Nord e Sud - anno III - n. 14 - gennaio 1956

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Rivista mensile diretta da Francesco Compagna Bibl" teca Gino Bianco

SOMMARIO Editoriale [ 3] -- Carlo Turco I « doppioni » [7] Gennaro Sasso Aspetti della storiografia filosofica marxista in Jta/,ia [18] N.d.R. Silvestro Delli Veneri Augusto Petrone Francesco Nitti Salvatore Rea GIORNAT,E A PIÙ VOCI Malgrado la :scissione [ 47] BasilioCiucci, imprenditore« normale>> [48] LA noia obbligatoria [51] Matera '55: attrezzature cittadine e crisi edilizia [55] La D.C. a Napoli [62] RILIEVI ECONOMICI [ 68] DOCUMENTIE INCHIESTE Gabriele Gaetani d'Aragona Esodo rurale [76] Federico Orlando Esodo dal Molise [87] IN CORSIVO [ 107] CRONACHE MEMORIE Antonio Palermo La Ca/,abriadi Alvaro [110] RECENSIONI [124] \ Una copia L. 300 • Estero L. 360 DffiEZIONE E REDAZIONE: Abbonamenti 1 Italia annuale L. 3.300 semestl'ale L. 1. 700 Estero annuale L. 4.000 semestrale L. 2.200 Nord • Sud e Nuova Antologia Italia annuale L. S.500 Estero » L. 7.500 Effettuare i versamenti aul C. C.P. n. 3/34552 intestato a Arnoldo Hondadod Editore • Milano Biblioteca Gino Bianco Napoli -· Via Carducci, 19 - Telefono 62.918 DISTRIBUZIONE E ABBONAMENTI Amministrazione Rivista Nord e Sud Milano - Via Bianca di Savoia, 20 Tel. 35.12. 71 '

/ I Editoriale I •. Da molti segni, ormai, e sempre più eloquenti, si avverte che in Italia l'atmosfera politica si sta modificando. Certo non è più l'atmos-fera grave che. nel periodo fra il 1950 e il 1953 incombeva sul Paese, carica di minacce dirette al sovvertimento dello schieramento democratico ita/,iano, intese a far valere soluzioni reazionarie. In quel periodo, malgrado De Gasperi, molte manifestazioni, quasi tutte, sul piano dei partiti, della stampa, della opinione pubblica in genere, si orientavano esplicitamente verso l'estrema destra: il periodo culminò nel tentativo della << operazione Sturzo » per le elezioni amministrative romane, mentre i Gedda e i Lauro occupavano il primo piano della scena politica. Se in quel periodo nasceva un giornale, il suo indirizzo era clerico-fascista; se maturava una iniziativa per promuovere al,leanze e nuovi schieramenti, era nel senso delle cosiddette « f orze nazionali», per agganciare ad esse la D. C.; se tra le righe dei giornali «indipendenti>> e anche « ufficiosi» aleggiava qualcosa che somigliasse a una indicazione politica diversa dal più cauto centrismo, era per caldeg-. giare aperture a destra, sia pur contrabbandate come applicazioni della f ormula « caso per caso». Si guardi ora al,le manifestazi(?ni che, sul piano della stampa, dei partiti, dell'opinione pubblica in genere, si sono avute negli ultimi mesi: è nato L'Espresso, sta per nascere un quotidiano a Milano di centro-sinistra, :.ri parla di taluni settimana/,i locali dello stesso indirizzo; è sorta una i11,iziativa << radicale>>per promuovere uno schieramento unitario della sinistra democratica; non si parla più di aperture a destra ed è stata liquidata la formula siciliana dell'alleanza fra democratici e monarchici, non solo al governo della Regione, ma anche al Comune di Palermo. [3] Biblioteca Gino Bianco

