laura Gasparini Giornale a più voci Durkheim e la Sociologia [78] Economia e sviluppo uman,o [82] Da Annarumma a Ciriaco [ 85] Testimonianze Franco Bernstein La violenza fascista nelle scuole [91] Argomenti / Autori vari L'occupazione nel 1971 [97] Vittorio Barbati La politica della difesa [ 103 J Paesi e città Mario Cataudella Gli albanesi del Pollino [ 117] Lettere al direttore Antonino Répaci Il giudizio su Facta [124]

Editoriale È stato nel corso della campagna elettorale che La Malfa ha espresso le sue preoccupazioni per le industrie che non sono più in grado di provvedere agli ammortamenti; e quindi per il paese che vive consumando il patrimonio, come quella famiglia che comincia col vendere i mobili del salotto, poi vende quelli della sala da pranzo e alla fin.e non gli resta che vendere i letti. Ed è stato subito dopo la campagna elettorale che queste preoccupazioni si sono dimostrate più che allarmanti, dal momento che Cefis, Carli, Petrilli, Pirelli hanno detto le cose che hanno detto sulla situazione nella quale versa l'industria italiana che nel 1971 ha perso complessivamente 400 miliardi. Tanto più che, se son.o in crisi la Montedison e la Pirelli, sono assai più in crisi le medie industrie; e che, se il problema degli amn1.ortan1enti si aggrava per l'ENEL e per talune grandi imprese a partecipazione statale, o privata, esso è diventato drammatico per le piccole e medie industrie che, create negli anni del cosiddetto « miracolo economico », avevano assicurato quantitativamente le più cospicue possibilità di occupazione extra-agricola anche in regioni che prima degli anni '50 erano prevalentemente agricole. Se poi consideriamo gli effetti della crisi nei confronti della politica di sviluppo del Mezzogiorno, possiamo ben dire che essi risultano tali da compromettere forse addirittura irrin1.ediabilrnente i programmi di industrializzazione che erano stati formulati e perfino sbandierati negli anni scorsi. Se è vero, infatti, che, malgrado qualche rallentamento, i programmi della Fiat e dell'Alfa-sud sono stati portati avanti, è anche vero che per quanto riguarda i prograrnnzi della Pirelli si è parlato non di rallentamento ma di slittamenti; è anche vero che per il V centro siderurgico si è parlato di ridimensionamento e si potrebbe parlare di ripensamento; è anche vero che per l'Aeritalia le difficoltà non consistono soltanto nella scelta della localizzazione per il nuovo stabilimento. Si proietta minacciosa, d'altra parte, sul prossimo futuro, la ormai imminente stagione dei rinnovi contrattuali e non si sa come e se le confederazioni potranno imporre alle federazioni impegnate per questi rifl,- novi un minimo di senso degli interessi generali, quanto meno degli interessi generali di tutti i lavoratori dipendenti. Le « piattaforme » elaborate dalle singole federazioni risultano, infatti, viziate da una logica di categoria e sono tali che, se non fossero riviste e corrette, l'economia industriale del paese subirebbe la mazzata definitiva ed i lavoratori di3 I

Editoriale pendenti si troverebbero tutti in una condizione assai più difficile di quanto già non lo sia quella in cui si trovano oggi, con tante fabbriche chiuse o sull'orlo della chiusura. Né si potrebbe seriamente parlare di questo o quel piano di settore, del piano chimico, per esempio, o di espansione per nuovi comparti dell'industria meccanica, se l'autunno dovesse risultare tanto caldo come le « piattaforme » elaborate dalle federazioni lo preannunciano. Ma anche a prescindere dalle rivendicazioni sindacali delle federazioni, e anche a voler considerare esagerate le considerazioni di Carli, Cefis, Petrilli, Pirelli, la gravità della crisi industriale è di tutta evidenza; e le condizioni finanziarie del paese sono assai più allarmanti di quanto non lo fossero alcuni anni or sono, quando già erano assai più allarmanti di quanto non fossero disposti a credere tutti coloro che hanno poi contribuito ad aggravarle. Basterebbero, quindi, la constatazione della gravità di una crisi industriale che espone sempre più numerosi lavoratori al rischio di perdere il posto di lavoro, e ne condanna tanti altri, meridionali, al rischio di non trovarlo mai più, e la constatazione del peggioramento subìto dalla situazione finanziaria, per dedurne che si devono adottare soluzioni di e1nergenza. I repubblicani avevano formulato appunto una indicazione di emergenza all'indomani stesso delle elezioni e avevano quindi proposto di formare un governo che non riproponesse i logori schemi del centrosinistra quale si era configurato nella V Legislatura e in pari tempo non risultasse un tentativo di restaurazione centrista: governo di emergenza, dunque, con i socialisti, e anche con i liberali. Con1e ha poi detto La Malfa, nell'intervista al « Giorno », se si fosse tornati al centro-sinistra del passato recente, « o magari anche migliore del passato », 1'.Jalugo · · avrebbe dovuto dire in Parlantento che non era cambiato niente, n1algrado la gravità della situazione economica, 1nalgrado i turbamenti che le violazioni sistematiche della legalità repubblicana avevano provocato nella pubblica opinione, malgrado gli impegni grazie ai quali la DC aveva « recuperato ». Ma quando Malagodi avesse dovuto denunciare che, passata la festa, era stato gabbato il santo, questo non sarebbe servito tanto allo stesso Malagodi quanto ad Almirante, che avrebbe potuto così servirsi della testimonianza di una forza democratica ( i liberali) per tentare, fin dalle prossime elezioni amministrative di novembre, il recupero di voti recuperati nelle elezioni politiche dalla DC. L'isolamento dei fascisti, cioè, passa per la corresponsabilizzazione dei liberali nell'azione di governo, intesa come impegno con1une di tutte le forze democratiche a portare il paese fuori dalla situazione di emergenza. E d'altra parte, il PLI, con1e partito della frontiera antifascista, depurato dei suoi cattivi 4

