Nord e Sud - anno IX - n. 25 - gennaio 1962

• Nicola Tranfaglia 559 ben può imporsi fra i limiti posti a gara11zia dell'unità familiare. È innegabile che anche l'adulterio del marito può, in date circostanze, manifestarsi coefficiente di disgregazione dell'unità familiare; ma, come per la fedeltà coniugale, così per l'unità familiare, il legislatore ha evidentemente ritenuto di avvertire u11a diversa e maggiore entità dell'illecita co,ndotta della moglie. » Pur tra i dubbi che emergono da questa parte del discorso, i giudici sono dunque d'accordo con il legislatore del '42: per più di una ragione. Prima di tutto, perché l'illecita condotta della moglie determina un « turbamento psichico nei giovani figli per il pensiero della madre tra le braccia di un estraneo, particolarmente nell'età in cui appena si ann1.1nciano gli stimoli e le immagini della vita sessuale». Poi per il « pericolo dell'introduzione nella famiglia di prole non appartenente al marito ». Infine perché, anche se si tratta di fatti destinati a scomparire, « specie in certi ambienti, si hanno reazioni violente e delittuose alla infedeltà della moglie». In tutta la motivazione è possibile trovare un solo argomento fondato sulla legislazione vigente: il codice civile, cioè, ammette che il marito disco11osca i figli della propria moglie, nati durante il matrimonio, esclusivamente in alcuni casi, tra cui l'adulterio (che deve essere provato). Per eliminare il· rischio di cui si sono preoccupati i magistrati della Consulta, basterà che l'articolo 235 del codice civile, dedicato appunto al « disconoscimento di paternità», sia formulato in maniera diversa. E, soprattutto, che il marito non sia obbligato a riconoscere tutti i figli della moglie. Con qtiesta semplice revisione, ogni pericolo sarà definitivamente scongiurato. Ma, in effetti, non sono stati altri motivi ad aver avuto peso determinante nella scelta effettuata dai giudici? Dal rilievo attribuito ad essi nella sentenza, pare proprio di poter rispondere affermativamente. La discussione verte, perciò, su un'unica, fondamentale proposizione: l'infedeltà della moglie esercita, più di quella del marito, un'influenza disgregatrice. Per spiegare questo assioma, si è ricorso al « turbamento psichico» dei figli, alla gravità dell'offesa, perfino alle « reazioni violente» che si verificano per l'adultério in certi ambienti, vale a dire nelle zone più arretrate del Mezzogiorno. Ma è possibile, ancora nel 1961, sostenere tesi del genere? Perché i figli sarebbero turbati dal tradimento della madre - a cui di solito, contrariamente a quanto ·sem.brerebbe dalla sentenza, non assistono - e non da quello del padre? Perché l'adulterio della donna è un'offesa più grave delle altre all'unità della famiglia? E per quale motivo, di fronte all'alternativa tra l'abolizione delle attenuanti per il delitto d'onere - come ormai da più parti si chiede - favorendo la scomparsa dei pregit1dizi che lo alimentano, e la consacrazione dello status quo, con il tenerne conto anche ai fini dell'unità familiare, la Corte si è preoccupata della seconda e non della prima ipotesi? Sono interrogativi a cui i giudici costituzionali si sono ben guardati dal rispondere, limitandosi a tracciare una diagno·si parziale e insufficiente della situazione italiana. Sicché, prevenendo le obiezioni cl.i fondo e traendo le logiche conseguenze dei principi che hanno ispirato la decisione, il ministro 58 Bibliotecaginobianco

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