~ A questopunto, però, mentre sembrache si possaaprire una congiuntura propiziaa una ripresademocratica,si deve dire che le posizioni di centrosinistra, come i confini stessi della sinistra democratica rispetto alla sinistra tota/,itaria, vengono ancora male interpretati, sia per tendenziosità di osservatori diffidenti, sia per troppo zelo di amici improvvisati, sia per accorgimenti di avversariallarmati.E perciò è necessariofissare fin da ora cosa intendiamo noi per indirizzo politico di. centro-sinistra e per qualificazione della sinistra democratica: consapevoli che centro, sinistra, destra, .sono anche espressioni convenzionali; e che, quatJdo uomini di centro, liberali storicisti crociani, c·ome noi, si qualificano sinistra democratica, ciò avviene in rapporto ad una determinata situazione storico-politica. Ma ciò . .impone appunto, in questa determinata situazione, il ribadimento delle .frontiere che ci separano à jamais dalla.sinistra totalitaria, e anche delle valutazioni che ci distinguono da tutte le posizioni classiste: stornando .subito taluni equivoci che osservatori diffidenti,. amici improvvisati avversari a/,larmati sembra110 concordemente interessati ad accreditare. Questa rivista ha rappresentato pure 1,1,nsoforzo di ripensamento delle esperienze che la sinistra democratica ha vissuto nel Mezzogiorno. Essa ha posto fin dagli inizi un punto fermo, a chiarimento della stessa qualifica di sinistra democratica: e cioè che questa si definisce in tal modo proprio perchè si ritiene in nessun caso assorbibile nei fronti popolari a direzione comunista, ed assolutamente insensibile a tutte le lusinghe della sinistra totalitaria: in quanto, cioè, considera comunisti e affini allo stesso modo in cui essi sono considerati dal liberalismo europeo, dalla socialdemocrazia europea, dalle altre forze della democrazia europea; perchè infine ~ last but not least - essa è tenacemente europeista. Quando si attenuassero l'anticomunismo e l'europeismo, la sinistra democratica cesserebbe di essere «democratica», prima o poi, g~aviterebbe .verso il fronte popolare, prima o poi si confonderebbe con la sinistra totalitaria. E' questo un pericolo, però, che non si presenta affatto: da certe infezioni i quadri della sinistrademocraticaitaliana, f acci,anocapo a La Malf a o a Saragat, a Cattani o a Valiani, sono adeguatamente vaccinati. Ci sono poi certe malattie senili che non dovrebbero attingere una giovane forza democratica in un Paese moderno, sia pure esso l'Italia con i suoi problemi e le sue tradizioni: malattie senili, più che infantili, della democrazia sono il giacobinismo e l'anticlericalismo. Giacobinismo nel sen- [4] Biblioteca Gino Bianco

so della critica crociana, nel senso di una certa tradizione retorica della democrazia italiana, nel senso della incapacità a porsi concretamente i problemi politici e dell'inclinazione ad agitare semplicisticamente soluzioni solo formalmente << di sinistra». Anticlericalismo nel senso della incapacità di intendere modernamente i rapporti fra laici e cattolici: sarebbe grave iattura se oggi, in Europa come in Jta/,ia, questi rapporti si avviassero sul piano delle pressioni clericali e reazioni anticlericali, o viceversa ( la Frrancia - ·e l'Europa stessa - sta pagando a caro prezzo la frattura che, dalla legge Barengé, sulle scuole private, in poi, si è stabilita fra cattolici e laici). Riteniamo che, dopo esperienze come quelle attraverso cui è passata la democrazia ita/,iana e dopo la revisione culturale che quelle esperienze hanno provocato, giacobinismo e anticlericalismo sono le insegne logore di certo « indipendentismo di sinistra>>che i comunisti hanno già catturato e screditato da tempo; ma non possono che generare un moto di fastidio in ambi,enti responsabili della sinistra democratica. Del resto c'è un preciso punto di riferimento su cui i collaboratori di questa rivista sentono il dovere di -richiamare l'attenzione: .il Partito Repubblicano Italiano. Si potrà ironizzare quanto si vuole sulle dimensioni numeriche di questo partito; si potrà ritenere che le sue capacità di espandersi siano limitate dalla sua stessa concentrazione in poche regioni.;·. '!Ì potrà dissentire da questo o da quell'atteggiamento di questo o quel suo esponente, anche da tutto l'atteggianiento di tutto il partito: ma non si potrà negare che il P.R.l., i suoi parlamentari, il suo giornale hanno rappresentato in momenti difficili una delle poche manifestazioni di coerenza e di responsabilità politica durante questi dieci anni, pagando· sempre di persona e, se così si può dire, << di partito·>>. Ci sia consentito allora di affermare che il P.R.I. rappresenta una indicazione di cui tutte le a/,tre forze della sinistra democratica devono tener conto, e noi ne teniamo conto. E con tanta maggior forza facciamo valere questa- indicazione nei riguardi di coloro che, con cattiva ironia, hanno salutato la nascita del Partito Radicale ricordando il Partito di Azione. Se il Partito d'azione fa parte dell'esperienza politica della sinistra democratica italiana, ne fa parte anche il Partito Repubblicano, che in . certo senso è venuto dopo e costituisce quindi un antecedente più immediato, un'indicazione più recente, l'altro termine di una intesa che opportunamente la iniziativa <<radicale»deve promuovere, rivolgendosi anche [5] Biblioteca ino Bianco \