, Editoriale umori del 1963, riqualificato dall'impegno per il buongoverno di cui ha dato prova all'opposizione e soprattutto dalla caratterizzazione laica che si è dato nella battaglia per il divorzio, oltre che dalla coscienza europeista e risorgimentale cui non è mai venuto meno, non è più il partito dal quale noi stessi sia1no usciti negli anni cinquanta, quando Malagodi si era assunto il ruolo di cinghia di trasmissione della Confindustria di De Micheli; e quindi può recare un suo contributo non irrilevante al risanamento del malgoverno, all'equilibrio tra laici e cattolici, all'integrazione dell'Italia moderna nell'Europa moderna. Si. deve dare atto alla maggioranza della DC di avere raccolto l'indicazione di emergenza fonnulata dal PRI. Ma questa indicazione è stata respinta dai socialisti. Non sono stati infatti i liberali a porre un veto nei confronti dei socialisti, ma questi a porlo nei confronti di quelli. E tuttavia, la maggioranza della DC ha voluto precisare che, dopo l'autoesclusione dei socialiiti, il governo con le « alleanze possibili » non doveva configurarsi come governo di svolta a destra, n.é come governo di restaurazione centrista, n1a sempre e comunque conie governo di emergenza, che potesse anche proteggere i ternpi ed i modi del preannunciato e da tutti auspicato chiarimento socialista. Ma le sinistre della DC, in quanto hanno anch'esse, come i socialisti, rifiutato l'indicazione di eniergenza, considerano, e lo hanno detto esplicitamente, il governo con la partecipazione dei liberali un governo di svolta a destra o quanto meno di restaurazione centrista: accettabile da esse solo per ossequio alla disciplina di partito. Siamo tornati così al gioco delle preclusioni e delle formule contrapposte: il centrismo com'era diventato dopo il 1953 ed il centro-sinistra co1n'è diventato dopo il 1968 e com.e taluni vorrebbero che continuasse a configurarsi. E vano è risultato pure il richiamo dei repubblicani alle responsabilità delle sinistre democristiane rispetto all'esigenza di accettare e far propria l'indicazione di emergenza sia per dare un governo al paese con le forze democratiche di~ponibili, sia per evitare che tale governo si configurasse come governo di restaurazione centrista e di chiusura ai socialisti. Anzi, in conseguenza del richiamo repubblicano le sinistre dewtocristiane hanno dichiarato che si sarebbero sottoposte al vincolo della disciplina di partito e che solo perché condizionate da questo vincolo avrebbero votato la fiducia ad un governo con i liberali: hanno insomma voluto qualificare come centrista e non di emergenza il governo con le forze den1ocratiche disponibili, con le alleanze possibili. Si vedrà ora come funzionerà il vincolo della disciplina di partito per le sinis,tre democristiane a confronto con il vincolo della disciplina di maggioranza che si sono imposti i repubblicani dopo che non solo i .socialisti ma anche le sinistre democri5

Editoriale stiane avevano rifiutato l'indicazione di emergenza. Ma si è già visto, intanto, con quanto disagio le sinistre democristiane si sono rassegnate ad abbandonare le posizioni di governo che del -resto avevano mantenute nel monocolore preelettorale, pur votato dai soli liberali: non sono mancate, infatti, da parte delle sinistre de111ocristiane (fatta salva ovviamente la dignità dell' on. Moro), le pressioni dell'ultinio minuto sui repubblicani perché fossero proprio i repubblicani a formalizzare la richiesta di un impegno nel governo di esponenti delle sinistre democristiane; perché in tal caso ci sarebbe stato l'alibi e le posizioni di potere sarebbero state ancora una volta salvate. Bene hanno fatto i repubblicani a non fornire questo alibi. Così le sinistre democristiane sono fuori del governo che loro stesse hanno voluto qualificare come centrista, se non addirittura di svolta a destra, mentre, se lo avessero considerato di emergenza, come chiedevano i repubblicani, ci sarebbero potute entrare, insienie ai repubblicani, anche in assenza e in attesa dei socialisti. Comunque sia, rispetto al governo_. pare che abbiano voluto prendere le distanze anche personaggi come Rumor e soprattutto Colombo; mentre Saragat si è nzolto negativanzente espresso per quanto riguarda il tipo di soluzione che ha finito per prevalere. A questo punto si può dire che l'indicazione di emergenza è stata disattesa e che è fallita l'operazione diretta a qualificare il governo con i liberali come governo di emergenza. Non per questo il governo resta qualificato come governo di restaurazione centrista: è un governo di attesa del chiarimento socialista. Ma intanto la situazione di emergenza inco111besui prossimi mesi e potrebbe aggravarsi irrimediabilmente. E se _il chiarimento socialista non ci fosse (poiché è difficile, lo ammettia1110, conciliare l'attributo « socialista » con il termine « chiarimento »)? Allora potrebbe essere veramente il momento della restaurazione centrista, legittimata dal mancato chiarimento socialista e possibilmente corretta da un eventuale sfrangiamento socialista, alternativo rispetto al chiarùnento: che potrebbe cioè verificarsi quando non si verificasse il chiarimento. Purché la situazione di emergenza non diventi irrùnediabile per la democrazia. Si gioca con il fuoco. Il governo di attesa consenta almeno di riflettere. Resta comunque fissata la responsabilità non dei partiti minori, ma delle sinistre del partito maggiore nell'avere compro1nessa la possibilità di formare un governo di emergenza ancora aperto ai socialisti e nell'avere spinto verso l'approdo ad un debole governo di attesa, che potrebbe essere attesa del peggio più che del meglio. 6

