Nord e Sud - anno XVII - n. 132 - dicembre 1970

I I ' Rivista mensile diretta da Francesco Compagna - ,, Girolamo Cotroneo, La sinistra, la destra e il terrorismo culturale - Ennio Ceccarini, A sud del Mar Nero - Italico Santoro, Gli investimenti americani in Europa .- Piero Maria Lugli, Esperienza dell'abitare e politica della casa - Pietro Armani, La finanza disastrata , e scritti di Ernesto Bassanelli, Nino Ciaravino, Sergio Gagliardo, Ugo Marani, Michele Novielli, , ·Guido Pepe, Rocco·· Polestra, Giacinto Spinosa. ANNO XVII - NUOVA SERIE :- DICEMBRE 1970 - N. 132 (193) - . EDIZIONI SCIENTIFICHE ITALIANE - NAPOLI -

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NORD E SUD Rivista mensile diretta da Francesco Compagna ANNO XVII - DICEMBRE 1970 - N. 132 (193) DIREZIONE E REDAZIONE: Via Carducci, 29 - 80121 Napoli - Telef. 393.347 Amministrazione, Distribuzione e Pubblicità: EDIZIONI SCIENTIFICHE ITALIANE - S.p.A. Via Carducci, 29 - 80121 Napoli - Telef. 393.346 Una copia L. 600 - .Estero L. 900 -- Abbonamenti: .Sostenitore L. 20.000 - Italia annuale L. 5.000, semestrale L. 2.700 - Estero _annuale L. 6.000, semestrale L. 3.300 - Fascicolo arretrato L. 1.200- Annata arretrata L. 10.000- Effettuare i versamenti sul C.C.P. 6.19585 Edizioni Scientifiche Italiane - Via Carducci 29, Napoli Bibl~otecaginobianco

SOMMARIO Editoriale [3] Girolamo Cotroneo La sinistra, la destra e il terrorismo citlturale [6] Ennio Ceccarini A sud del Mar Nero [ 14] Italico Santoro Gli investimenti americani in Eitropa [22] Ugo Marani Rocco Palestra Guido Pepe Piero Maria Lugli Ernesto Bassanelli Michele Novielli Giornale a più voci Politica marittima cercasi [32] La buona guerra [39] Un tributo che ha già un futuro [ 44 J Argomenti Esperienza dell'abitare e politica della casa [53]. L'agricoltura e le Regioni [ 65] La Diaspora del Sud [81] Convegni e Congressi Giacinta Spinosa La disperazione progettuale [91] · Sergio Gagliardo e Nino Ciaravir10 Trasporti: nuovi squilibri per il Sud [99] Saggi Pietro Armani La finanza disastrata [ 104] Bibiiotecaginobia_nco

• , Editoriale E così, più di no-vant'anni dopo la presentazione al Parlamento italiano della prima proposta di legge sullo scioglimento del vincolo matrimoniale, il divorzio entra nella legislazione del nostro paese. La votazione del 29 novembre 1970 ha dun.que un'importanza storica: è lecito, una volta tanto, usare questa espressione senza indulgere alla retorica. Due fatti mette conto rilevare subito. Il primo, è la civiltà e la serenità del dibattito parlamentare che si è concluso con l'approvazione della legge Fortuna-Baslini; e di questo si deve prendere atto con sincero compiacimento. Il secondo fatto da ricordare è la assoluta tranquillità con la quale l'opinione pubblica italiana ha accolto il divorzio: segno che esso era entrato nella coscienza del paese prima ancora che nella legislazione, e che co1nunque nessuno ravvisava nella sua introduzione quella mortale n1inaccia per la famiglia e per la morale che i campioni del fronte anti-divorzista hanno fatto balenare dagli schermi televisivi. Anche per questo il ricorso al referendum abrogativo, che i Comitati civici vorrebbero, suscita grosse perplessità, n.on solamente nella Democrazia Cristiana, ma nella stessa Chiesa. Con il referenditm, non si correrebbe soltanto il rischio di compromettere i già difficili equilibri politici alla vigilia d'elle elezioni (il referendum avrebbe luogo nel 1972, le elezioni nel 1973); 110nsi accenderebbe soltanto- la miccia di una anacronistica e pericolosa guerra di religion.e; ma coloro che vogliono il referenditm non possono essere neppure sicuri di vincerlo. Perché, di qui al 1972, anche gli italia11ie le italiane più semplici e impressionabili avranno avuto modo di constatare che l'introduzione del divorzio non avrà portato conseguenze apocalittiche: n.on avrà dato, per esempio, al marito la facoltà d'i « ripudiare» la moglie .vecchia per sostituirla con un'altra più giovane e piacente ( tesi sostenuta, fra gli altri, se ben ricordiamo, dal senatore Fiorentino). Perché, già alla vigilia della discussione parlamentare sulla legge Fortuna-Baslini, un sondaggio d'opinione ha rivelato che se, in linea di principio, la maggioranza degli italiani era contraria al divorzio, questa maggioranza diventava tuttavia favorevole no11 appena dall'astratto si passava al concreto, e cioè si passava a questo o a quel caso per il· quale si può chiedere lo scioglimento del vincolo matrimoniale. E soprattutto perché non tutti i cattolici, come ha giustamente osservato Raniero La Valle su « La Stampa », riterzgono che un valore 3 Bibliotecaginobianco