. ai sardisti, ai comunitari, ai gruppi che confluirono in Unità Popolare e, natural.mente,alla socialdemocrazia.Della quale è oggi molto facile parlar male: ma noi non possiamo dimenticare i meriti degli uomini che nel .1947 ebbero il coraggio di creare le condizio·ni che misero i comunisti fuori del governo; e che~come ha scritto Valiani sul Mondo, riferendosi a Tremelloni sul piano tecnico e a Saragat sul piano politico, « hanno avuto una parte determinante nell'impostazione delle riforme economichesociali >>. Del resto - e lo si lasci dire a noi, radicali europeisti, .- se Mendès per certe battaglie non può prescindere da Mollet, e viceversa, La Ma/fa e Pannunzio non possono prescindere da Saragat, ·e viceversa. Sappiamo bene che durante que$ti dieci anni si sono 11erificatdi issensi e accumulati risentimenti. Ma se è vero che nel Paesesta maturando una atmosfera propizia al « recuperodemocratico», non è questa l'ora di risentimenti; e meno che mai è l'ora di sfoderare vecchi e nuovi nazionalismi di partito. [6] Biblioteca Gino Bianco

I "doppioni " di Carlo Torco • Già è stato rilevato, sulle pagine di questa rivista, che ogni ulteriore indugio nel dare l'abbrivio ad una politica di vera e propria industrializzazione del Mezzogiorno - secondo certe impostazioni di m.assima che non si è mancato di additare - non farà che aggravare la insufficienza dell' opera di sola pre-industrializzazione sin qui svolta: insufficienza irriducibile fin tanto che le strutture predisposte non sar,anno convenientemente utilizzate. Le più recenti notizie provenienti dal Mezzogiorno circa il ristagno delle richieste di credito, le avvisaglie di una recrudescenza della disoccupazione, i sintomi di contrazione in alcuni consumi di prima necessità, confermano la fondatezza dei motivi e dei timori onde scaturiva quel rilievo. Per converso, sembra che sempre nuove preoccupazioni ed ulteriori incertezze concorrano ad accrescere quegli indugi che dovrebbero essere eliminati: il che potrebbe anche essere comprensibile - entro certi limiti - nel momento in cui il Paese dovrebbe accingersi alla prova più severa ed impegnativa, purchè si sapessero prestamente accantonare i dubbì e le esitazioni meno giustificate. Tra le preoccupazioni che più di frequente abbiamo sentito avanzare nel corso degli ultimi mesi, meritano particolare rilievo - sia per l'insistenza con cui sono state ribadite, sia per la fonte da cui promanano, sia, più ancor,a, per le ulteriori perplessità che potrebbero suscitare circa i provvedimenti da adottare - le preoccupazioni attinenti ad una asserita possibilità di dar luogo, nel processo di industrializzazione del Mezzogiorno, ad inutili, ed anzi, dannosi << doppioni » di industrie. Rispondere al primo, immediato quesito che si pone a chi voglia esaminare la consistenza e i fondamenti del « pericolo dei doppioni » - cioè a dire, cosa abbia ad intendersi in questo caso per << doppione » - non è [7] Biblioteca Gino Bianco

