Nord e Sud - anno VI - n. 59 - ottobre 1959

incapacità di cui troppo spesso la Carta costituzionale è stata una, spe_cie di alibi più che la buona coscienza d'un dovere compiuto in armonia di intenti, non poteva non riflettersi sulla Scuola. Ne è venuta per quest'ultima una condizione di insularità che non può non colpire, ictu oculi, chi vi abbia consuetudine di lavoro: nella Scuola, esclusa la patina di conformismo ufficiale, che si estrinseca nel sempre più frequente numero di manifestazioni religiose collettive, nei temi ministeriali dettati per radio, negli ukase relativi alle modalità di adozione di qualche testo, ognuno sta in realtà per conto proprio, isola di un disordinato arcipelago. Un Paese apparentemente diviso in d~e su grosse questioni di politica estera ed economica ma sostanzialmente spartito da due formazioni politiche ài cui l'una tiene il monopolio del governo e l'altra il monopolio dell'opposizione, e in cui nessuna delle due forze sembra davvero convinta dell'utilità comune che rappresentano le norme di uno Stato di diritto, non può non rivelare le stesse deficienze nella scuola. Da questo punto di vista tutte le possibili riforme di struttt1ra, pur doverose se si pensa solo all'attuale sproporzione tra l'accrescimento della popolazione nel dopoguerra e la quasi staticità del numero degli Istituti e la deficienza di aule, non potranno mutare 11emmeno in piccola parte il vero, profondo disagio ùella scuola italiana, che come un sottile veleno si trasmette dai docenti agli aìunni per tornare da questi al luogo di origine: un Paese che ancora non sa con precisione quello che vuole. RAFFAELLO FRANCHINI Domenico Rea e la narrativa meridionale A rileggere a distanza, o meglio, alla luce di « Una vampata di rossore», ciò che Rea scrisse nel suo intervento al dibattito sulla narrativa meridionale (« La narrativa meridionale», Editoriale C. D., Roma, 1956), molte delle sue affermazioni assumono d'un tratto una nuova prospettiva. Si sente cioè che certe cose, riferibili solo in parte, e solo dopo averle attentamente rifiltrate, a ciò che Rea aveva scritto fino a quel momento, erano già l'implicita prova d'un processo di approfondimento che doveva darci, dopo il Rea dei racconti, il nuovo Rea, sorprendentemente maturo d'una sua dolente umanità, del romanzo. C'era li come un ripercorrimento della propria esperienza letteraria che avrebbe dovuto dire molte cose circa la vera vocazione d'uno scrittore collocato, impropriamente e frettolosamente, nella schiera dei neorealisti, c'era l'indicazione di certi testi che nulla avevano a che fare con la moda americaneggiante degli anni del dopoguerra e che rivelavano piuttosto la solidità d'una cultura impiantata anzitutto sulla nostra tradizione. Perchè Rea, senza alcun dubbio, na~ceva dalla nostra tradizione. E non solo da quella verghiana, in quanto Verga semmai dovè costituire pèr lui un punto d'arrivo, meglio ancora un innesto su un tronco già cresciuto, ma da [63] Biblioteca Gino Bianco

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