Nord e Sud - anno VI - n. 61 - dicembre 1959

fatto .di averlo ~ntuito resta una prova di più della grandezza di Roosevelt come uomo di stato - era un'amosfera di fiducia nel popolo. Tutti i miti americani, tutte le promesse - e le premesse - del1' americanismo s'erano inabissati (o parevano essersi inabissati) nell'uragano della crisi: i grandi costruttori d'imperi economici facevano figura di fanciulli ignari innanzi alle proporzioni gigantesche del crollo, innanzi ai meccanismi della depressione che non riuscivano più a controllare; gii uomini politici, che per anni avevano tratto vanto della loro neutralità e del rifiuto di intervenire nella vita economica della nazione, apparivano i servi sciocchi degli uomini d'affari responsabili della rovina_; lo Stato era una divinità impassibile e lontana. Occorreva, dunque, dire le parole che facessero rinascere in tutti un'esile speranza, che mostrassero come la divinità statale rompeva il silenzio e l'immobilità, per affermare la sua primaria responsabilità e i suoi doveri verso il popqlo~ Roosevelt volle che il discor- , so del marzo '33 fosse, appunto, un discorso di consacrazione della nuova amministrazione ai suoi compiti e dunque un discorso della speranza: « questo popolo chiede che si agisca, e che si agisca subito >> egli disse; ma aggiunse che erano sconfitti solo coloro che volevano essere sconfitti, poichè negli uomini vi può essere una volontà indomabile di vittoria. E la patetica figura dell'uomo che aveva vinto la malattia dovè sembrare, in quel1' attimo, a milioni di americani, una prova esaltante della verità del principio • enunciato. Ma questo senso della necessità di restituire al popolo la fiducia in se stesso e nei destini del paese, non era sufficiente: era necessario, altresì, che si avesse una visione lucida e precisa di ciò che era effettivamente accaduto nell'economia e nella società americane, delle cause di ciò che era accaduto e, finalmente, delle responsabilità degli uomini e dei ceti. Crisi della proporzione di quella del '29 non potevano essere accettate con fatalismo rassegnato, quasi una sorta di castigo divino, perchè se esse si potevano produrre voleva dire che nel sistema v'era qualcosa che non funzionava e che i leaders politici del paese dovevano correggere. La analisi rapida ed essenziale che Mario Einaudi fa della crisi, delle cause che l'avevano prodotta e delle responsabilità che essa denunciava, mi sembra impeccabile: è ben vero che l'apparato produttivo del paese era squilibrato, che certe industrie si erano, nell'euforia del boom degli anni '20, sviluppate oltre ogni segno; ma ·è, altresì, vero che una sovraproduzione momentanea non avrebbe mai potuto produrre gli effetti che produsse se le strutture economiche e finanziarie fossero state sane e se al potere vi fosse stata una classe dirigente disposta ad accettare, senza pregiudizi, la lezione delle cose. È un fatto che la pessima distribuzione del reddito, la sovrastruttura speculativa che appesantiva le strutture industriali del paese, gli abusi nei punti più sensibili del sistema bancario, la politica di contrazione delle spese pubbliche, gon-fiarono le conseguenze della crisi di congiuntura e portarono al limite del crollo. Pure, in quel 1nomento un intervento responsabile dei poteri federali avrebbe potuto, forse, evitare il peggio: occorreva riconoscere che gli uomini della finanza, i grandi affaristi, avevano volontariamente falsato lo sviluppo delle forze economiche e che, per- [112] BibliotecaGino Bianco

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