Buona parte della stampa quotidiana, nel rilevare l'enorme scarto fra prezzi di campagna, prezzi all'ingrosso e prezzi al dettaglio, seguita ad insistere nell'indicare il numero eccessivo di esercizi quale causa preminente delle maggiorazioni. Ogni rivenditore, trovandosi a smerciare un modesto quantitativo giornaliero, dovrebbe sottostare ad una forte incidenza di spese fisse generali. Si calcola che a Roma ogni esercizio esiti in media 125 chili al giorno: cc Possono accontentarsi di una maggiorazione di 5 o IO lire al chilo? » scrive il Tempo (20 luglio 1958). Ed infatti non si accontentano; la maggiorazione raggiunge a volte l'ordine del 100 per 100, per cui, anche a voler calcolare una avaria merce dal quattro al nove per cento, la differenza netta fra il totale speso presso i mercati generali all'atto dell'acquisto ed il totale incassato dai clienti non dovrebbe essere mai inferiore, a fine giornata, alle dieci mila lire per esercizio. Non è un introito lordo del tutto trascurabile se si tiene conto che delle novemila licenze di vendita in essere, ben ottomila si riferiscono ad ambulanti che non incontrano forti spese per affitto locali, diritto di posteggio, tasse, ecc. L'impostazione del ragionamento preferito dalle categorie commerciali, e spesso avallato dai cronisti dei quotidiani, va quindi capovolto. Non è un eccesso di concorrenza che tiene alti i prezzi; non occorre essere addottorati in scienze economiche per comprendere l'eresia di una simile proposizione. Bensì è l'alto prezzo imposto alla vendita finale del prodotto che 11e limita lo smercio a modesti quantitativi, permettendo tuttavia un certo ragionevole utile per ogni dettagliante. Che le parti interessate per sostenere una tesi ricorrano ad argomentazioni sofistiche che alterano i principi della logica è fenomeno verificabile, anche se scorretto. Ciò che stupisce è come un ragionamento capziosamente errato possa essere assimilato e fatto proprio dalla stampa e dai funzionari della pubblica amministrazione, senza alcun serio tentativo di esame critico. Si prendano ad esempio le circolari del Ministero dell'Industria e del Commercio, ad interpretazione del R.D.L. 16 dicembre 1926, in cui si stabilisce che le Commissioni Comunali possono negare le licenze ove si ritenga che il numero degli spacci sia sufficiente alle esigenze del Comune, tenuto conto dello sviluppo edilizio, della densità della popolazione e della ubicazione dei mercati rionali. Di detta Commissione fanno parte anche i commercianti del ramo e le decisioni collegiali risentono spesso più di preoccupazioi:ii concorrenziali che di quelle pertinenti al pubblico interesse: di qui dinieghi non sempre sufficientemente mo~ivati. Orbene, il Ministero della Industria e del Commercio sotto la guida di Cortese riconobbe l'incongruenza di tale stato di fatto ed emanò, in data 24 agosto 1956, una circolare in cui si ristabiliva il principio del diritto del cittadino ad esercitare l'attività comf351 Biblioteca Gino Bianco
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