veristi, ammantano il vuoto pneumatico dei loro volumi. Se si dovesse fare una graduatoria di merito, in fatto di proprietà lessicale, fra tutti i narratori che oggi s'avvicinano ai quaranta o li hanno appena superati, Calvino risulterebbe senza dubbio in cima: tanta è la bravura con la quale maneggia gli strumenti ardui della lingua italiana. Ma questa bravura, almeno nell'esempio attuale, è anche il suo limite. Dal nuovo nesso lessicale egli è tratto inavvertitamente ad un nuovo nesso logico e narrativo, che si propone lo sfruttamento al limite di tutte le possibilità offerte dalla invenzione originaria. In altre parole, i personaggi, sia pure visti attraverso il filtro ammaliziatissimo di una inventiva che non solo prende il mito sottogamba, ma lo rivolta e lo attorciglia a suo piacimento e per lo spasso altrui, finiscono ad esistere soltanto per la carica verbale che portano in sè, e che ad un certo punto felicemente li muove, altra volta insabbiandoli invece in modo irrimediabile. È un'inventiva, insomma, tutta meccanica, che si risolve, per due protagonisti, Agilulfo Erno Berb·andino dei Guildiverni e degli Altri di Corbentraz e Sura, e Gurdulù, nei termini di una antitesi verbale, già nelle prime pagine e che su quella antitesi campa di rendita fino alle ultime. Ma f aver costruito il libro su un protagonista così labile che sa di non esserci, è una eleganza che a Calvino costa caro. E l'avere accompagnato ad Agilulfo, come una nota di contrappunto, lo scudiero Gurdulù, che non sa d'esserci, è un'eleganza altrettanto perigliosa. E se quest'ultimo, con le sue minchionate alla Bertoldo, qualche volta diverte e muove il riso, il primattore Agilulfo è un personaggio triste, e scapperebbe di dire lugubre. Che il libro, nato con questa macchia originale, si tenga in piedi abbastanza solidamente, fino in fondo, è tutto merito, come si diceva, delle acrobazie che Calvino riesce ad imporre alla sua penna magistrale, e con essa al lettore anche il più smaliziato. Ma questa riuscita tutta apparente non può mascherare la vacuità di una invenzione che non riesce a disegnare un solo personaggio in tutto tondo. Le pagine migliori sono quelle in cui gli usi e costumi dei paladini, questi stakanovisti dell'eroismo, sono visti col prisma di uno scansafatiche d'oggigiorno. E se dovessimo isolare nella folla di comprimari e comparse le figure più vive, non ci resterebbe forse che Bradamante, la pulzella senza pulzellaggio sempre in cerca di passatempi letterecci e Carlo Magno, viva la faccia dell'imperatore, che parla e si muove con la corposa bonomia d'un maresciallo di fureria. [G. B.] Saggistica CALEFFI - « Sulla civiltà romana, che è così grande, l'abominevole amore del pubblico per i ludi del Circo getta un'ombra fosca. È una macchia di obbrobrio che non si cancella », scrive Ugo Enrico Paoli nel suo bel libro: Vita romana, Le Monnier, Firenze, 1945, a pag. 332 (l'opera in una recente nuova edizione ha visto mutato il suo titolo in quello strano e non si sa quanto pertinente di: Cane del popolo). E aggiunge incisivamente: « Direi che noi la condanniamo [la scellerata consuetudine degli orrori del Circo] è poco; 125 BibliotecaGino Bianco
RkJQdWJsaXNoZXIy MTExMDY2NQ==