La rivoluzione improbabile di Girolamo Cotroneo Nel 1852 Felice Orsini, il futuro attentatore di Napoleone terzo (quindi uno che di terrorismo politico e di rivoluzioni se ne intendeva), così scriveva in una pagina delle sue Memorie politiche: « Una setta, o pochi fuorusciti strettisi in segreta associazione, o in comitato, possono muovere bensì una mano di malcontenti, od anche di giovani bravi ed ardenti, ché in ogni regione ve n'hanno sempre; ma essere cagione di rivoluzione generale, se gli spiriti non sono propizi a ricevere i cambiamenti, no. Le rivoluzioni sono conseguenza di un bisogno universalmente sentito e non soddisfatto dai governi; nascono spesso per casi impensati, come si è veduto a Genova pel trasporto del mortaio nel 17 46, e a Parigi più volte. Ma perché l'occasione dia moto alle passioni, e faccia che il popolo insorga, è mestieri che la rivoluzione morale sia compiuta, la oppressione universalmente sentita, l'odio contro il dispotismo straniero o interno profondo e inveterato nei visceri della società ». Sono passati centoventi anni da quando queste parole sono state pronunziate: ma non una sola di esse mostra la sua età e l'usura del tempo. Ciò che Felice Orsini scriveva nel 1852 si ripropone tale e quale oggi, in un momento in cui la parola « rivoluzione» risuona con una frequenza che mai aveva avuto nel corso della sua breve storia. Il concetto di rivoluzione, infatti, ha un'origine abbastanza recente: sconosciuto al mondo antico e a quello medioevale (gli storici latini usavano il termine seditio, inteso però come « ribellione », che significa tutt'altra cosa: Albert Can1us vedeva in questa la vera essenza dell'uomo; e parafrasando il celebre assioma cartesiano diceva « mi rivolto, dunque sono»), esso nasce soltanto nel mondo moderno. Terminologicamente appare forse per la prima volta nel linguaggio scientifico col significato di « girare attorno » (il mqto di rivoluzione degli astri); e poiché _« girare attorno » significa il completo rivolgimento di un corpo sino a mostrarsi in maniera opposta a quella in cui si presentava prirr;ta, il termine si trasferì agevolmente nel linguaggio politico per indicare il radicale mutamento della struttura di una .società o di uno Stato. Questo trasfe7

Girolamo Cotroneo rimento avvenne nel secolo diciottesimo con l'esplodere della prima, vera rivoluzione della nostra storia, quella francese (nel senso che questa fu la prima che si pose consapevolmente come tale, anche se un notevole grado di consapevolezza rivoluzionaria lo si può trovare già nelle lotte dei puritani inglesi del Seicento). Una storia alquanto breve, quindi, anche se il senso (o il desiderio, l'attesa) di un rivolgimento radicale è antico forse quanto il mondo degli uomini: basti pensare all'attesa ebraica del Messia o a tutta l'escatologia cristiano-medioevale; solo che mentre queste vedevano la realizzazione delle speranze e dei desideri dell'uomo in una prospettiva metafisico-trascendente, il pensiero rivoluzionario moderno ha trasferito in terra quella realizzazione, trasformando un sentimento originariamente religioso in attività e forza politica (anche se, come vedremo, sulla base di quanto è stato detto di recente al proposito, un'istanza mistico-irrazionale permane ancora al fondo della moderna filosofia della rivoluzione). Prima di affrontare questo problema torniamo a quello che, con le parole di Felice Orsini abbiamo posto all'inizio: cioè il conflitto tra la volontà di avviare un processo rivoluzionario e l' esistenza delle condizioni che ne consentano la realizzazione e la riuscita. I teorici della rivoluzione si sono sempre trovati stretti da questo dilemma: attendere che si creino le « condizioni », aspettando quietamente il momento in cui la rivoluzione esploderà praticamente da sola, oppure favorire con qualsiasi azione, la nascita delle condizioni stesse? Sarebbe del tutto superfluo riportare diffusamente gli argomenti con cui può essere sostenuta (o meglio: con cui i teorici della rivoluzione sostengono) l'una o l'altra delle due tesi, in quanto sono fin troppo noti: da una parte si parla di immobilismo, di determinismo, di fatalismo, dall'altra si ritiene che l'attività provocatori.a possa favorire la controrivoluzione preventiva, togliendo lo spazio ad ogni attività politica di opposizione. Si tratta, come si diceva, di argomenti notissimi, oggi ripetuti, con abbondanza di citazioni e di esemplificazioni, fino alla noia. Il problema che qui ci interessa è invece un altro: il discorso precedente, pur nella diversità dei punti di vista richiamati, si fondava tuttavia sulla convinzione incrollabile che soltanto attraverso la rivoluzione certi obiettivi politici potrebbero essere raggiunti. Data per scontata questa posizione, condivisa oggi da un settore abbastanza largo (anche se non larghissimo) della sinistra europea, vale la pena di chiedersi se l'assunto sia valido, se la « rivoluzione » sia veramente e assolutamente necessaria per il per8

La rivoluzione improbabile seguimento di quegli obiettivi di libertà, di giustizia, di eguaglianza, ecc., che sono poi i fini di qualsiasi lotta politica moderna. Perciò ascoltiamo al proposito due autorevoli voci del nostro tempo, l'una delle quali riguarda l'efficacia della rivoluzione in sé e per sé, mentre l'altra si rivolge più direttamente ai nostri giorni e all'attuale situazione del mondo occidentale. La prima è quella di Benedetto Croce. In un saggio dal titolo Forza e violenza il filosofo napoletano sosteneva che « le maggiori, le più profonde rivoluzioni, l'umanità le ha compiute e le compie senza violenza, con le lotte consuete di cui s'intesse la vita umana, quasi per naturale svolgimento; laddove la violenza e i ' Terrori', che sono stati di talune ma non di ogni rivoluzione, segnano una loro imperfezione, tanto che essi misero a capo a più o meno gravi reazioni e dittature e tirannie e assolutismi, e ripigliarono poi il loro corso progressivo con la forza bensì, ma non più con la violenza »; e ricordava l'esempio dell'Inghilterra che dopo la dittatura del Cromwell e la restaurazione degli Stuart aveva compiuto la sua autentica e duratura rivoluzione incruenta, e quello della Francia, che, « dopo l'assolutismo napoleonico e dopo una n1alsicura carta costituzionale, si liberò veramente dall'assolutismo monarchico e dalla incerta libertà con le giornate di luglio ». Che il Croce, nel quadro della filosofia storicistica da lui professata, giungesse a simili conclusioni, non può essere certo per nessuno motivo di stupore: e l'accusa di « moderatismo » rivolta alla sua dottrina socio-politica ne risulta anzi ancor più rafforzata. Senza entrare nel merito del discorso di Croce, passiamo ad ascoltare un'altra voce sullo stesso argomento: quella di un filosofo il quale è stato, per lontane mediazioni, uno dei padri spirituali dello spirito rivoluzionario contemporaneo, avendo elaborato, assieme a Theodor W. Adorno, quella « teoria critica » della società che tanto peso ha avuto (ed ha tuttora) nelle vicende culturali del nostro tempo. Come si sarà già compreso, si tratta di Max Horkheimer, il quale proprio di recente ha detto delle parole di grande interesse sull'opportunità e sui risultati che avrebbe un'eventuale rivoluzione nei paesi dell'Occidente europeo. Occorre anzitutto premettere che, secondo il coautore della Dialettica dell'illuminismo, l'attuale direzione presa dalla nostra società, « non condurrà al regno della libertà, bensì a un 'mondo governato ', cioè a un mondo in cui tutto sarà così perfettamente regolato da togliere a ciascun uomo la necessità di affaticarsi per sopravvivere, per cui egli dovrà sviluppare fantasia e inventiva di 9