Editoriale · religioso - quale, appunto, l'indissolubilità del mat~imonio - debba essere, in quanluque circostanza, coperto dalle: garanzie giuridiche dei poteri statuali. « In effetti », Ila scritto La Valle, « la varietà di posizioni legittimamente presenti tra i cattolici di fronte al problema del divorzio non sj è manifestata in forme conclamate, duran.te tutta la lunga battaglia parlamentare. La preoccupazio·n.e di non indebolire un fronte già fragile, ha fatto tacere molte voci dissenzienti. Ma questa situazione privilegiata non potrebbe riprodursi nella prospettiva di una consultazione popolare, la cui moralità consiste appunto nella assunzione, da parte di ciascuno, di una intera responsabilità. Io non so che atteggiamento prenderà ufficialmente la Chiesa italiana di fronte all'iniziativa per il referen,dum. Comunque l'esperienza insegna cfle il modo migliore di servire la Chiesa non è sempre quello di eseguirne i suggerimenti, specie sul terreno politico ». Auguriamoci dunque, nell'interesse di tutti, che questa battaglia non sia combattuta; se poi dovrà esserlo, ciascitno farà la sua parte. Qui vogliamo solo sottolineare un punto che non sembra avere richiamato l'attenzione che merita; e cioè l'importanza che ha per il Mezzogiorno la legge che introduce il divorzio. E non solo perché nel Mezzogiorno sono più frequenti alcuni casi per i quali è prevista la possibilità di scioglimento del vincolo matrimoniale ( ricordiamo, già all'inizio del secolo, le tantissime « vedove bian.che », ossia le mogli di emigrati che, anche qitando i mariti divorziavano e si risposavano nel paese di acquisto, erano costrette, per la mancanza appunto del divo-rzio, alla solitudine di una intera vita). Ma perché il principio stesso del divorzio mette in crisi la concezione del matrimonio autoritaria e patriarcale, tipica di quella società contadina che pure oggi è in via di dissoluzione, ma i cui «valori» sopravvivono ancora tenacemente. È di questi giorni il dibattito sulle colonne di un grande giornale del Nord, provocato dalla lettera di una lettrice che lamentava di essere brutalmente picchiata dal marito. Ebbene, altre lettrici - queste ultime di origine meridionale - hanno proclamato la legittimità delle busse maritali; u11a di loro è giunta addirittura ad affermare d'essere grata al manesco sposo per non averla (ancora) sfregiata. Perché questo atteggiamento? Perché quelle lettrici hanno assimilato dalla loro cultura il concetto che la moglie è un oggetto di proprietà del marito; e dunque costui ha it diritto di picchiarla, di sfregiarla, magari di ucciderla « per onore », ricavandone, in quest'ultimo caso, le congratulazioni della « gente » e comprensiva indulgenza (almeno fino a che sopravviverà l'art. 587 del Codice penale) dalla legge. Ora - e la 4 Bibiiotecaginobianco

Editoriale cosa vale soprattutto per le giovani generazioni - sapere che esiste il divorzio vorrà dire anche capire che il matrimonio non pre1:1ede un coniuge-proprietario e un coniuge-proprietà: tutti sanno che, volendolo, un proprietario può disfarsi della sua proprietà, ma quando mai si è vista una proprietà che, all'occorrenza, si libera del proprietario? Di qui il superamento del costume « d'onore»,~ di qui la coscienza, nella donna del Sud, di doversi conquistare quell'autonomia, morale prim.a ancora che economica, che le consentirà di sposarsi per amore e non per desiderio di sistemazione; di qui insomnza il conseguimento di una più civile condizione umana, fondata sul reciproco rispetto e sul riconoscimento della dignità di ciascuno. Non sarà inutile ricordare .ancora una volta conie la strada che porta alla conquista della libertà interiore sia una strada scomoda e faticosa. Libertà significa in primo luogo responsabilità delle proprie scelte, giuste o sbagliate che queste siano. Certo è molto più facile, molto più « sicuro » delegare ad altri responsabilità del genere. Ma è chiaro che soltanto lo schiavo, in questo senso, può vivere sicz,tro: co1ne ha detto Fromm, non c'è libertà senza insicurezza. Ben venga, dunque, la « insicurezza » del divorzio. Ci scusiamo con i lettori per i ritardi e per i disguidi verificatisi nella distribuzione del numero di novembre della rivista. Purtroppo, l'impegno della Redazione per garantire ogni mese la puntuale uscita di « Nord e Sud» viene sempre più spesso reso vano dalle agitazioni e dagli scioperi dei ·dipendenti delle Poste. BibJi tecaginobianco 5 •

e La il sinistra, la • terrorismo destra culturale di Girolamo Cotroneo I termini « destra » e « sinistra » hanno assunto fin dagli inizi del secolo scorso un significato preciso, che con il passare del tempo è diventato addirittura inequivocabile: e cercare di dimostrare che questi due concetti sono ormai superati, che tale antitesi oggi non avrebbe più la sua ragion d'essere, è 11n chiaro tentativo di creare un nuovo elen1ento di confusione, di negare la dialettica storica che, in quanto tale, vive proprio di questo perenne conflitto, dove ognuno dei due termini assume un proprio carattere di positività e di necessità. . Tuttavia occorre mettere in chiaro che spesso, fra i due elementi di questa opposizione, la differenza - almeno per quel èhe riguarda la loro sistemazione teorica - è più di forma che di contenuto, nel senso che anche chi si dichiara apertamente reazionario o conserva .. tore, parte sempre, come il «progressista» o l'uomo « di sinistra », dal presupposto che l'umanità debba vivere riel migliore dei modi: solo che, a differenza del suo antagonista, il q11ale ritiene che questa condizione debba ancora essere realizzata, si dichiara convinto del fatto che l'optimum sia già stato raggiunto, e che qualunque mutamento non potrà che turbare (o avrà già turbato) l'equilibrio, peggiorando inevitabilmente la situazione. Fra queste due posizioni poi, ce ne potrebbe essere una terza, e cioè quella di chi crede che l'aurea ae(as la società umana non la raggiungerà rriai e che i vizi e le virtù, il bene e il male si ritrovino equamente divisi in ogni momento della storia, salvo restando il dovere, come scrisse una volta il vecchio Croce, « di combattere dolore e male nelle nuove forme in cui di continuo si presentano, portandovi l'animo di chi vorrebbe scacciarli dal mo11do e insie1ne la mente di chi sa che ciò è impossibile ». Ma questa posizione, pur nella sua nobiltà, non annulla, né intendeva annullare,· l'antitesi storica fra conservazione e progresso, concetti che appunto vengono tradotti in linguaggio politico nei due termini di Ctli fin dall'inizio si diceva. 6 Bibi"otecag inobi~nco

