Nord e Sud - anno III - n. 19 - giugno 1956

teorici, ignorando con disinvoltura la dottrina che per un quindicennio si è occupata della piccola impresa e in particolare di quella artigiana. L'antipatia per tale dottrina giunge al punto da far trascurare la distinzione ormai pacifica tra i concetti di azienda e di impresa che nel disegno Colitto, come vacche nella notte, perdono il colore caratteristico di ciascuno. Ma se il disegno Colitto non definisce l'impresa artigiana, quello Moro la definisce in modo errato. L'abbandono del criterio di prevalenza del lavoro dell'imprenditore e dei suoi familiari nella attività economica di produzione non è stato compensato da più sicuro concetto; anzi ne è nata una definizione caotica, chiara lì soltanto dove è ammesso, da parte dell'impresa artigiana, l'impiego senza limite di macchinari, fonti di energia e in genere di tutti i sussidi della tecnica più idonei agli scopi produttivi. Malgrado dunque l'impiego di costosissimi impianti una impresa potrà sempre rimanere artigiana e a nulla sarà valsa la chiara tesi, dal Bigiavi vigorosamente affermata, secondo la quale il lavoro del piccolo imprenditore deve prevalere non solo su quello dei dipendenti, ma anche sul capitale investito. Di tale tesi prese atto il legislatore e rimase persuasa la quasi totalità degli studiosi di diritto commerciale (tra gli altri: Valeri, Asquini, La Via, De Martini, Franceschelli, Salandra, De Gregorio, Ferri Ferrarini, Messineo, Malinvemi, Graziani, Trabucchi, Ferrara, Ghidini). Nella definizione Moro si torna al criterio empirico e rigido del numero dei dipendenti. Ma poi si tenta di eliminarne gli inconvenienti di maggiore evidenza facendo salve le imprese che svolgono la loro attività nel settore dei mestieri artistici o dell'abbigliamento su misura. Si escludono dall'artigianato le imprese che si dedicano ad una produzione « esclusivamente in serie »; si eccettuano da tale esclusione le imprese che, impiegando normalmente non più di cinque dipendenti, oltre i familiari e gli apprendisti, pur producendo in serie, svolgono determinate attività « non aventi precisa caratteristica industriale ». Poichè, naturalmente, è risultato chiaro al senatore Moro e ai suoi colleghi del Senato di non essere stati chiari, di meglio non han trovato che demandare al Consiglio dei l\1inistri la preparazione di elenchi di imprese che possano essere considerate artigiane pur avendo un numero di dipendenti superiore a dieci e pur producendo in serie, ma senza caratteristica industriale. L'artigiaaato in tal modo non avrà più limiti e sarà ben difficile provveder.e, come vuole l'art. 45 della Costituzione, al suo sviluppo e alla sua tutela. Si è voluto col disegno di legge Moro ingrossare le fila di una categoria che potrebbe domani, se accortamente organizzata da associazioni parapolitiche, dare frutti elettorali copiosi ai partiti di massa? Ce lo fa sospettare la presenza delle superflue commissioni comunali previste nel disegno. Tali [51] Bibloteca Gino Bianco

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