Girolamo Cotroneo gran lunga minore di quanta ne occorreva ancora nell'epoca del liberalismo borghese». Non si tratta naturalmente di una prospettiva allettante, né Horkheimer la vede come tale. Comunque sia, partendo da questa premessa, egli conclude affermando che « se oggi in Occidente avvenisse una rivoluzione, soprattutto nei paesi in cui regna ancora la democrazia, il risultato potrebbe essere. soltanto un generale peggioramento, perché sarebbe così aperta una strada più rapida e agevole verso quel controllo centralizzato e unitario che è abbastanza sensato prevedere come una prossima ventura realtà». Come si vede Horkheimer, alla maniera di Croce, giudica in modo del tutto negativo il nesso fra rivoluzione e libertà; ciò lo ha portato ad affermare che gli uomini che lottarono per la liberazione dal fascismo « ebbero come ideale e speranza, ancora una volta, la rivoluzione. Tuttavia - ha aggiunto - sono convinto che oggi l'annientamento delle istituzioni democratiche, a cui la rivoluzione inevitabilmente porterebbe, rappresenta un male peggiore dello stato presente ». Le due posizioni esaminate, opposte nei punti di partenza, opposte ancora, se si vuole, nelle conclusioni ulti1ne, coincidono tuttavia sul punto essenziale che ci interessava esaminare: e cioè sul fatto che la rivoluzione, particolarmente nei paesi democratici, non solo non accelera, ma addirittura rallenta lo sviluppo civile di un popolo. Qualche anno addietro pure Alberto Moravia ha scritto che le rivoluzioni conducono sempre a una dittatura: di sinistra, se hanno successo; di destra, se falliscono._ Naturalmente si potrebbero citare, perché certo non mancano, argomenti persuasivi e scrittori autorevoli per dimostrare la necessità e la validità della svolta rivoluzionaria e la sua insostituibilità per raggiungere livelli più alti di sviluppo sociale e civile: ma non esiste critico serio della società occidentale (e per questo abbiamo voluto ricordare Horkheimer che fra di essi è uno dei più severi) che non ritenga n1olto poco idoneo alla « rivoluzione» l'attuale status di questa parte del mondo. Eppure, proprio in questo contesto si sono andate sviluppando in questi ultimi anni una serie di teorie che indicano nella rivoluzione la sola via di uscita per una società che altrimenti sarebbe bloccata. Il fenomeno è certamente interessante proprio per la sua atipicità: · di esso, come è noto, sono state tentate molte spiegazioni, la più convincente delle quali ci è sembrata quella proposta recentemente da Vittorio Mathieu, che ha dedicato all'argomento un grosso volume (La speranza nella rivoluzione, Milano, 1972), che pur non 10

La rivoluzione improbabifo essendo di facile lettura (soprattutto per i non iniziati agli studi filosofici), compensa ampiamente, per i risultati che raggiunge, la fatica compiuta per portarla a termine. Il titolo stesso del libro, comunque, ove si riesca a decifrarlo, consente di darsi ragione del risultato al quale conduce l'analisi di Mathieu. Non sappiamo se nel formularlo egli lo abbia chiaramente pensato: ma ci sembra che qui il termine « speranza » non debba essere inteso soltanto nella comune accezione del termine, bensì nel senso con cui lo usava Hegel in un celebre passo della Feno1nenologia dello Spirito: « La speranza di potersi unificare con l'intrasmutabile deve restare speranza, deve cioè restare senza compimento e senza presenzialità ». La proposizione hegeliana dchiede un chiarimento: nella sezione della Feno111enologia dedicata alla « coscienza infelice », da cui essa è tratta, « l'intrasmutabile » rappresenta uno dei due poli dello sdoppiamento della coscienza e precisamente quello dell'universalità; l'altro polo, quello della singolarità, dell'individualità, è 1nosso, a un certo momento del suo iter, dalla speranza, appunto, di ricongiungersi a quello e di raggiungere quindi la pienezza di sé: solo che tale « speranza », come abbiamo vis o nel passo citato, è condannata a restare tale; essa costituisce la molla di una serie di movimenti ognuno dei quali sembra essere quello risolutivo, ma che, alla prova storica, si risolverà in uno scacco. Così la coscienza erra alla ventura con l'occhio fisso a un « intrasmutabile » che sembra non sarà mai concesso raggiungere. La spiegazione è necessariamente som1naria, ma sufficiente, riteniamo, a dare il senso del discorso di Vittorio Mathieu, dove l'« intrasn1utabile » rappresenta la rivoluzione e il suo opposto il rivoluzionario che la persegue invano. Ma questo lo vedremo meglio più avanti seguendo tutto il discorso dell'autore. In esso infatti si dice che per il rivoluzionario la rivoluzione è considerata co1ne una sorta di « imperativo categorico » il quale, essendo trascendentale e non empirico, non arriva mai al suo perfetto compimento; nonostante questo, esso si presenta come un assoluto al quale in ogni caso si deve obbedire. Vista in tal modo la rivoluzione diventa la tappa finale, la mèta ultima del cammino umano, il momento in cui potrà finalmente essere raggiunta « la coincidenza della volontà nel bene, al di fuori di ogni costrizione della legge ». Per questo motivo, secondo Mathieu, dato il « carattere infinito della rivoluzione» non è possibile parlare di « rivoluzioni », al plurale; non è possibile identificare « con la rivoluzione un qualsiasi rivolgimento storico, anche se, per -certi aspetti, riuscito »: poiché infatti 11

