• Note della Redazione Alicata e De Martino Il 25 gennaio si è tenuto a Napoli, ad iniziativa della Società Napoletana di Cultura, un dibattito sulla destalinizzazione che ha avuto come protagonisti l'on. Francesco De Martino, vice-segretario del PSI, e l'on. Mario Alicata, della direzione del PCI. Così, anche nella nostra città, come già, nei mesi scorsi, era accaduto nei maggiori centri del paese, socialisti e comunisti hanno potuto misurare, in un dialogo pacato ma non privo di punte pole1niche, ciò che li divide, e sopratutto hanno consentito agli altri di intendere ciò che separa oggi i due maggiori partiti operai italiani. Diremo subito che ai problemi posti da De Martino (come e perché sia stata possibile la degenerazione dell'era staliniana; in che modo debbano essere intese le istituzioni politiche di una società socialista ed in che ,nodo si possa assicurare attraverso queste la tutela delle libertà politiche; in che modo e perché il « monolitisrno », che caratterizza la concezione del partito dei comunisti anche in Italia, sia una risposta negativa alle esigenze di libertà; e finalmente in che misura la passività acritica con cui i comunisti italiani hanno affrontato, dal 1956 ad oggi, i problemi della destalinizzazione abbia rappresentato una sosta effettiva nel cammino verso la soluzione delle questioni poste dalla destalinizzazione medesima), a tutti questi problerni Alicata non ha dato alcuna risposta soddisfacente. Poiché egli si è limitato a ribadire dommaticamente che la Rivoluzione di Ottobre ha costituito nella storia dell'umanità un salto qualitativo (da che cosa a che cosa?) e che le istituzioni di una società socialista non sono e non possono essere una somma delle libertà borghesi e di altre libertà, ma una cosa qualitativamente diversa dalle istituzioni borghesi; e per il resto ha detto che i problemi erano più complessi di quanto De Martino non avesse lasciato intendere e, pur riaffermando di non essere un « giustificazionista», ha continuamente rinviato alle condizioni obiettive nelle qua~i si era dovuto costruire lo stato socialista in Russia. Ma, come ha osservato de Caprariis a conclusione di quel dibattito, questo continuo ricorso alla storia, alle « condizioni storiche obiettive », alla maggiore complessità dei problemi, è, in sostanza, un modo di sfuggire per la tangente ai problemi ai quali 110nsi vuole o non si può dare una risposta. Poiché, anche concesso che i problemi siano più complessi e che le « condi, zioni storiche obiettiv~ » nelle quali si costruiva in Russia un assetto moderno fossero particolari, resta il fatto che vi furono nell'Unione Sovietica la degenerazione totalitaria e gli errori ed i crimini che tutti sappiamo; e resta, pertanto, il dovere di spiegare come e perché vi furono e come si debba correggere ciò che va corretto. Se ci liJnitiamo a dire che tra il 1925 ed il 1950 le « condizioni storiche obiettive » erano terribili e che esse, se non giustificano, aiutano a comprendere ciò che accadde (mentre ora non sono più terribili e quindi tutto va per il ,neglio!), diciamo solo una piccola parte di ciò che va detto e corria1no il rischio di incappare nella trappola di un « giustificazionismo » più blando e parziale, 1na non meno peri26 Bibliotecaginobianco
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