Donien,ico De· Masi famiglie Giuliano e Gaglio· di. Mo-ntelepre çhe, nel 1961, chiesero ai pretore di Partinico la sospensione delle riprese del film di Rosi motivando la richiesta col fatto che Salvatore Giuliano era un « incensurato ». Questa motivazione, così come l'epigrafe di Calogero Vizzini, se inq~adrata nell'etica mafiosa, risulta me110 assurda di quanto possa sen1brare a prima vista; e meno assurda risulta pure la ·famosa « omertà », che non significa « rifiuto ài testimonianza per spregio alla giustizia e per paura di rappresaglie », ma significa coerente volontà di negare ogni aiuto ad un apparato giurisdizio11ale considerato estraneo alla propria società mafiosa ed al quale non si rico11osce alcun diritto di interferire negli affari interni di questa società, completamente autonoma e sufficientemente fornita di forza per farsi da sé una giustizia molto più certa e pesante di quella che saprebbero garantirle gli organi statali. L'eticità intrinseca è un attributo che ha determinato per anni la coesione della mafia nel suo interno e che, all'esterno, ha creato i più grossi equivoci circondandola di alibi e di simpatie, forse più nocive della stessa omertà. E questo equivoco, se può essere attribuito. ad ignoranza per gran parte di coloro che vi cadono, non può considerarsi frutto di ingenuità allorché è alimentato da persone che, per cultuta e per professione, hanno il preciso do·vere non solo di non· cadervi, ma anche di metterne in guardia l'intera nazione. Quando morì Calogero Vizzini, la stampa se ne o·ccupò in modo sproporzionato e non sempre con parole di biasimo. Ma colui che si prese la briga di stenderne l'elogio funebre più comn1osso ed esplicito fu, nientemeno, il Procuratore Generale presso la Suprema Corte di Cassazione in persona (nel n. 5 di «Processi», gennaio 1955): questi, infatti, scrisse un articolo che rasentava l'apologia della delinquenza e eh.e, comunque, lasciava la mafia in quella zona d'ombra tra il lecito e l'illecito in cui ha sempre comodamente prosperato. Bisognerebbe riportare per intero le parole dell'alto magistrato- per far sentire quanta trepida co·mmozione, quanti accorati accenti straripano da ogni rigo. Tra l'altro egli racconta una visita che don Calogero gli fece a Roma il 7 febbraio 1953: « Eccomi, commendatore Vizzini. Io so-no... » - « Per lei non sono il commendatore. Sono u zu.' Calò (lo zio. Calogero)» - « Benvenuto in casa mia, zu' Calò ». Questo è il modo co11 cui uno dei massimi tutori della legge poté vantarsi di avere accolto 11ella sua casa « colui che da più di un trentennio sapeva signore di Villalba e sovrano della mafia insulare ». E la cordialità dell'accoglianza no11 derivava da una curiosa disposizione ad essere gentile con un delinquente, ma dal giudizio davvero singolare che egli dava dell'onorata società: « Si è detto che la mafia disprezza polizia e magistratura: è una inesattezza. La mafia ha sempre 20 Bibliotecaginobianco
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