Girolamo Cotroneo la rivoluzione « rigenera la realtà intera, non potrà esserci più di una r'ivoluzione ». Essa, dunque, « una volta riuscita, metterebbe tutte le cose a posto: quindi non ci sarebbe ràgione per farne un'altra»; per cui se « una rivoluzione non è definitiva, vuol dire che non è la vera », ma, « sarà, al più, una tappa, che non n1uta sostanzialmente nulla, ma indica la direzione ». Questa idea di una rivoluzione totale, di una rivoluzione definitivamente rigeneratrice del genere umano, è vecchia e nuova a un tempo. È nuova in quanto si differenzia radicalmente da quelle che sono state le linee lungo le quali si sono mosse le due grandi rivoluzioni dell'età moderna, quella francese e quella russa. Infatti in ognuno dei due casi i rivoluzionari lavoravano su idee precise, precedentemente elaborate dai filosofi: il modello della società da costruire lo avevano, almeno nelle linee essenziali, presente; gli obiettivi da perseguire, sicuri. Il rivoluzionario moderno, di cui prirna ha parlato Mathieu, si pone invece da una prospettiva, diciamo così, totalizzante: l'esperienza delle due rivoluzioni precedenti, conclusasi l'una con il bonapartismo e l'altra con lo stalinìsn10, se da una parte hanno indotto alcuni filosofi (di cui la posizione del Croce sopra indicata rappresenta il paradigma) a non credere molto nell'efficacia liberatoria delle rivoluzioni, dall'altra hanno spinto in direzione opposta verso posizioni assai più radicali. Le precedenti rivoluzioni, infatti, avrebbero fallito il loro scopo perché, come si è potuto vedere alla distanza, avevano soltanto sostituito delle strutture con delle altre: e queste avevano finito con il deteriorarsi anch'esse. Da qui la « nuovissima » idea di rivoluzione: se le precedenti hanno dato vita soltanto a differenti strutture, la nuova rivoluzione dovrà abolire qualsiasi struttura; se esse hanno sostituito una legislazione con un'altra, bisognerà abolire la legislazione; se un potere ha preso il posto di un altro, bisogna abolire il potere, e così via. Ponendosi in tal modo la questione, Mathieu ha ragione nell'avanzare un'efficace analogia fra questa particolarissima maniera di intendere la rivoluzione e l'attività artistica: come l'artista mentre esegue la propria opera neppure lui sa ancora come essa effettivan1ente sarà, ma lo vedrà soltanto a opera compiuta, allo stesso n1odo il moderno rivoluzionario non vuole progettare il prodotto in ariticipo perché sa « che non potrà produrlo lui ' ad arte ': sa che potrà solo lavorare perché si determini da sé». Così, come « l'opera bella non può essere progettata solo tecnicamente [ ...] perché nessuno sa ancora come sarà », la nuova societa che uscirà 12

, La rivoluzione improbabile dalla rivoluzione non può essere prefigurata: si sa soltanto che, come l'opera d'arte, sarà « bella »; nel caso non lo fosse, vuol dire che non è riuscita e si dovrà ricon1inciare daccapo. Il discorso, come si vede, è suggestivo e rende efficacemente quel molto di estetismo che caratterizza il rivoluzionarismo contemporaneo: ma, come si diceva prilna, l'idea di un rivolgimento generale che darà vita a un « nuovo mondo » impossibile da prefigurare è assai vecchia; e Mathieu lo ha dimostrato ancora una volta con estrema finezza. Gran parte del suo lavoro, infatti (che vuole essere un'analisi fredda, e spersonalizzata al massimo, della fenomenologia - in senso proprio hegeliano - della rivoluzione: l'autore vuole fare emergere il senso globale e unitario che sta al fondo di una serie di fatti che in sé considerati parrebbero senza senso; naturalmente questo senso è, alla maniera di Hegel, per noi; potrebbe quindi anche non coincidere con quello attribuitogli dalle personae protagoniste degli eventi tolti in considerazione), gran parte del lavoro del Mathieu, dicevamo, ricerca (ritrovandole) le non poche analogie fra il pensiero religioso e quello rivoluzionario di oggi. Come il cdstiano antico vedeva soltanto in Dio la propria salvezza e trascorreva la vita nell'attesa (e preparandosi ad esso) del « grande giorno » in cui tutto sarebbe stato finalmente risolto, così il rivoluzionario attende (e prepara) il momento della catarsi finale: soppressa la prospettiva trascendente, scrive Mathieu, buona per chi ama il mito, si accoglie il concetto della salvezza dell'uomo non più attraverso il sacrificio di Dio, ma attraverso il sacrificio dell'uomo stesso. L'esortazione evangelica alla rigenerazione dell'uomo, diventa per il rivoluzionario del tutto accettabile: basterà guarire dalla debolezza di attendere, per il raggiungimento di questo fine, l'al di là. Così, « la speranza nella rivoluzione non è il semplice surrogato della speranza nella vita eterna, è la medesima speranza, secolarizzata>>; ed essa, « come il Dio di Rilke [ ...] non può essere che un ' Dio futuro ', una bellezza ' non ancora av- . ' venuta mai ». Tutto il discorso di Mathieu rafforza il convincimento sulla precarietà che il concetto di rivoluzione, quale viene oggi formulato, presenta: non per nulla Raymond Aron ha definito, corp.e Luigi XVIII Ja sua camera dei depu~ati, « introuvable » la rivoluzione contemporanea. Posta infatti nel modo in cui Mathieu ne ha descritto la fenomenologia, essa non potrà mai realizzarsi: potranno for~e aversi delle rivoluzioni ché muteranno qualcosa, ma la rivoluzione, quella definitiva,. non c1 sarà mai (e questo dovrebbe 13 '

