Nord e Sud - anno VI - n. 52 - marzo 1959

cietà italiana, con immediatezza e realismo, ma senza il conforto di una chiara visione «ideologica» o comunque « generale» e complessiva dei suoi problemi. Da questo punto di vista, il giudizio sulla Unità può dunque considerarsi acquisito: e chi ora legga, nell'antologia del Finocchiaro, la parte intitolata Che cosa volle l'Unità, e che vede riuniti insieme scritti di Salvemini e di Luzzatto, di Croce, di Savelli, di Pantaleo Carabellese (un filosofo che doveva più tardi scrivere alcuni tra i libri più seriamente astrusi e metafisici che la cultura filosofica italiana conti - si pensi solo alla Critica del concreto - e a proposito del quale proprio Croce escogitò la· formula feroce della « filosofia come inconcludenza sublime!») non avrà difficoltà a confermare il giudizio che ci viene da parti così diverse dello schieramento politico e culturale. Così al Savelli che, pur vagamente e certo retoricamente, intuiva la necessità di una formula politica riassuntiva, di un mito e di una fede, e che, mente poco solida e chiara, pretendeva indicarla nella ccnazione » (spacciando magari questo suo nazionalismo sotto la bandiera di quel Mazzini al quale proprio Salvemini aveva dedicato una decina di anni prima un libro assai notevole), il direttore dell'Unità aveva certo ragione di replicare, con la sua prosa secca, pungente e onestamente ironica, che la loro conversazione sulle colonne della rivista doveva' dare ai lettori l'impressione di quei « cagnolini che girano intorno a se stessi per acchiappare la propria coda e non ries~ono ad acchiapparla mai», e che la coda in questione era proprio la formula riassuntiva, la fede, il mito, di cui il Savelli aveva improvvisamente sentito il bisogno, constatando con sgomento come essa fossè assente dalle pagine e dalle analisi della Unità. Certo, diceva Saivemini, le cifre e le statistiche non bastavano a muovere un popolo: << ci vuole un'idea informatrice, ci vuole una formula ». Ma quella formula il direttore dell'Unttà si rifiutava di identificarla nella filosofi.a, o nell'~rriore per l'Ideale proclamato a parole. Ci vuole più idealismo (diceva) a scrivere un articolo, piano, pedestre, concreto, irto di documenti e di fatti, che non ad andare in giro per le piazze proclamandosi idealisti e innamorati dell'ideale; e, onesto e chiaro come sempre, proponeva bensì di fare un esame di coscienza, ma, per farlo sul serio, gli sembrava che nessun mezzo fosse più adatto che l'opera concreta dell'Unità, troppo precisa e determinata per poter ingannare nessuno. Che ern, rispetto alle poco chiare e poco intelligenti preoccupazioni del suo interlocutore, un discorso certamente impeccabile; ma che aveva, d'altra parte, il torto di non riuscire a trascendere il piano che il Savelli aveva scelto, di non procedere oltre verso il problema che il Savelli intuiva vagamente e retoricamente, ma che certamente esisteva. Da questa imprecisa coscienza dell'esistenza di un problema più serio di quel che il Savelli riusciva a porre, era nata, infatti, la discussione; che non avrebbe avuto senso se si fosse trattato solo di rispondere al « nazionalismo» di quel collaboratore del giornale, e che viceversa Salvemini riconosceva come importante e necessaria. Ma, per sforzi che facesse Salvemini non riusciva a superare l'incertezza, ad attingere un criterio superiore di giudizio: diceva che la formula ci vuole, è necessaria, e poi, non riuscendo a pensarla sul serio, fuori dei . [118] Bibliotecaginobianco

RkJQdWJsaXNoZXIy MTExMDY2NQ==