I La sinistra, la destra e il terrorismo culturale Tuttavia, poiché quello di « destra », come quello di « sinistra », sono concetti empirici, scl1emi convenzionali (anche se nascondono un conflitto reale) il problema non è quello di superare la « mediocre antitesi », come recentemente l'ha definita Sergio Quinzio, q_uanto invece quello, molto più importante in questo particolare momento della nostra storia e della nostra vita civile, di vedere se gli attuali contenuti di questi due concetti, e in particolare di quello di « sinistra », siano veramente rispondenti alle esigenze della nostra realtà sociale e politica. Ed è quindi a questo punto che nasce il problema decisivo: che cosa significa, oggi, essere « di sinistra », e, come usa dire, « progressisti »? In Italia questa collocazione ha ormai assunto un significato univoco: essere progressisti significa soltanto essere marxisti; e altre ·possibilità non sembra siano date. Chiedersi come questo sia potuto accadere significherebbe rifare la storia della cultura italiana di questi ultimi venticinque anni, e forse di tutto il secolo, tranne che non si voglia credere fideisticamente nella obiettiva e necessaria coincidenza dei due termini in questione: coincidenza che per un certo periodo della nostra storia è effettivamente esistita, ma di cui oggi è lecito per lo meno dubitare. Comunque sia, il dato di fatto obiettivo è quello di cui sopra dicevamo, e cioè che la tendenza culturale corrente è quella di credere ciecamente in questa coincidenza. E non solo: le più recenti vicende, gli attuali dibattiti all'interno della stessa cultura di ispirazione marxista, dimostrano chiaramente la radicalizzazione di questa tendenza; per cui non solo chi non è marxista non ha nessun diritto di chiamarsi in qualche modo « progressista », ma non lo ha più neppure chi, pur continuando a professarsi marxista, ritenga comunque necessario un ripensamento, un qualsiasi aggiornan1ento della dottrina. Che questa sia la situazione attuale, che vi sia un intra])sigente (per non dire fanatico) richiamo all'ortodossia, è un fatto che per vari segni appare evidentissimo in questi ultimi anni: e la scolastica del marxismo si è arricchita di nuovi e non sempre leggibili testi, creando quello che Raymond Aron ha argutamente definito le marxisme imaginaire. . A questo pt1nto, in questa situazione culturale, si innesta il nostro discorso. Fermo restando il punto che esiste una visione culturale e politica di carattere statico, cons_ervatore, e che ne esiste una di carattere dinamico, storicistico (le filosofie antistoricistiche sono sempre « di destra » ), emerge. subito il problema di fondo, e cioè se oggi, effettivamente sia la dottrina marxista l'unica a potersi fregiare della qualifica di « progressista ». Il marxismo, come si sa, è u11a 7 BibJiotecaginobianco

Girola,no Cotroneo forma di storicismo, la cui derivazione è lo storicismo idealistico di. Hegel: e, nonostante il « rovesciamento » operato da Marx, è certamente la forma di storicismo più vicina a quella hegeliana, della quale porta - cosa forse di cui non sono persuasi soltanto quei marxisti, quei molti marxisti, che non hanno mai letto Hegel - una vastissima impronta. E se « l'imperturbato silenzio della conosce11za soltanto pensante » costituiva il punto di arrivo dello Spirito Assoluto di Hegel, l'ineluttabile trasformazione del regno della « necessità » in quello della assoluta « libertà », dove tutti i contrasti sarebbero stati pacificati e tutte le contraddizioni dissolte, era pure il punto di arrivo del materialismo storico di Marx, anch'esso alla ricerca di quella stessa simmetria postulata da Hegel. Più che una divagazione culturale, questo parallelo, questa approssimativa riduzione, investe il problema di fondo che andiamo discutendo: in effetto ogni descrizion~ del mondo - e tale è quella di Marx - quanto più corretta e completa si presenta, tanto più, per effetto del suo del suo stesso manifestarsi, produce un mondo al quale essa non è più adeguata; le uniche tesi « inconf~tabili >>, eterne, sono infatti quelle formali, astratte e quindi non verificabili. Ma una filosofia che esplora il mondo con la forza dei suoi concetti, è vera solo in quanto il mondo ha cessato di essere ciò che era prima di quella filosofia: in caso contrario si deve ammettere che essa è falsa e sterile. Ora è indubbio che, anche per opera del marxismo, il mondo ha cessato di essere quello che era prima di Marx: per cui si rischia di giungere alla paradossale ipotesi che l'identificare il « divenire » con il marxismo, l'ostinato tentativo di spiegare il mondo, questo mondo di oggi, con categorie che ne spiegavano un altro ormai distrutto proprio da quelle stesse categorie diventate forze storiche, potrebbe costituire addirittura un elemento di regresso, coincidere con una visione statica della realtà. Questa conclusione, come si diceva, potrà forse apparire paradossale in un paese come .il nostro, dove esistono ancora vaste sacche di povertà, dove esistono situazioni, diremmo, premarxiste, cioè situazioni non ancora disgregate dalla forza di penetrazione di certe idee, di certe soluzioni: tuttavia il fatto che la struttura sociale del nostro paese sia profondamente mutata - a parte quei residui di cui prima dicevamo - rispetto a meno di mezzo secolo fa, dimostra che i conti non bisogna farli· soltanto con quelle situazioni che abbiamo appunto chiamate premarxiste (come si ostinano a fare larghi settori della nostra « sinistra ») bensì con le ,situazioni postmarxiste, dove cioè le istanze più vive del ·marxismo sono state lar8 Bibi totecag inobi~nco

