punto della fatale questione del mondo contemporaneo: che in una stessa nazione un cittadino debba essere ricchissimo e, molte volte, per la legge dell'ipse dixit, e un altro poverissimo per la fatalità della medesima legge; e il primo debba sciupare milioni in spese voluttuarie e il secondo stare lì, inebetito, senza una lira, dico una sola lira, per sfamare il figliolo di un anno, magro come un cerino e con gli occhi sbarrati, quasi già sapesse come va questa vita di abissali egoismi. In nome di tutto ciò il comunismo dovrebbe combattere e, quando lo farà, sotto la sua bandiera saremo in molti a sacrificarci. Lo sappiano una volta e per sempre i falsi comunisti, i teorici e gli scientifici, i gesuiti del marxismo che dietro queste pene del genere umano mascherano una smodata brama di potere assoluto. Fin da allora sapevo che il grande affare si sarebbe concluso con la dittatura del proletariato al potere. Il che non era vero perché si sarebbe trattato di una dittatura nella logica delle cose, tempor,anea, per riportare la società al Bene definitivo, al pane e al lavoro, cioè alla vita e alla gioia e da questi due semi sarebbe spuntato robusto e rigoglioso l'albero della libertà. Queste in breve e dette umilmente le ragioni della mia partecipazione attiva ;illa battaglia comunista in Italia. Amici erano andati e tornati dalla Russia e dai Paesi satelliti e mi avevano raccontato meraviglie: il feudalesimo era stato distruttç>; non c'erano disoccupati; non più ciechi diritti di nascita e di eredità. La vita in quei Paesi aveva sì subìto un forte arresto nella varietà, m,a il tono generale saliva e, tra breve, in quei Paesi si sarebbe goduto dell'unica vera libertà, la libertà piena, senza aggettivi ma anche senz,afame. Qualche altro amico aveva trovato da ridire su quei Paesi felici, ma era rimasto inascoltato, messo da parte; come Vittorini, ad esempio. Lo conobbi a P,alermo il giorno stesso in cui mi parlò delle sue impressioni su un Paese satéllite. Disse a me e ad un amico lombardo quanto aveva visto. Lo considerammo un pazzo, un debole, uno scrittore che era passato dall';iltra parte o dalla sua sola parte personale. Si era a questo punto quando nell'incipiente autunno del 1954 fui invitato ad andare in Cina in compagnia di illustri studiosi itaHanì. In anni precedenti avevo rifiutato, senza un preciso perché, ma molte volte per ragioni di lavoro, altri inviti. dalla Polonia, dalla Romania, dalla Russi~ e persino dall'Ungheria. Ma un viaggio in Cina era un'offerta troppo ,bella. [15] BibliotecaGino Bianco
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