si poteva dir nulla alla coscienza: << come si sia, quando si è adempiuto a' nostri doveri, la sventura può colpirci, non avvilirci, nè turbarci » (p. 86). La crisi fu certamente sconvolgente: basta leggere la lettera al De Meis, scritta da Napoli nell'aprile 1849, l'ultima che ci rimane del periodo immediatamente precedente la partenza per Cosenza, per rendersene conto. È ben vero che essa fu scritta per ricordarsi all'amico che aveva appena perduto il padre: ma il tono non vuole essere affatto quella di una << consolatoria >> ( << Da banda le consolazioni. Chi non sa consolare se stesso, non riceverà consolazione da altri »): è anzi il tono di chi è egli stesso smarrito e si guarda intorno e non trova altro che la amicizia, in cui credere e rifugiarsi: << la amicizia è un grande conforto... La nostra amicizia sarà eterna » (p. 70). Questo dell'amicizia è come il tema ossessionante di tutte le lettere dalla Calabria (come lo sarà di quelle da Torino e da Zurigo): << io vivo di memorie, io vivo di voi» (p. 74); << perdonatemi, amici miei: scrivere a voi è un manifestare i pensieri che mi assediano di continuo» (p. 77); <<••• e solo veggo qualche raggio di luce, quando col pensiero mi riconduco tra voi » (p. 81). E nella nuova terribile situazione ( << strana crudeltà della condizione umana: il nostro cuore è capace di un affetto infinito, e la natura sovente gli prepara un dolore proporzionato >>, p. 131), il ricordo degli amici si mescola alla struggente nostalgia della famiglia, che è sopratutto desiderio idillico della quiete domestica, delle care consuetudini e dei tenaci affetti: un mondo nuovo per Iui, ed una pena indicibile (se ne legga il documento nella bellissima lettera a N. Mazza e L. Menichini, del d1:- cembre 1849, pp. 77-78). Cosenza poteva anche essergli apparsa tranquillante a tutta prima, con le sue chine dolci e verdeggianti sovrastate da monti aridi su cui pareva che le nubi si posassero lievemente piuttosto che addensarsi: << io sono non che rassegnato, quasi contento » (p. 72). Ed aveva anzi potuto sperare che gli si risvegliassero il cuore e la fantasia: ma la lunga solitudine doveva aver ragione di tali speranze: << talora giaccio in una malinconia insanabile, quando veggo intorno a me il nulla, e me nulla col tutto ... Tengo nella mente come qualcosa di piombo che me la rende ottusa e tarda ... » (p. 95). Pure la solitudine lo aiutava a riflettere sulle vicende dell'esistenza e quasi a conoscere meglio se stesso, a rendersi meglio conto della sua natura e dei suoi bisogni: << più giovane io bastava a me stesso: ora ho bisogno del mondo, di aria libera, di amici per potere applicare » (p. 11O). E il motivo tornerà qualche anno dopo, nella prima lettera al Montanelli, del 2 aprile 1855: << cominciato ad insegnare a diciotto anni, giovane tra giovani, mi parea sempre di essere della stessa loro età, invecchiavo e non me ne accorgevo, il mondo m'era rimasto estraneo ... » (p. 213). Erano stati dunque, gli anni fino al '48 in qualche modo gli anni della lenta preparazione: la vigorosa personalità intellettuale e morale dell'uomo veniva maturando, sia pure in un ambiente ed in una cerchia di problemi che erano per certi versi poco adatti. La crisi del '48 per paradossale che ciò possa sembrare, fu al De Sanctis benefica, poichè essa gli mostrò nei fatti quel tanto di artefatto e di poco naturale che era stato nella sua vita [115] .. Bibloteca Gino Bianco
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