I La sinistra, la destra e il terrorisn10 culturale gamente recepite, concorrendo quindi a una trasformazione del mondo che pertanto non si presenta più con certe caratteristiche, che non è più riducibile a certi schemi. E tutto questo senza dire dell'esperienza storica dei paesi comunisti europei, dalla quale risulta che non sarà certo il rozzo e burocratico « capitalismo di stato » a costituire una valida alternativa al sistema sociale dei paesi occidentali (le cui insidie peraltro ci sono ampiamente note). Naturalmente nei settori della « nuovissima » sinistra italiana si obietta che quei paesi non hanno affatto realizzato la « filosofia » marxiana, che di fronte a essi Marx esclamerebbe di nuovo il suo celebre moi, je ne suis pas marxiste!: ma queste sono soltanto parole, perché no11 vi sarà mai una società storica che realizzerà perfettamente quelle simmetrie che l'astratto pensiero produce. E vale forse la pena ricordare che un pensatore « reazionario » come Giambattista Vico aveva già da un pezzo notato che gli accadimenti storici vanno sempre in maniera diversa « dagli umani accorgimenti e consigli», anticipando l'idea di De Maistre secondo cui gli uomini raggiungono sempre fini di\rersi da quelli che si erano proposti. Per tutte queste ragioni ci pare sia legittimo dubitare della « obiettiva »e« perfetta » coincidenza fra marxismo e progressismo: coincidenza che peraltro è certamente esistita in un momento della 11ostra storia politica e culturale a partire dagli ultimi decenni del secolo scorso, ma che, dopo la caduta di talune condizioni essenziali, è diventata sicuramente « imperfetta». E se questa imperfetta equazione continua nonostante tutto ad avere ampio credito, ciò è dovuto da una parte alla legittima (da un punto di ,,ista pratico) azione di propaganda dei partiti di ispirazione marxista, e dall'altro a una incredibile trahison des clercs, che non fa certo onore alla cultura italiana. La quale, tranne che in alcuni settori, comprendenti anche taluni marxisti, dimostrando una incredibile mancanza di coraggio e di fantasia (malattia che somiglia molto alla « rinocerite » di Jonesco) ha preferitq adeguarsi alle soluzioni e alle ideo~ logie precostituite, fossero l'integralismo marxista o il più rozzo neo-capitalismo, combattendo così battaglie di retroguardia, invece di tentare un allargamento degli orizzonti culturali e politici. Per tutto questo, come dicevamo all'inizio, per noi il problema non è quello di superare l'antitesi fra destra e sinistra in una sorta di indefini~o e indefinibile- tertium quid, bensì quello di un chiarimento sui contenuti, sfugge]).do quindi, non già all'antitesi stessa, ma al terrorismo culturale che ha cristallizzato le posizioni, che ha fatto e pretende di continuare a fare coi~cidere certi termini, fa9 BibJiotecaginobianco

.. Girolanzo Cotroneo cendo sì che certe istanze di politica pratica jmmediata, quando non addirittura di « potere », bloccassero il pròcesso di sviluppo culturale (e politico). Certamente attraverso questa nostra posizione si potrà ben dire che abbiamo tentato soprattutto di « storicizzare » il problema e con questo di storicizzare il marxismo che è stato l'oggetto principale del nostro discorso. Sarà anche vero questo: solo che per noi « storicizzare » una ideologia, o meglio ancora u11a dottrina, non sottende un tentativo di svalutazione integrale, ma piuttosto l'apertura verso una maggiore e migliore comprensione di un problen1a: e da qui, poi, darsi ragione di certi rapporti e di certe incidenze. Si capisce che la propaganda e il conformismo detestino questo tipo di procedimento: ma a noi pare ancora l'unico possibile per creare nuovi contenuti, per « demistificare », come usa dire, non solo la « destra », ma anche la « sinistra », soprattutto quando pretende di_rappresentare un avvenire che in realtà somiglia solo a un passato. Da tutto questo discorso discende una conseguenza che ci pare di una certa importanza: la difficoltà cioè, nell'attuale momento della nostra storia, di collocare con esattezza - tranne ovviamente i soliti casi limite - una ideologia contemporanea, e più ancora un personaggio del nostro mondo culturale, entro i classici schemi di « destra » e di « sinistra ». E non tanto perché, co1ne prima si è detto, non sia chiaro il significato ·dei due termini, quanto invece per gli equivoci addensatisi intorno alla definizione di « sinistra », identificata irrimediabilmente con 11na precisa parte politica e più ancora partitica. Per questo ci è parso di estremo interesse, anche se, come vedremo, è stato impostato in maniera unilaterale, il dibattito svoltosi st1lle colonne de « L'Espresso » fra la fine di novembre e i primi di dicembre, inaugurato da un ga;rbato articolo di Lia Quilici dal titolo La parabola del buon reazionario e da un lucido scritto · di Giuseppe Galasso sulla cultura « di destra» in Italia dall'inizio del secolo a oggi; ai quali sono poi seguiti interventi di Umberto Eco, di J. Rodolfo Wilcock, di Mauro Calamandrei e, per una precisazione di carattere personale, di Sergio Quinzio; e c'è da supporre che la discussione avrà ancora un seguito. Come si diceva, il discorso ci è sembrato unilaterale: nel senso che,· mentre è apparso chiaro soprattutto dagli articoli della Quilici, di Eco e di Wilcock (Galasso si era assunto soltanto il compito di narrarci a grandi linee la vicenda della cultura di ispirazione nazionalistica e 10 Bibl"otecaginobia_nco

I La sinistra, la destra e il terrorismo culturale fascista), mentre è apparso chiaro, dicevamo, che cosa si debba intendere per cultura « reazionaria », non altretta11to chiarq è apparso che cosa invece si debba intendere per cultura « progressista»: tranne che non lo si voglia mutuare per contrasto, il che è una operazione mentale non sempre facile e soggetta i11evitabilmente a equivoci e ad ambiguità. Ma, a parte questo, su cui ritorneremo, quella che ci è apparsa come la conseguenza più importante di tutto il discorso è il fatto che _:._per merito soprattutto di Eco e di Wilcocl< - il termine « reazionario » attribuito ad alcune grandi figure della nostra cultura (per gli epigoni e i mistificatori il discorso è certamente diverso) non ha assunto quel significato spregiativo che 11ellinguaggio corrente, ed anche nella terminologia culturale di certe sette, essa aveva finito indiscriminatamente con l'assumere. E ciò è, a nostro avviso, molto importante, perché significa il recupero culturale di una larga fascia della tradizione umanistica europea, che le rece11tissime rivoluzioni culturali pretendono, come oggi usa dire, di « emarginare », pretendono cioè di collocare in quella autorevolissima rubrica di « libri da non leggere » che qualche tempo fa appariva in uno dei più diffusi periodici della « nuovissima » sinistra italiana. Naturalmente ci sarebbe moltissimo da discutere non solo sul fatto di che cosa Eco intenda per « reazio11ari », ma soprattutto sulle esemplificazioni da lui portate: il che ci porta ancora una volta a pensare (e il « caso » Borges ci pare significativo) che anche per lui i « reazionari » siano soprattutto coloro che 110n si identificano tout court con il marxismo. Ed è veram.ente curioso notare come anche Wilcock abbia tentato di « recuperare » Borges rendendo nota una poesia sulla rivoluzione russa che lo stesso Borges aveva scritta prima del 1926. Ma se il criterio di misura è quello della maggiore o minore simpatia nei confronti della .filosofia marxiana, allora Borges è certamente un reazio11ario, in quanto un « meravigliato omaggio » a un evento storico di grandissima por-- tata, quale la rivoluzione russa, che non poteva non accendere im .. mense speranze, non basta certamente a cancellare la sottile critiéa che per esempio in Orbis Tertius Borges ha svolto nei confronti del materialismo dialettico (una« simmetria con apparenza di ordine», lo ha defi~ito, che basta « per mandare in estasi la gente » ). Ma davvero può essere sufficient~ questo per d~finire « reazionario » uno scrittore? Non si-tratta qui di fare dell'anticomunismo a priori, «viscerale», come ancora usa dire, quanto. invece di rilevare come 11 BibJiotecaginobianco