Girolamo Cotroneo allora indicare come inutile la rivoluzione parziale, in quanto questa otterrà soltanto degli obiettivi « riformistici » che possono ottenersi anche per altra via). Resta allora da chiedersi perché mai essa incontra oggi, spedalmente fra i giovani, tanto successo. Il fatto che affondi le sue radici in un sostrato mistico-irrazionale non basta a spiegarlo: perché anche se è vero che, contrariamente a quanto si crede, per l'uomo l'irrazionale è sempre più facilmente accettato e accettabile che non il razionale (che richiede fatica, sforzo mentale), anche se questo è vero, dicevamo, non ci pare sufficiente a spiegare il fenomeno. Mathieu, da parte sua, lo spiega con lo stesso argomento con il quale, poco prima di lui, aveva cercato di spiegarlo, nel romanzo Il contesto, lo scrittore Leonardo Sciascia: quello pascaliano della « scommessa». « La rivoluzione - scrive infatti Mathieu - [ ...] come la religione ha il carattere di una scom1nessa, di un pascaliano pari [ ...] Sco1nmettere sull'infinito è dare il niente per qualche cosa: questo qualcosa non so se l'avrò, è vero, ma, qualunque sìa la probabilità di averlo, non avrò sacrificato nulla ». L'argomento è chiaramente ipocrita: e tale lo riteneva infatti il Voltaire. Con esso si possono tranquillamente mascherare delle posizioni di comodo, come ha brutalmente prospettato Leonardo Sciascia, quando fa dire a un personaggio del suo ultimo romanzo, lo scrittore Nocio, queste parole: « Ora questa possibilità di scommettere è passata dalla metafisica alla storia. L'aldilà è la rivoluzione. Rischierei di perdere tutto se scomn1ettessi per negarla. Ma se punto per affermarla: non perdo niente se non ci sarà, vinco tutto se ci sarà». Naturalmente il punto di vista di Mathieu non è questo: per lui il rivoluzionario crede veramente nella rivoluzione intesa come catarsi finale. Completamente privo di senso storico, il rivoluzionario ideale finisce con l'assomigliare senza saperlo agli « eroi» vichiani che fingunt simul creduntque. La mancanza di realismo politico sta quindi alla base del sogno rivoluzionario: Mathieu, anche se non lo dice chiaramente, lo ado1nbra lungo tutto il corso della sua indagine. La quale si conclude osservando che « la fortuna dell'idea rivoluzionaria nel mondo d'oggi non va, probabilmente, interpretata come il manifestarsi di qualcosa di nuovo, ma piuttosto come un venir meno di certe controspinte, che lascia libera di espandersi una forza che c'era sempre stata, anche se in forme diverse ». Ma qual è la controspinta che è venuta a mancare? Mathieu, che colloca nell'età del romanticismo il momento in cui questo fenomeno si sarebbe 14

La rivoluzione improbabile prodotto, parla dell'assenza « dell'impulso alla forma », cioè del « senso del limite », della felicità « sempre precaria e imperfetta di realizzarsi nel limite». Venendo a mancare questo impulso, « la rivoluzione, che è soprattutto rivoluzione contro le forme, ha trovato allora il suo terreno adatto ». Ma, ancora una volta, qual è la forma venuta a mancare? quale il « senso del limite » di cui il pensiero rivoluzionario è privo? Piaccia o non, la controspinta che finora ha impedito il dilagare dell'astratto ideale rivoluzionario è stato il senso della storia: esso implica l'accettazione del fatto che ogni «finito» (e la società· umana· è un « finito » e non potrebbe essere altro) deve assumere provvisoriamente una forma, una struttura entro cui realizzare, di volta in volta, le proprie potenzialità, salvo modificarla quando essa diventa un ostacolo a questa realizzazione. Ma capire, e soprattutto accettare questo, non è facile: è molto più semplice pensare all'incondizionato, all'assoluto. Tra l'altro è anche comodo perché in tal modo, volendo cambiare tutto, ci si risparmia la fatica di cambiare intanto quello che si può. GIROLAMO COTRONEO 15

I meridionali nelle scuole del Nord di Roberto Berardi L'inserimento dei ragazzi del Sud nelle scuole del Nord è problema non secondario tra quelli posti, dal '50 in poi, dal grande fenomeno delle migrazioni interne. Di solito inosservato dal gran pubblico e dalla grande stampa, non per questo è meno serio e grave per gli educatori chiamati ad affrontarlo, per i ragazzi che spesso lo vivono come un dramma, e per le loro famiglie. Parliamo dei ragazzi i cui genitori sono giunti al Nord da uno o due anni, sospinti dalla disoccupazione o dalla sottoccupazione cronica, alla ricerca di un lavoro sicuro. Gli altri, quelli giunti da più anni, se hanno superato il duro collaudo iniziale, sono ormai inseriti. Se invece hanno ancora « problemi » - più concretamente, se faticano a procedere nel curriculum scolastico, nel quale tuttavia hanno già percorso uno o più anni dopo il trasferimento al Nord - questi problemi non hanno la drammaticità, psicologica oltre che scolastica, di quelli del primo anno e sono comunque assimilabili ai problemi di difficoltà non diversa - anche se diversi per natura - che deve affrontare una certa percentuale di autoctoni. Vi sono poi i « yinti », coloro che non sono riusciti a riaversi dall'« urto » iniziale; se avevano già tredici, quattordici anni al momento del primo insuccesso, questo ha spinto la famiglia ad avviarli precocemente al lavoro. Di questi, come sempre dei vinti, la « storia » non parla. O parla della loro sconfitta solo come di « evasione dall'obbligo scolastico » o di « abbandono », assimilando questi alle evasioni e agli abbandoni dovuti ad altre cause. Vi sono poi i figli di un'altra categoria di « immigrati »: i figli dei laureati e dei diplomati o comunque specializzati in una data attività, che hanno ottenuto un posto nelle aziende del Nord grazie alla loro preparazione specifica; e degl'impiegati dello Stato, militari e civili, e degli enti parastatali. In grado diverso, queste sono famiglie che già posseggono un certo livello di istruzione e una consapevolezza del fatto scolastico; almeno un genitore, e sempre più spesso entrambi, sono in grado di seguire e aiutare i figli alle prese con le difficoltà dovute al cambiamento di ambiente, d'in16

