Nord e Sud - anno VII - n. 1 - febbraio 1960

nistica stessa) ha preso una strada di qualche interesse formale, ma a nostro avviso pericolosa per motivi di ordine più generale. Non vorremmo andare errati collegando l'insorgere in architettura della poetica cosidetta neorealista con i programmi degli Enti pubblici per costruzioni a tipo popolare fioriti per realizzare la ricostruzione edilizia di questo dopoguerra, e sopratutto del più importante di questi, e cioè l'INA-Casa. Fu allora che, sotto la pressione di norme assai rigide (e non del tutto inf elici) emanate a regolamentare il programma di ricostruzione stesso, nonché dei precisi limiti economici imposti ai progetti, si andò elaborando una serie di canoni di gusto che sembravano sufficientemente robusti per sostenere, in una impalcatura ideologicamente coerente e strumentalmente efficace, l'impegno creativo cui gli architetti cl1iamati a realizz3:re i programmi di ricostruzione non credevano di doversi sottrarre. Case popolari non doveva significare necessariamente brutte case: ma, d'altra parte essendo il limite di spesa piuttosto basso, la scelta offerta all'inventiva architettonica era piuttosto limitata. Fu questo il clima, se non andiamo errati, che provocò la nascita, cui molti aderirono entusiasti, della poetica neorealista, una moda del resto che trovava anche altrove ampie giustificazioni. Gli esp~rimenti condotti in questo senso n9n furono, per unanime o quasi riconoscimento, felici. Sarebbe troppo lungo esaminare in questa sede quanta parte di responsabilità debba ricadere sugli architetti e quanta sui programmi di ricostruzione, sulla loro validità intrinseca, cioè, a soddisfare i requisiti che la moderna urbanistica aveva da tempo codificato (si veda il grosso problema del quartiere; per lungo tempo si dibatté la questione se • il quartiere dovesse essere cc chiuso » o cc aperto », quando in realtà, probabilmente, le soluzioni più che scelte - e furono le soluzioni del quartiere cc chiuso », piuttosto autonomo e concluso rispetto alla circostante realtà a prevalere - erano imposte da mille motivi estrinseci). Comunque l'indirizzo per una revisione anche estetica delle conquiste o magari delle tappe più significative dell'architettura moderna europea ed extraeuropea era ormai preso. Le Corbusier venne accantonato, non solo per motivi ragionevoli, come poteva essere il rifiuto delle sue paradossali proposizioni di estetica architettonica, ma perché non si aveva il coraggio di domandarsi seriamente se, prima di costruire o ricostruire, non fosse necessario valutare più attentamente tutte le implicazioni presenti nel suo insegnamento; ed erano sopratutto implicazioni d'ordine urbanistico, non del tutto da respingere, come anche il Pane avverte. Così, comunque, il razionalismo venne rigettato. Da un passo ali' altro, dal neorealismo al « neoliberty n, la strada della revisione era aperta, in Italia, e, diciamolo pure, con una punta di orgoglio e di soddisfazione. Finalmente c'era qualcosa di autonomo - fors'anche, perché no?, di autoctono - nella cultura architettonica italiana. Ora, a distanza di dieci anni, ci si accorge che in Francia, dove l'edilizia è ancora, con tutti i suoi difetti, un fatto di costume, un fatto civile saldamente radicato nello spirito del paese, Le Corbusier ha ottenuto la sua ragione: la banlieu parigina, Bordeaux e magari Marsiglia conoscono le case lamellari di tipo lecorbusieriano, e, sembra, con soddisfazione comune. A 122 Bibliotecaginobianco

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