Giornale a più voci Per quel che riguarda il cinema, ricorderemo: Sociology of Film, di J. P. Mayer (London, Faber and Faber, 1948); Le Cinéma, fait social (.XXVIII Semaine Sociale Universitaire, Bruxelles, Institut de Sociologie, 1960); la larga parte dedicata al cinema da Edgar Morin nel suo recente volume L'esprit du temps (Paris, B. Grasset, 1962, tradotto in lingua italiana col titolo: L'industria culturale, Saggio sulla cultura di massa, Bologna, Il Mulino, 1963); il saggio di Luigi Chiarini pubblicato nel citato numero di « De Homine » (Film e società). Si tratta, ovviamente, di indicazioni so,mmarie che valgono a mostrare l'attenzione che, da un punto di vista sociologico, viene dedicata al cinema. Quando si parla di vocazione sociologica del cinema, bisogna distinguere tra opere di livello artistico e films di confezione, merce industriale - quest'ultima - soggetta alla dinamica del consumo e alle leggi di mercato. Le trame che vincolano il film alla società, se nel secondo caso sono scoperte, nel primo caso sono sottili, labili, allusive. Per questo preferiremmo opporre alla scoperta « sociologicità » del film industriale la implicita storicità del film d'arte, storicità che non è da scoprire solo nel contenuto ideologico, o morale, o di costume, nella risposta che il film riesce a dare a certe attese e vocazioni collettive (e perciò nel consenso del pubblico), ma anche in certe rese formali e stilistiche. Il peso sociologico che nel film industriale è un'ipoteca vincolante e condizionante, nel filn1 d'arte appare come un generale e non determinante orizzonte storico in cui l'opera viene a disporsi. Ovviamente, la distinzione da noi proposta tra film d'arte e film di confezione non va sclerotizzata, e posta in termini manichei. Si tratta di una distinzione tra due condizioni e non tra due rive: essa non esclude la presenza in films commerciali di certe vocazioni artistiche e un aggravio in films d'arte di motivi e di temi nati esplicitamente dalla industria culturale. Nelle note che seguono, tralasceremo di considerare il film d'arte, la cui sottile storicità è una fragile e trasfigurata filigrana, che va sempre chiarita caso per caso, in rapporto alla diversa reattività dell'artista-regista nei riguardi del generale condizionamento storico-sociale. Ci occuperemo, invece, del film industriale, il quale più facilmente può essere classificato e riportato a delle regole ricorrenti di produzione. Tale film rientra nel campo dei mass media, e più in generale in quella che usa chiamare « industria culturale », che poi è una delle tante industrie che producono be11i di consumo. Quando si parla di beni di consumo, bisogna guardarsi dal considerare tali beni in funzione di bisogni puramente materiali. Esiste un consumo psicologico, che un'industria ultraleggera (quella dei mass media) cerca di soddisfare: uno spettacolo, un film, una trasmissione radiofonica sono da considerare beni di consumo (il che è ovvio). Quando si parla del film come prodotto della « industria culturale», è bene insistere sulla osservazione, ci si intende riferire al film di consumo, e non al film d'arte, che è un bene inconstnnabile, al pari di ogni opera d'arte. Ci sarebbe, per la verità, da discutere sulla opportunità del termine « industria culturale », che è fondato su una metafora ambigua e pericolosa. Se è industria non è culturale, e se è culturale non è industria. Se si esami61 Bib.liotecaGino Bianco
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