Nord e Sud - anno XVI - n. 119 - novembre 1969

Note della Redazione , è provveduto alle autostrade (con i molti effetti positivi che ne derivano in termini di propagazione territoriale dello sviluppo economico e con qualche effetto negativo collegato all'esaltazione della spinta alla motorizzazione privata); si sta provvedendo (sebbene con qualche lentezza e qualche scelta opinabile, tipo Firenze-Roma) all'ammodernamento della rete ferroviaria; si sono potenziati i collegamenti aerei e studiati nuovi aeroporti; si è posto mano, con l'intervento del capitale pubblico, agli svincoli viari a servizio dei grandi agglomerati urbani. Si è fatto, insomn1a, o si sta facendo parecchio in quasi tutti i settori d'infrastruttura di comunicazione. In quasi tutti, ma non nel settore dei porti. E questo è perlo,1neno incomprensibile, solo che si consideri la geografia del nostro paese, la sua struttura produttiva caratterizzata da un apparato industriale che trasforn1a materie prime per la quasi totalità proveniertti d'oltre mare, la sua funzione nell'a1nbito del Mediterraneo. È vero che nell'immediato dopoguerra un cospicuo fiusso di risorse venne destinato agli scali marittimi; n1a solo per ricostruire quanto era stato distrutto. Dopo di allora si è fatto poco, col risultato di trovarsi oggi aggiornati al 1940, mentre lo sviluppo economico ha modificato profondamente i rapporti del paese col resto del mondo rendendo l'Italia sen1pre più aperta agli scambi (sca1nbi dei quali la quota assorbita dal traffico marittimo ha finito per toccare il 90 per cento all'entrata e il 60 all'uscita) e mentre l'evoluzione tecnologica del trasporto marittimo e del maneggio délle merci ha accelerato il processo di obsolescenza delle attrezzature e dei metodi di lavoro nei porti. Di fronte al precisarsi di questa massa di esigenze, la risposta che è venuta dai poteri pubblici è stata del tutto insoddisfacente. Nel 1965, preceduto da uno studio del CNEL, venne varato il « piano nazionale dei porti»: piano per modo di dire, dal momento che esso è una nuova applicazione di quel consolidato metodo di intervento pubblico consistente nell'inventariare le richieste provenienti dalle diverse parti (nel caso specifico, dai vari organismi portuali), stanziare una cifra largamente inferiore alla somma di tali richieste e distribuirla ai richiedenti in rapporto all'entità delle richieste stesse e alla misura degli appoggi politici da cui ciascuna di esse è sostenuta. Nel caso del «piano» dei porti, peraltro, lo stanziamento effettivamente disposto è stato anche inferiore a quello originarian1ente deciso: solo uno « stralcio » di 75 miliardi sui 260 previsti, cui sono seguiti 40 rniliardi della Cassa per il Mezzogiorno. Cifre insufficienti, spese lentarnente e spese male in quanto disperse tra moltissin1i scali e non concentrate in quei pochi porti la cui attività è davvero rilevante ai fini dell'economia nazionale. Ciò che manca è soprattutto una visione a lungo termine della funzione che il sistema portuale è in grado di svolgere nel quadro della crescita dell'apparato produttivo nazionale e della razionale dislocazione di tale apparato sul complesso del territorio italiano. Si tratta di avere idee chiare sui compiti che ogni singolo sistema portuale regionale può svolgere nell'interesse delle aree di immediata gravitazione e del resto del paese; sui rapporti di tollerabilità tra lo sviluppo portuale di un determinato litorale e quello degli inse45 BibliotecaGino Bianco

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