agevole: per il semplice motivo che una chiara definizione dei «doppioni» . non è stata •enunciata da coloro che pur _ne hanno sollevato il problema. , Gioverà pertanto riassumere in breve il pensiero delle categorie, o, per meglio dire, di alcuni espoilenti delle categorie industriali settentrionali che · hanno espresso la loro apprensione in merito. , Il ragioname~to è il seguente. Ammessa oramai la necessità e l'utilità della industrializzazione del Mezzogiorno, e ammesso che per conseguire tale obiettivo non è possibile rinunciare ad un certo intervento statale, di-- retto a porre le fondamenta necessarie allo sviluppo dell'industria, si tratterebbe di int.endersi sùlle modalità e sui limiti di quell'intervento. E' opinione diffusa che all'uopo occorra potenziare la << politica degli incentivi » : ma sarebbe necessario guardarsi dalle deformazioni inevitabilmente congiunte ad una siffatta politica. In altre parole, dovendosi trasgredire ai principi informatori di una politica economica <<neutrale», la politica del laisserfaire, laisserpasser, bisognerebbe evitare di spingere gli incentivi tanto innanzi da sottrarre l'investimento al suo naturale criterio direttivo, cioè alla reale convenienza economica. Sarebbe un errore, pertanto, stimolare 11el Mezzogiorno d'Italia il formarsi di una completa g~mma di attività produttive con l'aiuto di provvedimenti preferenziali: ciò infatti pregiudicherebbe il livello della produttività considerata nel suo complesso e, attravers~ ' un immancabile aumento di costi, comprometterebbe il miglioramentQ- del. tenore di vita, la s~bilità· dell'apparato industriale, l'efficienza di tutta l'in- . telaiatura economica del Paese. Bisognerebbe insomma considerare (e qui è il fulcr9 di tutto il ragionamento) che in Italia esistono non soltanto settori pro(luttivi che già soddisfano la domanda del mercato, m.a ben anche numerose industrie che sarebbero in grado di soddisfare una domanda più larga, una volta perfezionate le proprie attrezzature, o addirittur~ senza ,, bisogno di perfezionamenti di sorta (sono, questi ultimi, rispettivamente, il caso delle imprese che non hanno completato rammodernamento degli impianti, e il caso delle aziende che non impiegano nella misura ottima i propri impianti). Che bisogno ci sarebbe di creare nuove unità, quando basterebbe ridimensionare quelle esistenti ? Che giovamento potrebbe venire all'economia nazionale, se, grazie ai favori dello Stato, si moltiplicassero dei «doppioni» in gr,ado di esercitare un'accanita concorrenza perturbatrice di strutture di per sè vitali ? [8] Biblioteca Gino Bianco

Da tanto consegue che sarebbero da ritenersi <<doppioni » - e per ciò stesso elementi dannosi - tutte quelle eventuali nuove unità industriali che si inserissero in una attività produttiva la quale: o è già assolta - esaurien-· temente o più che esaurientemente - dall'industria nel~ sua consistenza attuale; o 'potrebbe esserlo previa <<valorizzazione» di quest'industria. Se ne· deduce chiaramente, inoltre, come la questione dei << doppioni » costituisca una delle principali cause di opposizione alla « politica degli incentivi » (perquanto non sempre gli oppositori di quest'ultima abbiano esplicitamente· accennato a tale questione): e quindi i due problemi vanno consider~ti • congiuntamente. Vogliamo ancora riportare la tesi che, conseguenzialmente all'atteggiamento mentale ora descritto, viene propugnata quale alternativa alla « politica degli inc·entivi >>. Secondo questa tesi, l'industrializzazione meridionaleandrebbe perseguita - anzitutto e principalmente - mediante una seriedi provvedimenti atti ad accelerare il processo di aggiornamento tecnico· delle industrie esistenti nel Sud: ciò che, mentre da un lato consentirebbeun allargamento dei mercati di sbocco alla produziòne delle industrie set-· tentrionali oggi non adeguatamente sviluppate per la ristrettezza di questi sbocchi, dall'altro lato provocherebbe nel Sud uno spontaneo insediamento di nuove im.prese, regolato dalla naturale convenienza economica. (E forse· questa è appunto tutta la sostanza di quella che, senza i chiarimenti chepur sarebbero stati necessari, fu definita come la << politica dell'accelerato-- re »). Dal canto su.olo Stato, oltre a praticare tutte le agevolazioni che faci-- litassero e sostenessero tale spontaneo sviluppo, di null'altro dovrebbe preoc~ cuparsi se non di proseguire la costruzione di strade, canali di irrigazione,, scuole, centri di cultura e di progresso, ecc.: adempiendo cioè, grosso modo~ alle sue « tradizionali » funzioni pubbliche. In tal modo, si sostiene, l'industrializzazione verrebbe a determinarsi nei luoghi, nei tempi e nei modi più_ · opportuni, senza sprechi di capitali, senza dissipazione di energie, senza. distorsioni di sorta dal corso naturale del progresso economico. Indubbiamente, l'opinione di coloro che si oppongono alla <<politicadegli incentivi» ed ai <<doppioni», avvalendosi d'una certa logica coerenza nel co11:netterealcuni principi propri all'economia di mercato con alcu- [9] Biblioteca Gino Bianco

