Nord e Sud - anno XVII - n. 125 - maggio 1970

Adriana Bich dotta, e quindi si pone in un rapporto di soggezione nei confronti di questa. Perciò la questione è tutt'altro che risolta, e la definizione stessa di ciò che ne è oggetto resta controversa in ogni discorso sulla cultura « popolare». Ogni volta, cioè, che ci si trova di fronte a tali argomenti, ci si accorge che le vicende della civiltà letteraria, che pure sono « nella » storia, hanno, di peculiare, la preponderante incidenza del dato filo~ logico, poiché il testo scritto è e resta il punto di partenza di ogni indagine, ancor più del « documento» nella storiografia. Né c'è alcuna valida alternativa, con1e avviene quando, ad esempio, i cronisti « ufficiali » di un certo periodo abbiano messo in ombra eventi e fatti che restano tuttavia riscontrabili e rianalizzabili. Infatti, l'influenza stessa di un'opera o di un autore sulla sua epoca, ad esempio, è un postulato ineliminabile. E d'altra parte ciò che è diventato « popolare » per diffusione, quasi mai lo era per origine e per destinazione. Nella critica letteraria, insomma, si può procedere per dissacrazioni, riconsacrazioni, svalutazioni e rivalutazioni. Ma in sostanza si riutilizza sempre lo stesso materiale, che in genere è di provenienza « accademica». In tema di populismo, la stessa diagnosi gramsciana che contrappone, ad esempio, Manzoni a Tolstoj, affermando come nel primo 3 « la saggezza ingenua e istintiva del popolo, enunciata anche con una parola causale, faccia luce e determini una crisi nell'uomo colto», mentre nel secondo « il cristianesimo ondeggia tra un aristocraticismo giansenistico e un paternalismo popolaresco, gesuitico», parte da presup• posti, in definitiva « aristocratici ». Non tanto ha valore infatti confrontare, coma fa Asor Rosa analizzando il giudizio di Gramsci 4 , Platon Karataev con Renzo Tramaglino, quanto chiedersi se studiare l'uno o l'altro, dal momento che essi sono entrambi creazione di un artista, diverso da loro e cosciente di esserlo, approdi o no ad una comprensione genuinamente popolare dell'arte. Sklovskij, nel 1929 5 , si riferiva di preferenza ai «grandi», Cechov, Gogol, Maupassant, perché acquisizioni culturali indiscusse e pertanto solide basi su cui costruire delle teorie, ossia li considerava reperti immutabili, su cui era, e sarebbe sempre stato possibile lavorare, seppur con varia e mutata metodologia. E infatti, nell'ultima opera, tutti coloro dei quali Sklovskij scrive, il « suo » Boccaccio, Amleto, « studente, uomo di un'epoca nuova», lo stesso Tolstoj, in quella loro universale capacità di percezione, che è anche coscienza di diversità, perché si riconosce solo l'altro da se, - e il patriarca di Jàsnaja Poljàna confessava che capì la natura solo quando uscì dall'infanzia, in cui egli stesso « era natura» -, furono tutti « illuministi » ossia portatori di conoscenza, « uomini in rivolta » più 3 GRAMSCI, Letteratura e vita nazionale, Torino 1952. 4 AsoR RosA, Scrittori del popolo, Roma 1969. 5 SKLOVSKIJ, Struttura della novella e del romanzo in I formalisti russi, Torino 1968. 124 BibliotecaGino Bianco

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