plare di certi modelli, ad avere una sua giustificata autonomia; e a permutare, altresì, con più compiute e consistenti realtà quei troppo filiformi sortilegi che affollavano il suo precedente romanzo. È semplice stavolta la vicenda, almeno quanto ai << fatti », e riducibile, se si vuole - ma è normale per l'arte della Mo- . . rante - a un corretto meccanismo psicoanalitico. Il protagonista Arturo Gera:f', centro e risonanza degli avvenimenti, passa da un'esistenza fantasticamente prin1itiva e selvaggia in una Procida dagli aspetti a tratti addirittura on1erici, e nella quale l'unica realtà umana è data dalle rare e fugaci apparizioni di suo padre \\Tilhelm, ai suoi occhi realtà non meno mitologica dello scenario su cui agisce, aìla lenta, progressiva scoperta del dolore, della donna, del mondo. Una giovane moglie porta con sé da uno dei suoi tanti viaggi Wilhelm Gerace. Ed è nei confronti di questa donna che soprattutto si misura il divenire psicologico di Arturo: da un'avversione sorda, terribile, per chi sembra portargli via quei pochi cenni di benevolenza che il dio suo padre di tanto in tanto gli elargiva, a un amor~ altrettanto cupo, disperato, violento a tr:itti, di un femmineo isterismo, che non sopporta nen1n1eno di rivelarsi a se stesso. E quando finalmente la sua consapevolezza non può più essere ingannata, un'altra scoperta, che sconvolge in modo definitivo il mondo-isola di Arturo: il bello, biondo teutone Wilhelm Gerac·.:, agli occhi incantati di suo figlio più che An1miraglio, Pirata, Sultano, Estero e dio insieme, non è che un povero, respinto e famelico cultore dell'amor greco, che da anni trascinava la sua pena a pochi chilometri dalla Procida di Ar-turo. Dopo una partenza, che è una fuga, Arturo può sollevare il volto che aveva nascosto << sul braccio, contro lo schienale >>. << L'isola non si vedeva più >>. Si sa che per un'arte come quella della Morante i << fatti » sono soltanto l'abbrivo della narrazione. Impareggiabile autrice di trasposizioni letterarie, per cui sulla sua pagina le << cose >> diventano naturalmente << parole », la Morante è l'artista degli echi, delle risonanze dei fatti. Ed anche qui riesce estremamente difficile dar conto di cosa effettivamente il romanzo sia, al di fuori delle sue suggestioni e atmosfere, di quegli aggrovigliati stati d'animo, fra i quali, con disinvolta dimestichezza, essa è di casa. Ma c'è da dire che nel precedente romanzo la Morante non disdegnava dei ritrovati un po' facili per creare le sue trasognate atmosfere; ed erano quelle civette, quei teschi, quei gufi, di cui più di un critico lamentò la fantasiosa presenza. Ancora n'è rimasto qualcuno qu~,, nella Procida di Arturo. Ma, per quanto l'autrice possa negarlo, la solare realtà della Procida geografica ha avuto il potere d'illuminare e di rendere piacevolmente domestici anche i più ortodossi fra quei campioni di nordica e romantica tregenda, a metà tra surreali ed esorcistici. E perfino quel << quadrupede bianchissimo, grosso all'incirca come un tonno mezzano col capo armato di corna ricurve che parevano spicchi di luna>> (p. 23), che è l'apparizione più irreale di quest'Isola, lungi dal far paura, ha la affettuosa confidenzialità di qualche suo confratello dipinto da Chagall. Ed anche nel linguaggio la meridionale Bibloteca Gino Bianco [124]
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