.. Girolamo Cotroneo in fondo, anche presso scrittori aperti e spregiudicati come Um-· berta Eco, certe riserve sottintendono, e lasciano sottintendere volentieri, che il criterio per giudicare delle collocazioni culturali (e politiche) sia a11cora - dopo la grande rivoluzione scientifica del nostro secolo, nell'era della tecnologia e dei computers - quello che poteva essere valido alcuni decenni or sono. Ma Eco è un pensatore sufficientemente ardito e uno scrittore troppo sottile per lasciarsi chiudere in uno schema rigido. Così la sua distinzione, fra reazionari e non, si vuole fondare su un ragionamento alquanto perspicuo: in sostanza egli sostiene che non sono reazionari quei pensatori (come Marx e Engels, per esempio) i quali credono cl1e l'ultima parola spetti sempre all'azione umana; mentre invece sono reazionari coloro che credono che la « salvezza» stia « nel vigore in cui il labirinto della storia è impietosamente visto in tutte le sue trame », coloro « la cui sola religione è la comprensione del labirinto della storia, e la sua traduzione in immagine estetica », quali appunto Borges o De Maistre, Balzac o Hegel. (A proposito: come mai non vi ha messo Croce? per deliberata volontà di non considerarlo, per dimenticanza, o per via della dottrina· della « storia come azione »?). La teoria è suggestiva, come tutte le idee di Eco, ma presenta un limite, diremmo, teoretico: quasi tutti i grandi pensatori che hanno cercato di elaborare una visione del mondo, hanno sempre oscillato fra la tendenza a vedere nell'azione umana, nella scelta responsabile dell'ùomo, il principio del divenire, e la tendenza opposta a vedere invece lo sviluppo storico quasi come una totalità che si impone da sé. Neppure Marx, da quello hegeliano che era, riuscì completamente a sfuggire a questa difficoltà, e le sue contraddizioni al riguardo non sono poche. Certamente Marx credeva, ·al contrario di un De ·Maistre e di un Balzac, che la società potesse (e dovesse) essere modificata: e ne de~criveva acutamente il passato e il futuro. Ma forse che Hegel, « grande pensatore reaziona- · rio » secondo Eco, non lo credeva anche lui? E quelle stupende pagine della Fenomenologia dello Spirito, che vanno dalla figura di « Signoria e Servitù» alla « Coscienza infelice», dall'« azione etica» all'« .anima bella», non descrivono forse i mutamenti continui della comu11ità degli uomini il cui sbocco era, corr1e per Marx, consequenziale al processo? E allora· perché Hegel è reazionario (nel senso di Eco) e Marx no, visto inoltre che neanche Marx riesce a delimitare esattamente i confini tra la libertà delle azioni umane e I la necessità della storia? 12 Bibi·otecag inobia_nco

La sin,istra, la destra e il terrorismo culturale Come si vede, un discorso di questo genere rischia di portarci verso una serie di paradossi. La verità è che il problema del rapporto fra l'uomo e la sua storia è complesso fino alla insolubilità: solo l'invidiabile agilità con cui Eco sa impostare e svolgere i problemi può dare l'impressione che tutto sia chiaro. E inoltre, prima di potere attribuire la qualifica di reazionario a un filosofo del pas-- sato, pensiamo che occorra misurarlo non come se egli fosse un nostro contemporaneo, bensì in conformità all'età in cui visse, per vedere gli atteggiamenti da lui assunti nei confronti del « suo » tempo: per restare al caso del « reazionario » Hegel basterebbe leggere alcune pagine di Eric Weil e più ancora quelle del Marcuse di Ragione e Rivoluzione per dubitare almeno della qualifica che da tante parti gli viene attribuita, forse con eccessiva disinvoltura. Questo discorso, anche se apparentemente sembra averci portato lontano dal nostro tema, non è stato forse inutile: e al nostro tema si ricollega nel senso che le etichette culturali rischiano sempre di falsare i veri contenuti di 11n discorso, perché non si è reazionari e progressisti sulla base di un criterio estrinseco, stabilito una volta per tutte, ma lo si è a seconda degli atteggiamenti che si assumono in un certo momento della storia, con una presenza politica e culturale adeguata alla situazione e alle contingenze del presente. Non è certo con le continue fughe verso sinistra, con la tardiva riscoperta di certe ideologie, che ci si qualifica come progressisti, né con le intemperanze verbali o con l'estremismo ad ogni costo. Non è stato forse Lenin, del resto, a dire che chi va troppo a sinistra finisce col ritrovarsi a destra? GIROLAMO COTRONEO 13 . Bibliotecaginobianco

