Nord e Sud - anno XII - n. 62 - febbraio 1965

Recensioni della città. Nella sua sete di riscatto la Califfa ha varcato la frontiera che divide ricchi e poveri, e, armata soltanto della sua sostanziale onestà, è entrata nel n11ovo mondo a testa alta, sfidando l'opinione pubblica con una spavalderia che incute rispetto. Ma non per questo ha dimenticato i suoi antichi compagni di sventura, ai quali è prodiga di aiuti morali e materiali. Alla figura della Califfa si affianca quella di Annibale Doberdò, un fortunato affarista che ha tentato di dimenticare la sua umile origine sposando una nobile e arricchendosi in una serie di losche speculazioni; ma accanto alla Califfa egli conosce una pienezza di vita mai prima raggiunta, riapprende una lezione di carità per il prossin10 da tempo dimenticata. Dopo questo periodo di splendore, la morte improvvisa del suo protettore riporta la Califfa nei poveri quartieri che l'avevano vista nascere, a continuare la vita di un tempo accanto all'amica Viola, 11na « slandra » come lei, e a lei legata da quella solidarietà che solo può nascere fra sventurati. Il succo del romanzo si può riassumere nella frase di Doberdò che la protagonista ripeterà a se stessa nella stia nuova solitudine: « L'importante, Califfa, è di sentirsi vivi ». Si tratta, dunque, di un messaggio di amore alla vita che, pur nella miseria, può farci scoprire « la verità di essere presenti nel male e nel dolore, come parti di un'unica carne ferita e offesa ... perché il mondo possa cambiare, emergere dai suoi errori; la verità di sentirsi uniti perché il nuovo equilibrio possa trovare una ragione al suo compiersi, senza che contino più nulla le umiJiazioni d'amore di una povera donna sfinita che si chiama Viola, o le false illusioni, le prestmzioni, l'immensa solitudine di un'altra donna che si chiama Califfa ». · Come è facile constatare da questo breve cenno ai motivi essenziali del romanzo, a La Califf a non manca nessuno degli ingredienti che costituiscono il tessuto d'ogni romanzo verista che si rispetti, dal Verga in po1 i, come l'intonazione populista, o la sottintesa pietà per l'infelice destino dell'uomo, pietà che si estende in ugual misura sugli oppressi e sugli oppressori. Evidentemente la lezione che ha pesato di più su Bevilacqua è stata quella di Pratolini, un Pratolini « liricizzato», di tempra meno vigorosa e robusta, con qualche forzatura retorica e sentimentale: troviamo, per esen1pio, la consueta figura del prete, più vicino allo schietto sentire del popolo che agli schemi prefabbricati della religione ufficiale ( « forse dovremmo dirgli che il loro modo di arrivare a Dio è stato e sta anche nel loro modo di amarsi, nel loro modo di morire, persino di credere in una certa idea della politica e della vita»); o, ancora, una tipica descrizione di tumulto popolare come quello in cui trova la morte il marito di Irene, caduto in un estremo tentativo di riscattare la sua dignità umana. E, a proposito di questa scena, che raggiunge un certo effetto spettacolare, ci vien fatto di ricordare la qualità di soggettista dell'autore, al quale si è rimproverato di aver scritto il romanzo con l'occhio già volto ad una sua probabile versione cinematografica. Lo scrittore ha usato nel racconto anche un altro espediente narrativo caro al realismo, e cioè la tecnica del discorso indiretto, ripreso dalla parlata 117 Bib.lioteca Gino Bianco

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