Nord e Sud - anno XII - n. 63 - marzo 1965

Bruno Lauretano nano i prodotti di tale industria, si finisce col concludere che in essi di culturale c'è ben poco e che essi meglio andrebbero allineati nell'industria conserviera o in quella delle drogl1e. La definizione che Morin fornisce della cultura nel già citato volume ( « una cultura costituisce un corpo complesso di norme, simboli, miti e immagi11i che penetrano l'individuo nella sua intimità, ne strutturano gli istinti, ne orientano le emozioni», mediante i rapporti mentali di proiezione e di identificazione) e che gli permette di usare il termine « culturale» per l'industria connessa ai mass media, anche se da un punto di vista socio-etnologico appare accettabile in parte, risulta monca e mutilata. Non vengono in essa considerati due caratteri di quel fenomeno che usiamo chiamare « cultura »: la selettività e la unicità dei suoi prodotti. Non si può in tal senso parlare di produzione industriale di merci culturali, in quanto ogn·i bene culturale è lirico, irripetibile, ineguagliabile. L'industria interviene ai fini della riproduzione (libri, stampe, dischi etc.) e della distribuzione di quel bene, ma non influisce direttamente sulla sua produzione. Ci sembra, quindi, a dir poco dubbio che si possa riconoscere carattere culturale alle canzonette dei nostrì urlatori, ai cartelloni pubblicitari, a certe opache confidenze della stampa femn1inile. Si dirà che si tratta di convenzioni linguistiche e che ognuno p,uò usare le parole come meglio gli aggrada. Concordiamo in tale osservazione: aggiungiamo, però, che tale estrema emancipazione di chi parla esige da parte sua un chiarimento pregiudiziale dell'uso dei termini e non vieta a noi il diritto di chiarire che una tale eccentricità dell'uso del termine « culturale » si discosta notevolmente dall'uso comune della parola nella tradizione colta e umanistica occidentale. Morin si schermisce contro le critiche degli intellettuali ed elude il problema con una piroetta: « La cultura di massa pone un problema di fondo. Non il problema della sua validità artistica. Opporre Debussy a Louis Armstrong è insufficiente e ridicolo»: come se la considerazione della validità culturale di un'opera non fosse un problema di fondo, come se quella opposizione non fosse sollecitata da coloro stessi che mettono Debussy e Armstrong, Montaigne e Dean Martin, Socrate e Jerry Lewis nella stessa categoria. Solo una estrema e sciagurata democratizzazione del termine «cultura» può consentire simili abusi concettuali e t~rn1inologici. Era necessario fare un discorso lungo su un equivoco primitivo, per evitare che da esso altri equivoci scaturissero, con la conseguenza di una confusione e di un imbastardimento tra due categorie diverse: quella dei beni culturali in senso stretto e quella dei beni di consumo in senso lato. Ci chiediamo ora: quali sono i tramiti sociologici del film industriale? quali le sue rese nel mercato di consumo? Tale film, per dir così, sta davanti e dietro, precede e segue la società da cui deriva. Da una parte interpreta attese, miti, leggende, fobie rampollate nella massa; dall'altra propone alla massa miti, modelli, archetipi. Si tratta di un effetto-boomerang, o, come usano dire taluni, di una dialettica. Il rinvio dal film a una certa area sociologica, e viceyersa, avviene lungo tutta la parabola della vita del film (produzione, pubblicità, introduzione sul mercato, distri62 BibliotecaGino Sia.neo

RkJQdWJsaXNoZXIy MTExMDY2NQ==