, .ne indiscutibili verità di fatto, non manca d'un no~evole potere suggestivo. Tuttavia, per valutare in quale misura tale potere suggestivo si sorregga su .solide fondamenta, e quanto esso debba ad U.f\a 1nera appariscenza formale, bisognerà rivolgere l'attenzione critica alle premesse implicite da cui quel pensiero trae le mosse. E innanzi tutto sarà opportuno prospettare •le estreme conseguenze cui addurrebbe una politica propulsiva che non fosse quella degli << incep.tivi >> e si preoccup,asse di escludere il fenomeno dei « doppioni»: conseguenze che gli avversari degli «incentivi», presumibilmente, debbono essersi ben prospettate; ma che - con un riserbo, quanto meno, strano - essi hanno mancato di rendere esplicite. Evitare forme di «duplicazione», nei settori la cui produzione è o comunque sarebbe in grado di soddisfare un'eccresciuta domanda del mercato meridionale, significherebbe evitare, per un periodo di tempo più o meno lungo, la formazione, tra le altre, di quelle industrie che si dedicano alla produzione di beni strumentali. Non è un mistero, infatti, che proprio i rami del settore mecCianico impegnati in questo genere di produzione .sono quelli che presentano le caratteristiche ritenute, come abbiamo visto, coessenziali al manifestarsi dei << doppioni » : vale a dire l'esuberanza, effettiva o potenziale, della cap.acitàproduttiva (si tratta di una situazione~periodicamente riaffermata dagli << Annuari>> della Confindustria). Ed altrettanto noto è il fatto che queste industrie sono localizzate nelle regioni setten- . trionali. « L'industria italiana alla metà del secolo XX», pubblicazione curata appunto dalla Confederazione Generale dell'Industria Italiana, dichiara apertamente (p. 110) che: «Mentre una forte concentrazione nell'Italia del nord si verifica per le industrie metallurgiche, meccaniche, tessili e chimiche, per alcuni settori (abbigliamento, costruzioni edilizie, materiali da co- .struzione, alimentare, legno) tale fenomeno si manifes~ in forma più atte- .nuata, e per qualche altro ramo (industrie estrattive) non si manifesta affatto». Aggiungasi, inoltre, che le indiscrezioni trapelate sulla .tanto nota quanto riservata indagine recentementè condotta dal Ministero dell'Indu- ~ttia, rivelerebbero come le categorie industriali non prevedano, allo stato :attuale delle cose, altri investimenti ~!l'infuori di quelli di carattere preminentemente tecnologico, escludendo l'insediamento di nuove imprese. ·· Ne consegue immediatamente che sarebbe impossibile iniziare un pro1<:essodi trasformazione delle strutture distributive dell'attività industriale, aiicorchè sia possibile potenziarne le strutture produttive. Conclusione la cui [IOJ Biblioteca Gino Bianco

gravità non può sfuggire a tutti quanti intendono - giustamente intendono - il problem.a dell'industrializzazione meridionale nei suoi termini qualitativi, di tipologia compositiva, più ancora che nei suoi termini .quan- • • • t1tat1v1. Non bisogna dimenticare che la più recente teoria sullo sviluppo economico dei paesi arretrati considera realmente « industrializzate » quelle regioni che indirizz~no una considerevole quota della propria attività produttiva alla creazione dei beni capitali: quei beni che tanta parte hanno nella reintegrazione dell'attrezzatura utilizzata e nella for~zione di nuova attrezzatura, dell'investimento netto, del capitale nazionale onde scaturisce il reddito. Scriveva l'anno scorso il prof. P. S,araceno, in << Lo sviluppo economico dei paesi sovrapopolati >> (Ed. Studium, Roma 1954, p. 122), che « allo stato attuale della tecnica, possiamo qualificare paesi industrializzati solo quelli che hanno la capacità e la possibilità di produrre gli strumenti del loro lavoro ...; sono cioè i paesi che posseggono le industrie meccanica, siderurgica e chimica e non certo quelli che oltre a sfruttare le proprie risorse • agricole e minerarie, si limitano a produrre beni di consumo mediante impiego di quelle macchine che i paesi industrializzati riterranno di cedere loro ». Soggiungendo poi che « ancor più in un futuro molto prossimo, le industrie di beni di consumo, ormai altamente meccanizzate, non potranno dare che un contributo molto piccolo a quell'accrescimento del redditò e dell'impiego al quale tende ogni paese èhe voglia progredire>>. Incrementare dunque lo sviluppo industriale secondo l'attuale localizzazione dei settori produttivi, contribuirebbe, sì, a migliorare in senso assoluto la posizione economie.a del Mezzogiorno: ma non potrebbe risolvere le strozzature da cui è affetta. Uno sviluppo in tal senso non potrebbe colmare la frattura esistente tra le due parti del Paese. Bisogna considerare, sempre per dirla con le parole del prof. S,araceno (p. 121), che una situazione in cui « i paesi sviluppati mantengano dei sistemi produttivi completi, mentre il resto del mondo limita la sua attività produttiva alla fabbricazione dei beni di consumo rinunciando alla produzione di beni strumentali, lascerebbe sopravvivere una parte dello squilibrio attuale, una parte che tende a divenire sempre più grande in quanto il progresso economico è, tutto sommato, niente altro che un processo di spostamento del reddito e della occupazione dalle industrie di beni di consumo, che si meccanizzano ogni giorno di I più, in favore delle industrie che producono gli strumenti necessari per una [11] Biblioteca Gino Bianco

