quel particolare amore regressivo per i miti perduti, macina i giorni, gli anni trascorsi dietro « qualcosa-che-passa-e-sembra »... I ritorni di Massimo a Na- · poli narrati negli ultimi tre capitoli sono il documento posteriore di questo vuoto, la proiezione oggettiva di ciò che è avvenuto prima.' E come il gran palazzo di Posillipo (dai balconi della casa patema tagliati nel tufo Massimo si tuffava in mare) mill'imetricamente conquistato dai bradisismi e offeso daUa J speculazione edilizia affonda a poco a poco nel liquido elemento (ancora la Natura che vince la Storia), così la città gli appare ancor più affondata nel nulla, vuota: dispersi gli amici, h·amontato Sasà, involgariti i luoghi dalla gente nuova. Eppoi il rimpianto, il disprezzo (odio-amore per la città), la sua privata nevrosi che è stata ed. è la stessa nevrosi di tanti come lui, non consentono a Massimo di accorgersi che qualcuno e qualcosa resistono, seppure in condizioni diverse dalle sue. Del resto, prima di partire, egli insisteva: « La storia se non c'è, si fa. Si può fare. Anche qua ». Emigrando, Massimo porta con sè la rabbia di una delusione collettiva, i suoi ritorni a Sian sono un fallimento : ormai è un apolide, irriconoscibile e inesistente. * * * Indubbiamente La Capria esprirne in termini critici la rappresentazione ·della sua generazione nel quadro della recente storia della città e in tal modo - • recupera narrativamente i campioni di un'isola sociologica pressochè inedita. La media borghesia napoletana che ha lasciato patrimoni sui tavoli da gioco dei circoli dividendo il primato con gli esponenti di alcune famiglie nobili nostalgiche e legittimiste e gli esponenti del nuovo ceto che arricchiscono con la speculazione edilizia, gli affari di sottogoverno, le -malversazioni politiche e clientelistiche fanno da sfondo alle vicende di un gruppo di giovani che maturano i vent'anni nella confusione e nelle speranze del dopoguerra. L'esattezza sociologica dei personaggi e dell'ambiente è calibrata e senza sbavature macchiettistiche: agguato che La Capria ha evitato con lo sguardo imparziale, l'ironia corrosiva e perfino il calembour associato alle onomatopee verbali. Ma soprattutto, l'autore ha distanziatq il pittoresco e il patetico del mondo napoletano con una sorvegliata attenzione di natura culturale il cui merito risiede nella elaborazione di una prosa libera, scattante, che nel panorama della narrc1,tiva italiana del dopoguerra si inserisce - in modo diverso e autonomo - accanto alle prove filologiche di Gadda e Pasolini. (A proposito del linguaggio e della struttura del romanzo poi, s'è parlato di consapevolezza della ~iforma joyciana, ed è vero. Però non si tratta di una adesione esterna e rn.anierata; nè scontata poichè esperienze del genere da noi appena da poco cominciano ad essere vagliate in sede creativa, con gran ritardo). Nell'orecchio del lettore, come nell'_orecchio di Massimo scoppia il pastiche linguistico: La Capria l'ha mediato da una tradizione letteraria europea di alto lignaggio, da fonemi dialettali argutamente ricreati nel dialetto interno dei personaggi ameboidi distesi sulle terrazze del Circolo o impegnati in una partita di pallone sulla spiaggia o di p·oker al tavolo verde. Que~to castello di parole ora tenero ora spietato ora ironico secondo il personaggio 118 Bibliotecaginobianco
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