A sud del· Mar Nero di Ennio Ceccarini La sessione dei ministri degli esteri della NATO degli inizi di dicembre pare non abbia avuto dubbi: la soluzione del problema di Berlino è l'unica condizione per mettere insieme una conferenza sulla sicurezza europea. Detto in termini politicamente più espliciti, Berlino è l'unico grande problema rimasto in piedi tra i due blocchi in Europa e dalla sua soluzione dipendono l'equilibrio e perciò la rispettiva sicurezza dei blocchi stessi. Berlino è, indubbiamente, ancora un grosso problema e le richieste formulate a Bruxelles dal segretario di Stato americano William Rogers sottolineano l'effettiva complessità delle questioni che si annodano attorno all'assetto definitivo della ex-capitale tedesca (Rogers non si è accontentato di parlare di migliori comunica- · zioni tra una parte e l'altra della città o di libero transito dei civili e delle merci, ma ha chiesto alla controparte, all'URSS, un esplicito riconoscimento dei legami tra la parte occidentale di Berlino e la Repubblica federale tedesca). Ci sarà ancora a lungo da d.iscutere e magari da tormentarsi alla ricerca della formula buona, ma bisognerà comunque trovarla perché l'apertura di una effettiva distensione ~l centro dell'Europa, dovuta alla « Ostpolitik », non può poi strozzarsi a breve scadenza su Berlino. È da credere perciò che una soluzione si troverà perché è nella logica delle cose. È molto meno da credere che, una volta trovata q_uesta soluzione, i problemi della sicurezza e dell'equilibrio, in Europa, saranno risolti una volta per tutte. Se così fosse, bisognerebbe credere che, come sempre da oltre vent'anni, il punto strategico equilibrante della situazione europea, quello su cui si esercitano le spinte e controspinte più delicate e pericolose, è ancora Berlino. Crediamo che non sia così, crediafi1:0 che si possa legittimamente parlare di una svolta completa d'orizzonte geografico in materia di sicurezza e che si debba spostare l'angolo del problema dalle frontiere centro-europee al bacino 1nediterraneo. Berlino rimane un serio nodo politico, ma in un contesto di I movimento, di progressiva intesa tra le parti, non di confronto e 14 Bibiiotecag in·obia_nco

I A sud del Mar Nero magari di rischioso confronto. L'Occidente non deve credere di attendersi grandi resistenze da parte sovietica nella sistemazione del problema. È conveniente anche per l'URSS una soluzione definitiva ed è esattamente quel che l'URSS sta cercando in ogni modo di far intendere al più recalcitrante dei suoi satelliti, la Repubblica democratica tedesca. Il nodo strategico è altrove, è nel Mediterraneo, dove sono presenti una flotta e basi aereo-missilistiche sovietiche che fino a pochissimi anni fa non c'erano, dove l'URSS è in grado di effettuare, come l'Inghilterra degli inizi del secolo, la « politica delle cannoniere » a sostegno della propria espansione, dove il gioco di influenze e contro-influenze risospinge sovietici e americani a misurarsi in una gara pericolosa, dove le piccole velleità di alcune nazioni europeo-mediterranee accumulano errori che sospingono sempre più avanti la logica sovietica di penetrazione. Ne consegue dunque (anche se molte diplomazie occidentali, compresa quella italiana, non vogliono accorgersene) che_ il vero problema vitale della sicurezza del blocco occidentale è quello di Israele, cioè della sua sopravvivenza non solo rispetto alle pretese militari delle cosiddette « rivoluzioni arabe », ma anche rispetto alla manovra di attanagliamento politico messa in atto dalla politica di potenza sovietica. I due momenti sono del resto legati, percl1é il giorno in cui fosse definitivamente alterato, con una sconfitta e con una resa politica di Israele, l'equilibrio tra i blocchi nel Mediterraneo, si ricomporrebbe inevitabilmente il divario tra « diplomatici » e « guerriglieri » del n1ondo arabo: e a quel punto Israele cadrebbe comunque, anche come realtà nazionale sovrana. Questo ci pare il gioco politico-diplomatico che si è venuto dipanando negli ultimi tempi e ad esso ci sembra che i paesi della NATO abbiano prestato una attenzione certo insufficiente. Fermata sull'Elba - ma ci sono voluti vent'anni per realizzare questo obiettivo - l'URSS non ha comunque rinunciato ad una espansione della propria potenza, non più frontale sull'Europa, ma aggirante sul fianco basso (o, come si dice, sul « ventre molle ») del blocco rivale. Qui, per ora, a parte la ovvia presenza di basi e flotte americane, che stringe inevitabilmente il concorrente alla · scelta della convivenza anziché dello scontro (ma la legge, si badi be11e, è reciproca), la manovra sovietica ha incontrato un solo ostacolo, un unico, duro intoppo: Israele. Israele non è solo un avversario resistente, è un avversario che, si direbbe in linguaggio sportivo, cresce alla distanza. Il 1970 15 BibJiotecaginobianco •

Ennio Ceccarini lo ha confermato in tutti gli aspetti. Come gli arabi utilizzano male l'immenso aiuto sovietico e debbono perèiò ch'iamare l'URSS al rischio di un impegno diretto, così Israele impiega benissimo l'aiuto americano (e pare ne sappiano qualcosa alcuni piloti sovietici su « Mig » battenti bandiera egiziana, spin tisi un po' troppo ·sull'altra riva del Canale). Non appena gli arabi - grazie anche all'assurda condotta diplomatica di molti paesi occidentali - vincono una battaglia all'ONU, Israele è pronto a sbilanciare l'avversario con una politica duttile alla cui testa si mette Moshé Dayan, l'uomo che a rigore di propaganda comunista dovrebbe essere il simbolo dell'intransigenza annessionistica. Politicamente, militarmente e anche propagandisticamente Israele regge l'attacco e contrattacca validamente. È vero, ad esempio, che la rottura della tregua del 3 agosto da parte sovietica ed egiziana ha ritoccato il margine di sicurezza che gli israeliani avevano conservato sul Canale. Ma non è il tracollo, tutt'altro. Le 11uove forniture aeree ed elettroniche garantite da Nixon alla Meir bastano a far dire a Dayan che l'equilibrio non è sostanzialmente intaccato. Sul fronte nord e sul Giordano la situazione è addirittura migliorata. Le azioni dei guerriglieri palestinesi - mai pericolose, a parte il terrorismo spicciolo - quest'an110 sono apparse addirittura inesistenti. Forse riprenderanno, ma intanto i fedayn hanno bisogno di un lungo periodo di riassestamento, dopo la sanguinosa e perduta lotta con i legionari di Hussein. Il diciannovesimo colpo di Stato siriano e la defenestrazione di Nureddin El Atassi, falco di primario ruolo, ha privato « Al Fatah » e le altre organizzazioni di guerriglieri dell'appoggio logistico di cui godevano in Siria e frenato i già modesti slanci aggressivi dell'esercito di Damasco. D'altro canto, i metodi di lotta adottati dai palestinesi, il sistema barbarico dei dirottamenti aerei e degli attentati contro civili e inermi, ha ridim~nsionato l'effetto propagandistico che la_ causa palestinese aveva suscitato negli anni scorsi. Episodi significativi sono accaduti che confermano i dubbi che certa sinistra pro-araba ha incominciato a nutrire sui propri miti~ Daniel CohnBendit, a Tel Aviv, ha dovuto riflettere sulla differenza che passa, nel sentimento popolare, tra esercito nazionale israeliano e gendarmeria francese; Claude Roy, -amico indubbio dell_a causa araba, dopo un viaggio in Israele ha scritto sul « Nouvel Observateur » di non credere alla natura colonialistica tanto disinvoltamente attribuita ad Israele. Arie Bobber, un israeliano dello sparuto grup16 Bibiiotecag inobia_nco