.... I tale meccanizzazione >>. Parole che a ben maggior ragione possono farsi valere per la situazione interna al nostro paese: le qupli significano che, se l'industrializzazione astraesse da un mutamento delle odierne forme di divisione del lavoro tra Nord e Sud, di essa verrebbero a giovarsi in più larg,a misura proprio le regioni più progredite. In altri termini, la posizione economica del Mezzogiorno peggiorereb1 be in senso relativo, e quindi la frattura di cui dicevamo diverrebbe sempre più profonda. Orbene: anche a voler prescindere da qualsiasi motivo di carattere politico-sociale, esiste una giustificazione economica obiettiva per cui una siffatta divisione del lavoro abbia a permanere itl saecula saeculorum, nel nostro Piaese? O, 'in altri termini: la vigente distribuzione delle attività produttive tra regioni settentrionali e regioni meridionali, risponde a motivi _economici naturali, necessari, permarienti, e quindi, in quanto tali, ineluttabili? In realtà motivi economici di tal fatta, non che esistere oggi, diremmo non siano mai esistiti. Basti considerare la visione di un Mezzogiorno pre- . valentemente dedito all'agricoltura: chi, di grazia, potrebbe onestamente asserire che la più gran parte della terra meridionale si presti ad un~ prospera agricoltura? D'altronde esiste un certo numero di industrie produttive di beni strumentali localizzate al Nord che, approvvigion,andosi all'estero, collocano la produzione sui mercati meridionali: in nome di quali principì dovrebbe negarsi ad eventuali nuove industrie di produrre nel Mezzogior- · no gli strumenti del lavo~o, agricolo ed industriale, del Mezzogiorno? Od anche di cominciare a dar vita ad una corrente di scambi in direzione opposta all'usuale? Con_tutta la buona volontà non potremmo trovare· una sufficiente ragione economica - che non sia contingente e pertanto reversibile - alla prospettiva che le att~li industrie meridionali, e meno ancora quelle che nel Meridione potranno sorgere in prosieguo di tempo, debbano ricorrere per qualsiasi fornitura alle industrie del Nord: come non ne potremmo trovare alla prospettiva che le industrie del Nord non debbano attrezzarsi, per certi prod.otti, fornendosi presso nuove industrie lo~lizzate nel Mezzogiorno. Le contingenti motivazioni economiche dell'odierna divisione del lavoro tra Nord e Sud affondano le loro radici nella storia del nostro Paese: una I storia che ha visto realizzata l'unità delle frontiere, forse qu,alche altra unità, ma non certo l'ufiltà economica. Poichè infatti la politica economica per- • seguita da oltre mezzo secolo a qu~sta parte ha dato luogo - nè mette con- [12] Biblipteca Gino Bianco

' to alcuno in questa sede discutere dell' « intenzionalità » o della « preterintenzionalità» dei suoi effetti - all'instaurazione di rapporti economici tra Nord e Sud che sono assai prossimi ai tipici rapporti esistenti tra paese colonizzatore e paese colonizzato: per cui il primo, cioè, esercita una gamma completa di attività produttive; e il secondo si limita alle attività primarie, od al più, com'è nel caso del Mezzogiorno, nei suoi aspetti sostanziali, ad attività secondarie di prima trasformazione. Ma se questa è la realtà della situazione attUiale, ciò non costituisce un buon motivo perchè essa realtà permanga inalterata: mentre è già di per se stes5iaun ottimo motivo perchè si tenti di trasformarla. La convenienza ad attuare una simile trasformazione è intuibile sol che si ponga mente ad una semplice, anche se brutale nella sua schiettezza, consider,azione: eh,~ un paese colonizzatore può disinteressarsi del progressivo immiserimento del paese colonizzato, potendo sempre abbandonarlo al suo destino; mentre è assai improbabile che il Nord possa mai volger le spalle al Sud, ed è anzi assai probabile che dovrebbe perpetuamente portarsi dietro l'onere della sua • • m1ser1a. Quel che conta mutare, neutr1alizzare, è la rilevante differenza tra la convenienza ad investire nelle zone sviluppate e la convenienza ad investire nelle zone arretrate. Differenza che scaturisce massimamente dalla diversa misura in cui le « economie esterne » sono realizz,abili nel Nord e nel Sud, poichè nel mondo odierno queste << economie esterne >> tendono ad esercitare una funzione sempre più rilevante di quella esercitata dalle << economie interne», nei riguardi dell'insediamento industriale. Il contributo recato alla realizzazione di tali economie dalla presenza di strade, ferrovie, disponibilità di pubblici servizi, ecc., è certamente considerevole: chi però ritenesse all'uopo esauriente l'installazione di un adeguato « capitale fisso sociale», commetterebbe un grave errore, dim·enticando l'enorme importanza del contributo recato alla realizzazione di tali economie dalla sussistenza di un ambiente fortemente e variamente industrializzato. Sicchè arriva il momento - il momento che stiamo oggi attraversando - in cui ci si trova di fronte ad un circolo vizioso, pur avendo profuso i mezzi nella creazione di quel « capitale fisso sociale »: chè, da un lato, le « economie esterne » sono determinanti per lo sviluppo industriale; d'altro canto è ben lo sviluppo in- , àustriale raggiunto ad agire in modo determinante sulla moltiplicazione [13] B"bliot ca Gino • 1anco· ' ,