I meridionali nelle scuole del Nord segnanti, di metodi, di libri, di compagni. In termini semplici, i ragazzi di famiglie culturalizzate si inseriscono meglio e con minore difficoltà. Questi casi non rappresentano un problema « civico » perché i singoli interessati hanno i mezzi - o li hanno i loro genitori - per superare le traversìe dello sradicamento. Il problema civico - civico nel senso che solo la comunità può aiutare il singolo a risolvere il suo problema particolare - nasce con i figli dell'immigrato «generico» che viene al Nord perché il compaesano gli ha scritto che al Nord c'è lavoro, o perché ve l'ha indotto l'incettatore di manodopera che agisce al Sud per incarico di gente del No.rd, o semplicemente perché sospinto dalla speranza di liberarsi dalla disoccupazione e sottoccupazione come già hanno fatto suoi parenti e conoscenti, il cui esempio costituisce forse lo stimolo più efficace al grande salto nel buio. Appunto, l'immigrato che giunge al Nord con l'ultima « ondata» è di solito un manovale generico, che ha le braccia e la volontà di lavorare come unico capitale. La moglie, non appena ha raggiunto il marito nella nuova residenza, se non è sfiancata dalle troppe maternità, se non ha troppi bambini piccoli cui badare, se non aspetta un figlio, se non è personalmente inadatta, cerca anch'essa, subito, un lavoro: in fabbrica, se possibile, oppure nelle attività terziarie meno ambìte dai settentrionali e dai settentrionalizzati (pulizie di stabili, lavori domestici a ore, ecc.). I figli restano affidati a qualche vecchia parente, se c'è, o a qualche vecchia vicina di casa, non di rado a pagamento (la mancanza quasi totale di asili-nido e la scarsità di scuole materne, è una delle carenze più gravi della società italiana d'oggi). I più grandicelli sono affidati alla strada; e quando la scuola è aperta, otto mesi e mezzo all'anno, sono mandati alla scuola. Ma non sempre. L'evasione scolastica è forte tra i figli degli immigrati, specialmente tra coloro che dovrebbero frequentare la scuola media. Quando la famiglia è numerosa e la madre è fuori per lavoro, non di rado è il fratello (o la sorella) più grande, ma non ancora in età di lavoro, che sta in casa a badare all'ultimo nato e a preparare il pranzo ai fratellini in età scolare. Un'altra aliquota di ragazzi tra i dieci e i quindici anni non frequenta perché avviata precocemente al lavoro (come apprendisti, fattorini, garzoni, bambinaie ecc.). Il problema del lavoro minorile fuori legge affiora di tanto in tanto sui giornali del Nord, ma di solito con scarsa convinzione. Si è coscienti che l'impedire il lavoro dei minori di quindici anni senza disporre di efficaci forme 17

Roberto Berardi assistenziali sostitutive significa in molti casi infierire contro nuclei familiari in precarie condizioni economiche, e sovente nel momento critico del primo inserimento: il lavoro del capofamiglia non basta a sfamare tutte le bocche e a sostenere le ingenti spese della sistemazione in un'area urbana intensamente industrializzata, ove il costo della vita è sensibilmente più alto che nel Sud agricolo e pastorale. L'ingresso dei ragazzi meridionali nelle scuole del Nord produce inevitabilmente in loro un séguito di forti emozioni di cui forse non si rendono conto neppure i genitori, a loro volta distratti e travagliati dai problemi posti dall'inserimento nel nuovo mondo del lavoro o anche soltanto nel « vicinato », oltre che dalle stre.ttezze economiche ovviamente più acute nei primi tempi. Si dice di solito che il cambiamento degli usi e delle abitudini viene facilmente « assorbito » dal ragazzo grazie all'adattabilità propria dell'infanzia e dell'adolescenza. In realtà le difficoltà da superare non sono né poche né lievi, anche se ci limitiamo a considerare il solo piano scolastico. In primo luogo c'è la novità dell'accento. Se il maestro o professore è settentrionale e se è marcato dalla sua regione di provenienza, c'è la possibilità che nei primi tempi il ragazzo non riesca sempre a seguirne bene il discorso, data la forte differenza di pronuncia e di cadenza che ancora distingue gl'italiani di regioni lontane tra loro. Per sua fortuna la scarsità di docenti, dovuta alla rapida espansione scolastica, ha provocato 1:1-n' emigrazione verso il Nord anche di maestri e professori, sicché in non poche scuole della valle padana una buona percentuale di insegnanti è di origine meridionale, e in parte anzi è di recente immigrazione; in certe scuole medie nelle periferie industriali si arriva all'ottanta per cento. L'ascoltare nell'insegnante un accento famigliare può avere un effetto psicologico positivo. Un discorso in certo modo analogo può farsi per l'inserimento tra i compagni. Tra ragazzi ci si intende spontaneamente; ma l'inserimento è tanto più facile quanto più la popolazione scolastica è mista di autoctoni e di immigrati antichi e recenti, come avviene ormai in moltissime scuole del Nord. Dove l'inserimento risulta difficile è sul piano scolastico in senso stretto. Si possono distinguere qui due livelli, quello della scuola dell'obbligo ele1nentare e medio, e quello delle scuole secondarie di secondo grado. Nelle scuole dell'obbligo si possono considerare, per comodità 18

I meridionali nelle scuole del Nord espositiva, due aspetti, che però sono due facce della stessa medaglia: l'aspetto culturale in senso lato (informazioni, e capacità di valutazione e di ragionamento) e l'aspetto tecnico (possesso del lessico, ortografia, grammatica, calcolo, capacità di lettura esatta e possibilmente espressiva). L'immigrato di 6-14 anni porta con sé un bagaglio d'inforrnazioni, scolastiche e non scolastiche, e di criteri di valutazione che sono in parte legati al suo ambiente di provenienza (un ambiente agrario a struttura non progredita, di solito) e che là potevano avere una loro spiegazione, se non una giustificazione. In una zona industrializzata le tavole dei valori sono diverse, e con le tavole di valori muta artche il sostrato informativo di cui ciascuno è fornito e di cui ciascuno ha bisogno. La « cultura scolastica» della scuola dell'obbligo è legata all'ambiente più di quanto non si creda. Ecco perciò che il ragazzo meridionale appena giunto al Nord può fare, in una certa classe elementare o anche media, la figura di «ignorante» perché ha ricevuto dall'ambiente e dalla scuola di provenienza alcuni « contenuti » di istruzione che in parte non collimano con quelli di cui dispongono i ragazzi cresciuti al Nord. Ma è soprattutto sul piano tecnico-espressivo che il ragazzo meridionale può trovarsi svantaggiato rispetto alla media dei nuovi compagni. Recentemente, sulla scia della giusta rivalutazione del1' espressività del fanciullo e del preadolescente, si sono uditi discorsi irridenti l'esatto possesso dell'espressione scritta, discorsi che si devono considerare senz'altro pericolosi. D'accordo, bisogna condannare i] culto dell'ortografia, della grammatica, della sintassi, dell'espressione esatta e propria venerate in sé e per sé; i mezzi non devono èssere scambiati per fini. Ma, appunto perché sono mezzi, occorre possederli e padroneggiarli; e chi termini la scuola dell'obbligo senza aver raggiunto un buono e corretto possesso dell'espressione scritta e parlata, corre il rischio di essere relegato a funzioni molto subalterne, perché la società d'oggi ha bisogno e si muove nel presupposto che ciascuno disponga di quei mezzi. La scuola dell'obbligo, tra gli altri suoi fini, vuole appunto dare a tutti i ragazzi gli strumenti culturali che una volta erano appannaggio di cerchie ristrette di privilegiati. ., Ora dunque i ragazzi provenienti dal Sud rivelano, di solito, carenze nel vocabolario, nell'ortografia, nella grammatica. Non solo non sanno esprimersi correttamente, ma .talvolta non sono in grado di seguire compiutamente il discorso dell'insegnante o del libro per insufficiente conoscenza del lessico e della tematica. La crisi s1 19

