Nord e Sud - anno IX - n. 36 - dicembre 1962

• Vittorio de Caprariis v'è, a questo proposito, nella Démocratie en Amérique una pagina memorabile che parecchi storici americani dovrebbero rileggere. Assai discutibili mi paiono, invece, le deduzioni che Benson vuol trarre dalla st1a ricostruzione dei partiti e della lotta politica a New York, a cui egli aggiunge, a guisa di epilogo, una rapida analisi della provenienza sociale e della fortuna economica dei principali leaders di entrambi i partiti a New York in quel periodo, analisi che rivela come, da tale punto di vista non v'era tra i Whigs ed i democratici jacksoniani alcuna differenza. Ed è proprio al termine di questo rapido quadro del « leadership » dei partiti che l'autore pone a se stesso ed agli studio,si una domanda pienamente rivelatrice di ciò che il suo libro intende dimostrare: « che cosa, posto che vi sia qualcosa, - egli domanda - differenziava gli uomini che provenivano dagli stessi strati socio ..e.conomici ma che guidavano partiti che si rifacevano a teorie del liberalismo affatto diverse ed anzi in contrasto tra loro?». È quella che a scuola abbiamo imparato a definire una domanda retorica. Benson ritiene che la sua ricerca precedente lo autorizza a concludere che le linee di divisione tra i partiti non erano già quelle dei contrasti economici cui avevano creduto e Beard e Turner e tutti gli storici precedenti dell'età di J ackson, e neppure le altre delle differenze di ideali e delle interpretazioni diverse del liberalismo; e, non avendo trovato nessuna risposta soddisfacente del suo problema neppure nelle distinzioni socio-economiche, cioè di classe sociale ed economica, pensa di dover cercare un'altra soluzione fuori di tutto ciò. A me sembra, tuttavia, che l'analisi della politica a New York fatta da Benson autorizzi una sola conclusione, quella cui erano già giunti studiosi come Dorfman ed Horstadter, cl1e, cioè, le linee di divisione tra Whigs e democratici jacksoniani non erano quelle che gli storici fino a Schlesinger junior avevano credute, ma altre. Oltre tutto qui c'è una questione generale o di metodo: quando si conclude, come si deve concludere, che le pretese dei jacksoniani, che i Io,ro avversari sognassero addirittura una restaurazione monarchica o che fossero 1 tutti degli aristocratici, erano mera polemica politica, e quando si conclude che nessuno dei due partiti americani del tempo metteva in discussione il regime, ossia il quadro istituzionale entro il quale doveva svolgersi la lotta politica, non si conclude affatto che non esistessero affatto divisioni di partiti. E, del pari, quando si conclude che i capi ed anche i militanti ed i votanti di entrambi i partiti provenivano dalle stesse classi e che non v'era una netta distinzione tra poveri e ricchi, non si conclude affatto, neppure questa volta, che non esistessero· differenze tra Whigs e democratici. La famosa teoria del consensus, che tanto piace a molti storici americani dei nostri giorni (e vi includo anche quello che a mio giudizio è tra i più acuti, Richard Hofstadter), la teoria, cioè, che nella storia americana si può contrastare un accordo di fondo tra i vari partiti che si lottano, se non è usata con estremo discernimento e con molta cautela può, agevolmente, condurre a quella famosa notte di Hegel, nella· quale tutte le vacche sono dello stesso colore. 106 Bibliotecaginobianco

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