Nord e Sud - anno XII - n. 61 - gennaio 1965

Giuseppe· Galasso conosciuto la galera e il confino. Chi frequentò le sezioni comuniste nel decennio 1946-1956 certamente ne ricorda ancora qualcuno. (Di questi personaggi, persino un po' patetici, c'è del resto più di una traccia in romanz1 e racconti del dopoguer:r~a). Erano uomini provati, duri, scarsissimamente preparati in sede ideologica, con poche ma radicate idee in testa, ricchissimi però di dignità e di umanità, pieni di fascino e di prestigio quanto di esperienza. Essi si consideravano ed erano militanti di un partito d'avanguardia, in lotta aperta contro tutti, « rivoluzionari di professione», direttamente responsabili verso la massa popolare. Dalle vecchie polemiche contro il partito d'origine e dalla fiera resistenza al fascismo avevano tratto l'abitudine, soprattutto, a considerarsi esseri pensanti. Prima di agire dovevano essere convinti della bontà e dell'utilità dell'azione. Consideravano il partito come cosa propria, era impossibile dirigerli soltanto con i mezzi disciplinari e non lesinavano le critiche ai dirigenti, anche se poi l'abitudine alla disciplina e il p,atriottismo. di partito li inducevano a chinare la testa. Ma queste critiche aperte, questi esempi di dignità e di carattere, reagivano per allora positivamente su tutto il restante del partito, che era essenzialmente formato da giovani, uomini e donne, che tutti pr_ovenivano direttamente o indirettamente dalla Resistenza più o meno attiva o addirittura dalla guerra partigiana. Era gente, questa, che s'era fatta con1unista non certo per calcolo o capriccio o speranz~ di protezione; ma soltanto dopo che aveva discusso per mesi e mesi con gli anziani dai quali era stata primitivamente organizzata, e che dunque aveva co~piuto anch'essa una scelta politica e ideologica cosciente, in qualche caso addirittura sofferta; ma che soprattutto aveva tratto dall'esperienza partigiana l'abitudine all'autogoverno, alla direzione collegiale, alla libera discussione coi superiori, alla assunzione delle proprie responsabilità e all1autonomia delle scelte individuali: in una parola, alla democrazia di base. Certo non tutti i 400-450.000 iscritti del periodo 1946-1949 erano di questo tipo. Questo era però il tipo più normale dei " compagni " che si attivizzavano e lavoravano nelle sezioni, che formavano i comitati direttivi di cellula e strutturavano il funzionariato centrale e periferico del partito comunista, quello che contava, che discuteva e che faceva politica. Non era facile maneggiarlo: era un partito che discuteva persino troppo e con troppa pignoleria. Sta di fatto che fu da questo ambiente che venne tratto tutto il quadro intermedio, tutta la spina dorsale del PCI fino intorno al 1956. E fu l'abitudine al dibattito di questo quadro che fece erompere, nonostante gli sforzi del gruppo dirigente al vertice, la grande discussione seguita alla pubblicazione del rapporto Krusciov al XX Congresso e ai fatti di Ungheria ». In che cosa il comunismo italiano di oggi si differenzia, allora, da quello di un decennio fa? Cesarini mette in forte rilievo l'importanza dell'appartarsi del vecchio nucleo dei « migliori », ma, soprattutto, dà una clescrizioi1e estremamente attendibile del PCI o·diemo. _« Se il partito comunista del 1964 non reagisce alla " dekrusciovizzazione .,, con lo stesso ap,passionato interesse con cui il partito del 1956 reagì, positivamente o ....._ negativamente, alla·" destalinizzazione ,,, è p-erché il partito reale, quello di base e quello del rriedio quadro, è oggi estremameritè diverso da quello di allora. Ragioni politiche e anagrafiche hanno dis·attivizzato· o fatto. scomparire' praticàinente tutto 12 Bibliotecaginobianco

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