Marisa Càssola moventi del delitto sia la relazione di Rosello con la moglie dell'ucciso; ma poi, giunto a buon punto nell'indagine, si lascia ingenuamente irretire dalle moine della bella vedova, che gli fissa un- appuntamento, promettendogli chi sa quali rivelazioni, e lusingandolo con la ,speranza di un'avventura amorosa. L'appuntamento, naturalmente, è un convegno con la morte, che attende Laurana all'angolo di una strada deserta. La sua colpa è quella di aver voluto andare troppo a fondo, di aver voluto sapere quello che i chiaroveggenti paesani sapevano già da tempo, ma avevano taciuto per prudenza o per connivenza. Il racconto, lucido e ben costruito, pur nella sua esile struttura, oltre a confermare che Sciascia possiede solide qualità di narratore, mostra anche una certa sua bravura nel tenere in sospeso l'attenzione del lettore, arrivando per gradi con una serie di abili trapassi alla rivelazione finale, e giustificando così l'attributo conferitogli di « giallo all'italiana ». Ma il suo valore consiste in ben altro, soprattutto nell'aggiunta di alcuni magistrali tocchi a quell'immagine della Sicilia che l'autore ci andava già da tempo disegnando: vediamo da vicino, per esempio i maggiorenti della cittadina, 1 troppo astuti o troppo rassegnati per immischiarsi in fatti che non li riguardano, che sussurrano a mezza voce l'autentica versione dei fatti nei loro incontri al caffè o alle feste paesane, stabilendo una catena di omertà intorno ai veri colpevoli. Solo chi vive orµiai fuori dal mondo può permettersi il lusso di dire la verità, come Don Benito, un uomo da tutti creduto pazzo perché vive barricato in casa, rifiutando ogni contatto con i suoi simili; o il vecchio saggiss.imo dottor Roscio, padre dell'ucciso, una delle figure più riuscite del libro, che ha la funzione di spiegare l'assurdo meccanismo mentale dei suoi conterranei: « Proverbio, regola: il morto è morto, diamo aiuto al vivo. Se lei dice questo proverbio a uno del N,ord, gli fa immaginare la scena di un incidente in cui c'è un morto e c'è un ferito; ed è ragionevole lasciare il morto e occuparsi di salvare il ferito. Un siciliano vede invece un morto ammazzato e l'assassino: e il vivo da aiutare è l'assassino». Indovinata è anche la figura di Laurana, nella sua psicologia da uomo di lettere, timido e scontroso, e insieme audace nel tentativo di far luce a tutti i costi sull'accaduto. Ma il suo scarso senso pratico, il suo idealismo da umanista poco avvezzo a scontrarsi apertamente con le forze del male, lo tradiscono, rendendolo vittima designata di un gioco infido, di cui non conosce le regole. Alla fine della lettura potremmo concludere con Don Benito che « l'Italia è un così felice paese che quando si incominciano a combattere le mafie vernacole vuol dire che già se ne è stabilita una in lingua». Ma Sciascia è ben lontano dal cadere in una simile forma di rassegnazione; anzi, sembra che tragga dalla disperata situazione non un passivo fatalismo, ma una pugnace volontà di rivalsa. « Io credo» egli aveva scritto ne Gli zii di Sicilia « nei siciliani che parlano poco, che non si agitano, che si rodono dentro e soffrono; i poveri che ci salutano, con un gesto stanco, come da una lontananza di secoli; il colonnello Carini, sempre così silenzioso e lontano, impastato di malinconia e di noia, ma ad ogni momento, pronto 124 BibliotecaGino Bianco
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