' delle « economie esterne» (perchè un impianto industriale è anche una « economia esterna» rispetto ~d altri potenziali impianti industriali). Per spezzare il circolo vizioso si impone quindi l'attuazione d'una serie di provvedimenti accuratamente predisposta in modo da attenuare, nei limiti del possibile, il divario delle condizioni di partenza. Ed ovviamente, perchè questi provvedimenti abbiano carattere temporaneo, è indispensabile che stimolino direttamente la formazione di quell'a_mbiente variamente industrializzato di cui si diceva, che solo è in grado di stabilire permanenti condizioni di convenienza economica. Questo è lo scopo dei provvedimenti « di tipo inglese » : e qui è la ragione per· cui da tempo questa rivista reclama l'applicazione di questo genere di provvedimenti. In questo senso « compensativo» va interpretata una politica di incentivi; ed in questo senso, siamo lieti di constatarlo, l'ha interpretata l'ing. La Cavera al convegno C.E.P.E.S. « Le agevolazioni fiscali in favore dei nuovi impianti>>,egli osservò, <<sonoinfatti la promessa di non togliere all'imprenditore per un certo tempo una parte degli utili, se gli utili ci saranno. Esse, perciò, non riducono l'alto rischio degli investimenti in una zona depressa, perchè non riducono, a stretto rigore, i maggiori costi di impianto, di produzione e di distribuzione che si devono sopportare. In una progr,ammazione di massicci e simultanei incentivi, le agevolazioni fiscali vigenti potraru10 assumere un concreto valore di allettamento solo se altri incentivi avranno perequato, rispetto a quelli delle regioni e dei Paesi industrializzati, gli alti costi, che in una zona depressa devono sopportare gli investimenti industriali >>. E, se considerati in questo senso, non è vero che gli incentivi, come scriveva recentemente l'Arena in << Prospettive Meridionali», <<sono capaci solo di allontanare dalla formazione di quegli imprenditori capaci e di quello spirito diffuso di innovazione e di coraggio nell'affrontare i rischi, che è la parte più cospicua e meno sostituibile dell'iniziativa industriale>>. Ci si renda conto che non si può - e forse potremmo dire non si deve - chiedere ad un privato imprenditore di esercitare la propria attività nelle zone meno provvedute senza concedergli dei benefici tali da ripagarlo delle ·maggiori difficoltà cui va incontro: chè « coraggio e spirito di innovazione» non implicano affatto - nè v'è alcunchè di condannabile in questo - <<p,atriottismo e spirito di beneficenza», nell'iniziativa industriale. Noi non vogliamo affatto escludere che una politica di incentivi finisca per addurre a fenomeni di <<duplicazione>>nel senso innanzi definito: ciò [14] Biblioteca Gino Bianco

