Nord e Sud - anno XIII - n. 80 - agosto 1966

Antonio Rao quest'ultimo, si configureranno rispetto alla nuova formazione come « gruppi autonomi», tanto poco disposti a varcare la soglia dei nuovi circoli di partito, quanto lo erano stati in passato, nei confronti di quelli del partito socialista. La stessa pratica delle alleanze elettorali pressoché indiscriminate, che nel Nord aveva finito col creare un certo diaframma tra il partito socialriformista e gran parte delle organizzazioni economiche, permise nel Sud il pieno inserimento della nuova formazione nel gioco trasformistico, personalistico e clientelare che caratterizzava, più ancora che nel Nord e nel Centro, la vita politica in quelle regioni. Manzotti, accogliendo l'esortazione di Carlo Morandi ad « affrontare la storia dei partiti anche attraverso la ricostruzione delle vicende dei singoli collegi», ha seguito gli sviluppi del socialismo riformista in tutte le sue articolazioni e sfumature locali, tracciando un quadro preciso e dettagliato, che si fonda in gran parte su ricerche di prima mano e talvolta sui risultati di suoi precedenti studi. A proposito della politica del nuovo partito nel Mezzogiorno, Manzotti ne vede il limite principale, non tanto nel programma, pure così inferiore « rispetto all'ampio quadro del meridionalismo salveminiano », quanto « nella eterogeneità di ceti e di istanze municipali e politiche che il partito veniva a rappresentare» nelle regioni meridionali. Mi sembra una interpretazione valida. Meno fondato è invece, a mio avviso, affermare, come ha fatto di recente un recensore marxista del libro di Manzotti, (v. Aurelio Lepre, n. 22 di «Rinascita», p. 25) che i limiti dell'azione svolta dai riformisti nel Mezzogiorno derivarono dalla fiducia di poter operare soltanto a livello politico, senza incidere profondamente nelle strutture economiche, senza cioè proporsi di modificare il meccanismo di sviluppo dell'economia italiana. In realtà, come si è accennato di sopra, i lih1iti della politica dei riformisti nel Mezzogiorno vanno piuttosto ricercati nelle condizioni stesse del loro relativo successo. Su una base spuria come quella che i riformisti riuscirono a procurarsi era impossibile edificare qualsiasi politica che non fosse quella delle « piccole cose », della difesa dei piccoli interessi, e magari delle stesse posizioni personali dei leaders del nuovo partito. Il rapporto fra ideologia e politica non è semplice ma con1plesso. La rinuncia, da parte dei riformisti, ad un programma rivoluzionario è forse sufficiente a spiegare i loro flirts con i candidati « borghesi», ma non il loro sprofondamento - salvo qualche eccezione - nella palude della semi-indifferenza ideologica. In po1itica, come in qualsiasi altro aspetto della vita, tout se tient, e lo strumento è anche il fine, o meglio lo strumento impone i fini che gli sono propri. Non si poteva fare una politica progressista, sia pure moderatamente progressista, con le clientele meridionali: l'unica via possibile era quella che fu poi in effetti seguita, quella del compromesso eretto a sistema. Ma, se si ammette questo, si deve riconoscere che la sequenza che porta il socialriformismo dall'operaismo al trasformismo è diversa da quella indicata dal recensore del libro di Manzotti. La visione politica (cioè 110 BibliotecaGino Bianco

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