Luisella Battaglia trattare, con quale angolazione avrebbe dovuto affrontare un determinato problema. Ché, se poi il determinato problema manca, il regista è bollato col marchio d'infamia del peggiore qualunquismo. Si sono così creati dei « generi inferiori» di cinema, una sorta di sottospecie: da cui sembra che l'arte rifugga: il film « western », la com·media musicale, il film fantastico, il film dell'orrore sono tradizionalmente classificati, salvo rare eccezioni, con una formula ambigua e sostanzialmente priva di significato, quale quella del « buon artigianato». Il regista si è sottratto ai suoi impegni, è fuggito dalle sue responsabilità per emigrare nelle « isole beate» deHa fantasia; e cioè nel regno del disimpegno: in pratica, la scelta legittima, degna di tutto rispetto, di un «genere» è interpretata come tradimento, involuzione, fuga. È interessante sottolineare la relazione automatica che lega la scelta del soggetto di1simpegnato con lo scandimento stilistico, e cioè come il presunto reazionarismo o assenteismo politico si traduca irrimediabilmente in carenze sul piano figurativo. Un esempio illu1njnante, tra i tanti, è rappresentato a questo proposito dal caso Pabst, regista apprezzatissin10 ai tempi dalla sua « trilogia sociale» e poi caduto nel peggiore discredito con il « Don Chisciotte », per l'accusa non solo di « un regresso alla pura evasione» (Kracauer), n1a, ai limiti della critica patologica, di « incitamento alla passività e al fatalismo» (Viazzi). Pabst si era reso responsabile di aver tradito il « realismo», casella in cui era stato schematicamente classificato, per il cinema fantastico, dando così prova del più confuso eclettismo. Il regista eclettioo, la « bestia nera» per eccellenza della critica cinematografica tradizionale, è per definizione colui che ha agito con suprema incoerenza sul piano contenutistìco, e quindi, per la relazione di cui sopra, anche su quello stilistico. Il regista eclettico è, cioè, in altri termini, colui che ha osato sostituire alla fedeltà programmatica a certi assunti, una disponibilità totale all'ispirazione fantastica. La funzione del critico si evidenzia qui con tutta chiarezza come quella del censore che lancia strali contro chi si allontana dalla strada maestra dell'ideologia: un'ottusa preclusione impedisce il rispetto, che è non accettazione supina di una determinata opera, ma considerazione attenta, penetrazione cri,tica, lettura partecipe. È esemplare, a questo proposito, l'itinerario dell'avventura critica pabstiana. Una tappa cruciale è rappresentata dalla accusa di presunto collaborazionismo nazista, accusa che, se è opinabile rivolta all'uomo, risulta per lo meno paradossale rivolta al regista, di cui il critico diventa una sorta di « cattiva coscienza». Si instaura in tal modo una precisa equazione, di cui è superfluo evidenziare la capziosità, tra mancanza di eroismo politico e mancanza di genialità cinematografica. Coerentemente con queste premesse, Pabst viene raccolto nel seno della critica ortodossa soltanto con Il Processo, film di discutibili meriti artistici, ma, in compenso, civilmente ilnpegnato. La retorica, naturalmente, si spreca in una critica edificante e strappalacrime, che ha al suo centro la figura di un ex regista maledetto che si riabilita con una 42 BibliotecaGino Bianco
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