I A sud del Mar Nero po del « Mazzpenn » ( un centinaio di persone i11 tutto, le sole che in Israele neghino la legittimità di uno Stato ebraico) si è recato nei campus americani dove, malgrado la protezione di uno d·ei profeti dei giovani USA, Noam Chomsky, ha ricevuto fischiate sonore da parte dei liberals. Si dice che economicamente Israele sia in difficoltà. Certo non si può negare che si tratti di uno Stato fortemente indebitato; ancora ieri ha ricevuto cinquecento milioni di dollari di prestiti per difendere la propria esistenza. Ogni padre sa che suo figlio, o quello che gli nascerà, per sopravvivere deve poter fare debiti da qualche parte. Ma l'assoluta necessità di questa condizione spiega perché Israele trova e troverà sempre aiuti economici. D'altro canto è innegabile la vitalità della realtà economicosociale israeliana. Il suo ritmo d'espansione, i diritti sulla pipeline Eilath-Askhalon (ben pagati, data la chiusura di Suez, anche da potenze petrolifere buone amiche dei paesi arabi aggressori d'Israele), la piena occupazione, i salari elevati, lo straordinario e continuo successo di un'« aliya » (immigrazione) di tipo estremamente qualificato e dunque adatta ad incrementare il già rapido sviluppo tecnologico, sono tutti fattori capaci di sospingere, malgrado le avverse condizioni generali dovute alla guerra, il progresso del paese. Anche economicamente, insomma, il gap rispetto agli arabi cresce. La realtà israeliana è solida. L'insidia dell'equilibrio non sta dunque in un suo cedimento, in una sua corrosione (come pretenderebbero le facili mitologie pseudo-rivoluzionarie dei filo-palestinesi) dovuta alle contraddizioni interne e alla guerriglia vittoriosa. L'insidia è altrove, nel vuoto politico del bacino mediterraneo su cui si è affacciata la nuova strategia, mondiale e non più continentale, dell'Unione Sovietica. Come è stato scritto recen_temente 1 , quando un paese mantiene deliberatamente misteriosi i propri fini politico-militari (e l'URSS ir1 sostanza lo fa) occorre ricavarli dalla scelta e dalla quantità dei mezzi che lo si vede accumulare. È un dato di fatto che, lentamente ma progressivamente, 1 Cfr. l'articolo di Dino Frescobaldi: La Russia sui mari sul « Corriere della Sera» del 30 novembre scorso, apertura di una interessante serie sull'argomento della nuova realtà strategica sovietica. 17 Bi bJ io.tecaginobianco

Ennio Ceccarini l'URSS si è trasformata in modo integrale dal punto di vista della scelta strategica. Ora è una potenza dagli :strumenti militari più flessibili e pertanto dagli obbiettivi politici di più ampia portata. La marina militare sovietica non ha ancora la duttilità delle task f orees americane ma è sulla loro strada. Anche se ufficialmente non ammesso, è chiaro che la « risposta flessibile » e non la « rappresaglia massiccia » ispira le dottrine strategiche dello stato maggiore sovietico. Ridotto il gap rispetto agli americani in materia di flessibilità, l'URSS bada, nel contempo, a spostare a suo vantaggio l'equilibrio negli armamenti nucleari « massivi » (missili a testata multipla, bombe orbitali ecc.); e intanto, malgrado le proteste americane, manda per le lunghe le trattative sulla limitazione degli armamenti strategici. Oggi insomma, per venire al sodo, l'URSS può esercitare nel Mediterraneo un'azione parago11abile a quella svolta dalla VI flotta o dalle altre flotte strategiche americane. Anzi, è sul piede di concorrenza in questo ruolo. Ecco anche perché la presenza militare sovietica ha ormai da un pezzo varcato il Bosforo ed ecco perché più esplicita appare la tentazione dei burocrati e dei mili- . tari panrussi di voler considerare il Mediterraneo in qualche misura una specie di prolungamento del Mar Nero 2 • Una strategia modificata così radicalmente e la sua conseguente nuova concezione e scelta di armamenti vengono poi agevolate da alcune condizioni politiche, tipiche dell'area mediterranea, suscettibili a loro volta di divenire - come di fatto sono divenute - vantaggi strategici. All'URSS - in virtù del suo protettorato sui paesi arabi - non è aperto solo il porto di Alessandria d'Egitto, bensì anche quelli (come ricordavano i citati articoli di Frescobaldi) di Aden, di Porto Sudan, di Hodeida (Yemen) di Berbera (exSomalia britannica), per non parlare poi delle cosiddette facilities concesse dallo stesso governo indiano nella ex-colonia portoghese di Goa. La presenza nel Mediterraneo, cioè, si con1pleta e si appoggia alla completa sostituzione della politica inglese « ad est di · Suez ». Le basi per rimanere a lungo potenza egemone in un'area abitata da una crisi più che ventennale, sono indubbiamente gettate. e molto lascia credere che potranno essere rafforzate in un prossimo futuro. Anche perché le alleanze politiche su cui, con assoluto cinismo e totale disinteresse ideologico, si appoggia la 2 Cfr. MICHE!. SALOMON: ivtediterranée rouge: un nouvel empire soviétique, Laffont, 1970. 18 Bibl" tecaginobi".co

