Ettore Cuomo sione dal partito comunista frai1cese, avvenuta nel 1951, l'Autore ritorna sul suo passato: vuole ripensare la sua esperienza Ìntellettuale e morale, vuole comprendere le ragioni profonde di una fede che lo ha reso inerte di fronte ai crimini dello stalinismo, che, asservendolo alla Storia, gli ha « chiuso dentro» ogni rivolta morale. Il libro che ne vien fuori, seppure appesantito talvolta da certo sterile psicologismo di maniera, si rivela tuttavia di assai stimolante lettura, non tanto come testimonianza della vicenda intellettuade ed umana dell'Autore, che pure non è priva di un certo interesse, quanto come documento di una crisi profonda, culturale e morale, di non poca parte dell' « intellighentia » francese. Il processo Rajk è il momento cruciale della crisi del Morin. Legato da vincoli di amicizia a François Fejto, allora presso l'ambasciata ungherese a Parigi, e dunque alquanto adde11tro nelle cose del suo paese, l'Autore può penetrare non pochi segreti della vita politica magiara, può intuire la rapida involuzione della cosiddetta democrazia popolare verso forme di duro e spietato at1toritarismo e può comprendere che cosa in realtà si nasconda dietro l'improvviso processo a Rajk: l'eliminazio11e pura e semplice di un pericoloso avversario politico. Quel processo è dunque solo una farsa, malamente ricopiata sulla farsa dei processi di Mosca. E, di fronte alla montatura allucinante, che, mercé confessioni estorte con metodi ora di brutale violenza fisica ora di assurda coercizione morale, riversa una pioggia di accuse infamanti sulla figura eminente del comunismo ungherese,. la coscienza 1norale finalmente ha un sussulto liberatore: non più accetta di piegarsi di fronte ad una presunta necessità, spezza i lacci del falso giustificazionismo storicista che la imprigionavano e si pone come criterio assoluto di giudizio. « Il processo Rajk fu la grande rottura, non alla superficie, ma nel fondo della mia credenza. Per la prima volta rifiutai la legge di Hegel che fa della Storia mondiale il tribunale supremo. Per la prima volta la mia coscienza osò sedersi al tribunale supremo, per quanto essa tacesse al momento del verdetto. Per anni avevo imprigionato gli impulsi della mia coscienza: in ciò credevo fosse una coscienza più alta. Al momento del processo, io dubitai, infine, di questa coscienza superiore, pur dubitando ancora paurosamente della mia coscienza; da ciò nacque la mia paralisi. Ma quando oggi mi volto verso quel passato non ho dubbi: quel trasalire della coscienza, quel rifiuto, anche soltanto mentale della impostura, salvava la mia ragione. La fiamma dell'indignazione era la sola cosa che rischiarava la mia notte: era la lucidità ». Donde un'incrinatura decisiva in quella che il Morin chiama nel suo · libro « lo spirito della volgata», una sorta di storicismo che interpreta lo stalinismo come segno di prudente adattamento al reale, il puro ideale comunista dell'universale fratellanza, della giustizia e della libertà eterne, calato sulla terra e dunque costretto, per attuarvisi, a farsi violenza e terrore. Ciò gli consente di sfilare via via la maglia intessuta negli anni del dogma· staliniano e di giungere al punto d'approdo: scopre, dopo lungo travaglio, che « l'essenziale è non scaricare mai sulla storia il fardello della 96 Bibliotecaginobianco
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