Nord e Sud - anno XIII - n. 80 - agosto 1966

Antonio Rao imboccare la prima riconoscendola tra le ahre, per essere certi di avere la più completa ed efficace visione d'insieme. Quest'edificio - come tutti dicono di sapere - in realtà non esiste; è lo storico éhe lo costruisce, servendosi dei fatti (cioè dei dati filologicamente accertati) come dei propri mattoni. E se non esiste per lo storico, è ancora pjù inverosimile che esista per i contemporanei. Che senso ha, allora, rimproverare a Bissolati di non aver visto la porta principale e a Manzotti di non aver sottolineato il suo errore! In realtà, come Manzotti nella sua ricostruzione ha bene messo in evidenza e come ha confermato il recente convegno di Milano su « L'intervento e la crisi politica del primo dopoguerra» (tenutosi a cura del Ceses dal 23 al 26 maggio), la situazione era molto più complessa. I presupposti ideali e culturali dell'interventismo bissolatiano erano tutt'altro che poveri, e tali in sé da conferire alla politica di Bissolati un ruolo tutt'altro che subalterno. « Nella sua ispirazione originaria - osserva Manzotti - la partecipazione alla guerra saldava l'idea di una nuova sistemazione dell'Europa con l'esigenza di accelerare la maturazione delle masse italiane che dopo il Risorgimento erano rimaste estranee alla vita dello Stato. Sfumato l'ideale socialista di un'ascesa proletaria entro il modulo classista, occorreva promuovere la fusione fra la classe e la nazione, immettere il movimento socialista nel tessuto della realtà nazionale». Un motivo mazziniano si legava così ad una concezione della politica interna la quale, oltre che nel revisionismo teorico di destra dell'età giolittiana, aveva un forse più concreto precedente nella politica dei socialisti durante la crisi di fine secolo, che li aveva visti schierati in difesa delle libertà civili e politiche, a fianco e, in un certo senso, davanti a repubblicani e radicali. Si vuol dire con questo che il democratismo di Bissolati non era il pallido riflesso della sua subordinazione ideologica ai ceti dirigenti « borghesi », ma l'espressione di una vocazione progressista e libertaria, che, pur non conciliandosi con i suoi presupposti classisti, aveva trovato per qualche tempo ospitalità nel seno stesso del partito socialista italiano. Era stato l'equilibrio giolittiano che, col suo assiduo smussamento di tutte le punte, di destra come di sinistra, con la sua accorta altalena politica, aveva reso inservibile quest'arma del riformismo, arma di cui gli esponenti di questa tendenza non erano· mai stati, del resto, pienamente padroni. La posizione di Bissolati rappresenta in un certo senso il recupero di quel nucleo democratico-liberale del riformismo tra le scorie dell'operaismo corporativo e del piccolo egoismo di categoria in cui era rimasto a lungo avvolto, e l'innesto di tale nucleo nel filone den1ocratico della tradizione risorgimentale italiana. Basti pensare alle idee di un Sonnino sul ruolo dell'Austria nel quadro de~l'equilibrio politico europeo - concezione che, com'è noto, aveva anch'essa un'ascendenza risorgimentale, da vedersi ne Le speranze d'Italia di Cesare Balbo, esponente, non a caso, del filone che si contrapponeva al precedente, quello conservatore-cattolico - per vedere come non si possa negare alla visione di Bissolati il carattere di « alternativa » rispetto alla politica dei dirigenti liberal-conservatori. E basti pensare al cosiddetto rovesciamento 112 BibliotecaGino Bianco

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