Roberto Berardi accentua quando l'immigrato è in una classe con maggioranza di autoctoni e con insegnanti autoctoni. La sua situazione anche psicologica migliora, invece, se la maggioranza dei compagni di classe è immigrata da poco con lui, e se il docente è pure lui immigrato: quest'ultimo può rendersi conto meglio delle situazioni di partenza e quindi adeguare meglio il proprio insegnamento al livello attuale e ai bisogni scolastici degli alunni. Ma quest'ipotesi non sempre si realizza e allora dinanzi all'immigrato si profila la possibilità dell'insuccesso scolastico. Se circostanze molto favorevoli non lo aiutano, e poco a poco egli perde terreno rispetto ai compagni, si demoralizza e, magari, più tardi abbandona. Il doposcuola non sempre è sufficiente a porre rimedio al suo svantaggio socioculturale passato e presente. L'insegnamento individualizzato poi, con classi numerose, è poco più che un'intenzione. Qualche risultato positivo si ottiene talvolta, nella scuola media, con le classi di aggiornamento ad effettivi ridotti; queste classi presentano però inconvenienti ben noti (ritardi nel loro avvìo; mancanza di stirnoli vicendevoli tra i ragazzi che sono tutti di livello modesto; effetto deprimente là dove si diffonde la convinzione che si tratti di « classi degli asini » ), per cui in molte scuole si preferisce non organizzarle affatto. Torniamo dunque all'ipotesi meno favorevole, del ragazzo che entrando in una scuola del Nord scopre ]a propria impreparazione culturale e tecnica, e non riesce a tenere il passo, e tanto meno a ricuperare lo svantaggio iniziale. Qual è_ l'atteggiamento della scuola? Una posizione radicale è quella assunta da coloro che dicono: non il ragazzo, ma la scuola e la società sono colpevoli; inoltre la scuola dell'obbligo non deve selezionare; perciò il ragazzo va promosso indipendentemente da ciò che sa o non sa. I gradi di questa posizione sono diversi: si va dalla stretta sufficienza elargita al singolo nello scrutinio di fine d'anno (ma dopo che nel corso dell'anno le valutazioni hanno rispecchiato normalmente il livello reale di non-sufficienza del ragazzo), alla promozione generalizzata preannunciata a tutta la classe sin dall'inizio dell'anno scolastico (ma conservando una certa differenziazione nella valutazione dei singoli allievi, in modo da rispecchiare il diverso grado di maturazione raggiunto da ciascuno), al « voto politico » o « voto unico dequalificato » (il sette o l'otto a tutti gli alunni in tutte le materie, assegnato come « non-voto », per protestare contro la ·« società selettiva » e contro la classificazione voluta dalla legge). 20

, I meridionali nelle scuole del Nord Quale che sia il valore politico che certi arnbienti della contestazione vogliono attribuire a questo atteggiamento, è chiaro che sul piano pratico esso si limita a spostare nel tempo le conseguenze negative dell'impreparazione del ragazzo, senza eliminarle. Non è infatti elargendo la promozione o il diploma indipendentemente dalla preparazione e dalle capacità acquisite che si pone il ragazzo in condizione d'inserirsi vantaggiosamente nella società e nel lavoro al termine della scuola media, oppure di continuare utilmente gli studi (ne avemmo un esempio, un quarto di secolo fa, in ciò che accadde ai portatori delle promozioni e dei diplomi elargiti, per tutt'altri motivi, negli anni cruciali della guerra, 1943-45, specie nelle zone più devastate dai bombardamenti e dalle azioni belliche, anche a chi di preparazione ne aveva poca o punta). Il dire all'alunno che lui è una vittima della società e che perciò il professore lo promuove - magari con tutti sette od otto - malgrado il suo scarso profitto, può essere gratificante per entrambi, alunno e professore, ma nelle conseguenze pratiche a medio e a lungo termine è azione non molto dissimile da quella, completamente opposta nei presupposti ideologici, ·del docente di vecchio tipo il quale, accertate le carenze e giudicatele irreversibili almeno per l'anno in corso, abbandona il ragazzo al suo destino, ai margini della classe, e rivolge le sue cure agli « eletti », a coloro che lo « seguono ». Nell'uno e nell'altro caso il ragazzo non viene condotto a possedere né i metodi del lavoro intellettuale, né i mezzi tecnici dell'espressione, né i contenuti informativi e culturali, le sole cose che realmente contano, con o senza il « pezzo di carta ». Neppure sul piano psicologico questa soluzione appare valida. Non soltanto la frustrazione che deriva dall'insuccesso scolastico non viene eliminata bensì solo rinviata; ma si pongono anche le pren1esse per ingigantirla, dati gli effetti moltiplicatori che provoca l'accumulo delle carenze nei metodi, nei mezzi tecnici e nei contenuti. La soluzione autenticamente umana, e democratica, consiste nel recupero: il quale si ottiene in primo luogo dando all'alunno « più scuola ». _Si dà all'alunno più scuola prolungando innanzi tutto il calendario delle lezioni con una drastica riduzione ·delle vacanze, specie estive; poi, assicurandogli l'insegnante o gli insegnanti sin dal primo giorno di scuola, senza esiziali cambiamenti ad anno già iniziato; accogliendolo in classi poco numerose, ove possa essere seguìto da vicino dall'insegnante; garantendogli un doposcuola che sia vera 21

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