I A sud del Mar Nero strategia sovietica, non si limitano ai dittatori del cosiddetto « socialismo arabo ». Già da tempo, infatti, i sovietici non mancano di rendere qualche servizio economico al regime franchista (per non parlare del recente scambio giornalistico di inviati speciali tra Mosca e Madrid) e di stare a guardare ciò che avviene tra le forze politiche spagnole in vista del « dopo-Franco ». Inoltre - citiamo una nota di Carlo Casalegno sulla « Stampa» del 4 dicembre - la Russia conclude affari con i colonnelli greci, approfitta della crisi di Cipro per incoraggiare il nazionalismo turco, fa l'elogio del gollismo e del post-goJlismo (pagando niente in termini politici gli onori protocollari tributati a Pompidou), strizza l'occhio ai « terzomondisti » e ai « conciliari » italiani. Insieme al dopo-Franco pensa, e soprattutto, al dopo-Tito, sperando - il maresciallo jugoslavo ha denunciato la manovra senza mezzi termini nel suo discorso del 26 novembre - di profittare delle difficoltà economiche e delle rivalità tra le diverse nazionalità che compongono la repubblica jugoslava. In questo caso va da sé che riuscirebbe all'URSS il colpaccio di accerchiare e « rimangiarsi », con l'occidentalizzante Jugoslavia, anche la filo-cinese Albania. Insomma, con una tastiera come questa davanti a sé, non meraviglia che l'Unione Sovietica sia penetrata tanto profondamente in un'area che, tradizionalmente, le era sempre stata sottratta dall'influenza occidentale. Ma ora ha dinnanzi a sé politiche vuote o dissennate o ridicole nella loro presunzione di alterigia: quella francese, che pretende di portare nel mondo arabo il dialogo a due (cioè sopra le teste degli americani) che già fallì clamorosamente a De Gaulle in Europa; quella italiana, che parla di « ponti », di « missioni », di « equidistanze » per garantire all'Occidente l'amicizia dei popoli arabi, senza comprendere che l'equilibrio si sta determinando a sfavore della nostra stessa sicurezza, senza pensare che è già quasi « cortina di ferro » sul Mediterraneo o che lo sarà, poco poco che vacilli la posizione israeliana. Tutti, italiani e francesi~ come presi dalla « bilateralità » con cui l'URSS caratterizza le sue aperture europee, creduli come provinciali ad un'asta truccata, convinti che si tratti di un innalzamento di rango internazionale mentre è semplicemente una manovra politica dell'interlocutore. Non ci meraviglierebbe che· qualche grand'uomo del nostro milieu politico volesse fare anche lui .la sua brava corsa a Mosca per imitare Pompidou. Naturalmente non mancano voci che te~tano di mettere in guar19 Bib _iotecaginobianco

Ennio Ceccarini dia i responsabili « mediterranei » di questa catas~rofe diplomatica dell'Occidente. Si leggono talvolta, su orgarii di stampa anche italiani, scritti acuti e si ascoltano, anche da uomini politici italiani, discorsi coraggiosi. Si apprende in tal modo che in tre anni circa, mentre l'URSS ha conservato e rafforzato le « sue» frontiere centro-europee e la sua brutale presa sul blocco dell'Est, ha esteso inoltre la sua influenza in un angolo nuovo, nel Mediterraneo; e che gli Stati Uniti nel frattempo si sono trovati a guidare un blocco sempre più scompaginato, riluttante ad ogni impegno militare e ad ogni rispetto della logica delle alleanze, sempre più contraddittorio ed indisciplinato nelle mosse diplomatiche. Come giocherà questa situazione sugli sviluppi della crisi mediorientale? Come giocheranno la nuova dimensione strategica sovietica, lo spazio geo-politico conquistato dall'URSS, il linguaggio aggressivo che essa_ usa di nuovo, la sua tentazione di far seguire e perciò adeguare la politica all'alterazione dell'equilibrio militare? Un certo pessimismo risultante dall'analisi condotta ci indurrebbe a credere che l'URSS p·unterà _tutto sulla applicazione della risoluzione afroasiatica votata sciaguratamente all'ONU il 4 novem- · bre, riducendo cioè tutta la questione della pace ad un « calendario di sgombero » delle forze israeliane dai territori occupati. Dovremmo aggiungere che non solo il pessimisn10 ci ispira queste considerazioni, ma anche quanto negli ambienti diplomatici romani si dice tranquillamente e cioè cl1e Gromyk~o, parlando con Moro dopo quel voto, avrebbe ricordato al nostro ministro degli esteri (e ci dispiace, se· l'episodio è vero, la figura fatta dal capo della nostra diplomazia) che la risoluzione afroasiatica faceva ormai definitivamente testo circa i modi di regolare la crisi tra arabi e israeliani. Ma gli interlocutori dei sovietici e degli arabi non sono tutti uguali. Israele ha le sue cose da dire e gli Stati Uniti anche. La trattativa ed il compromesso, non la « pace arabo-sovietica », saranno d'obbligo. Tuttavia. se mancherà ·ai fronte a questo crescente. movimento in avanti sovietico una contrapposizione coerente e ferma e di larghe dimensioni politico-militari (l'Europa, torniamo sempre qui al vero nodo delle nostre difficoltà presenti), se continuerà ad essere debole la comprensione di quanto sia vitale ciò che si gioca sulla sopravvivenza di Israele in terrnini di incondizionata sovranità, dubitiamo che, in prospettiva, si riuscirà a bloccare il pericolo nascosto dietro la crescita « mediterranea » della strategia sovietica. I Non basterà sempre la VI flotta, non basterà soprattutto a 20 Bib iotecaginobiç1~co

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