che recisamente neghiamo è che i <<doppioni>>, i quali sorgessero nel Mezzogiorno iq virtù di tale politica, abbiano a considerarsi un ~nno, dal punto di vista dei fini propostisi. I È ben vero che alcune delle industrie situate al Nord avrebbero a soffrire della concorrenza esercitata dalle nuove unità meridionali; è ben possibile che alcune tr~ esse possano venir costrette a ritirarsi dal mercato: ma ciò costituisce l'inevitabile sacrificio che le zone più dotate del Paese debbono affrontare per il bene comune, cioè a dire per la risoluzione di un problema il quale - ripetiamo - è ùn problema piuttosto di rivoluzione che non di evoluzione industriale. Se una azienda, allo scopo di migliorare per l',avven.irela propria efficienza e la propria vitalità, dovesse ricorrere ad una integrale riforma della sua strutturazione, nessuno si sognerebbe di additar~ come « sprechi >> gli oneri che a tal uopo dovesse sopportare: ma li si annovererebbe rettamente tra i costi che ogni azienda sopporta in vista dei futuri . ricavi. Così non implicherebbe «perdite» per la produttività dell'industria italiana, considerata nei suoi dinamici sviluppi, il trasferimento di alcune unità industriali da certe regioni a certe altre regioni. Mentre i <<costi » relativi a questa redistribuzione equilibratrice delle strutture produttive sopportati dalla collettività, potranno essere contenuti in limiti certamente non superiori a quelli delle vere e proprie perdite (in qwmto sacrifici non connessi ad alcuna speranza di ricavi futuri) che la collettività dovrebbe subire prima o poi, qualora tale redistribuzione non avesse luogo. Non vi sarà i11cremento della·disoccup;izione, se la disoccupazione attuale, anzichè incidere preminentemente sulle regioni più povere, sarà in parte addossata alle regioni meno disagiate: costituendo anzi questo trasferimento una delle condizioni necessarie ad una più rapida eliminazione progressiva del fenomeno. Nè infine meritano di essere presi in considerazione certi timori per un << eventuale moltiplicarsi di nuclei produttivi senza tener conto delle capacità di assorbimento del mercato » : è ovvio che, per quanto allettanti possano essere gli incentivi, nessuno intraprenderà la prcxluzione di beni destinati a rimanere invenduti. . ... Ma reputare possibile l'avviamento della industrializzazione del Mezzogiorno rifiutandone i sacrifici connessi, è manifestamente assurdo. Sin dal secondo numero di questa rivista E. Scàlfari dichiarava come occorresse «-abbassare il tenore di vita delle regioni più progredite, sottrarre capitali alle iniziative più immediatamente redditizie, stimolare investimenti che [15] Biblioteca -Gino Bianco

~olo alla lontana daranno un frutto »: niente è mutato, da allora, per cui .si debbia cambiare opinione; semmai, al contrario, sono sopravvenuti ulte- _riori ed autorevoli riconoscimenti a ribadire la validità delle nostre posizioni. Senza contare, inoltre, che eventuali maggiori difficoltà sopravvenienti :al Nord per le iniziative industriali, unitamente agli allettamenti prove- _nienti dagli incentivi predisposti nel Sud, potrebbero invogliare certe cate- _gorie imprenditoriali a rompere finalmente i lacci dell'abitudine e delle consuetudini tradizionali - sempre più vincolanti di quanto non sembri -· ' per tentare le vie del Mezzogiorno. Quelle categorie di piccoli e med1 im- _prenditori, precisamente, che a causa della configurazione oligopolistiCia o <:omunque concentrazionistica del mondo industriale in cui vivono, oggi ·vedono sovente preclusa ogni possibilità di espandere i limiti della propria attività e di salire verso i gradini superiori dei ceti sociali. E se nulla s,arebbe tanto salutare al Mezzogiorno quanto una simile iniezione di esperte ener- _gieimprenditoriali: alla nazione intera non gioverebbe poco una reviviscen- ·za di quella rotazione delle classi dirigenti che distingue gli stati sociali I .-moderni dai paesi primitivi, in cui predomini una rigida suddivisione ìn caste chiuse. E si completerebbe così quella « circolazione del lavoro », di -cui si legge anche più avanti in questa rivista, e che costituisce la vera · ,circolazione sanguigna di una società vitale. * * * In definitiva possiamo replicare agli oppositori della <<politica degli -incentivi», che questa non comporterebbe <<deformazioni>> di sòrta, a .meno che per tali non si vogliano intendere quelle deformazioni correttive necessarie a modificare l'attuale, imponente «deformazione» ch'è la so- :stanza economica della questione meridionale. Si può osservare a chi invoca una politica <<neutrale>>,la «normalità» degli sviluppi, la « natur,alez- :za » delle strade da seguire, che certe esortazioni sono comprensibili come sarebbe comprensibile l'esortazione di un baro - honni soit qui ma/, y pen- ~se - che esortasse ~l gioco « regolare » dopo essersi assicurate le carte migliori del mazzo. Si può obiettare, a chi chiede che non si distolgano le •energie dalle. direzioni indicate dalla <<convenienza economica», che que- :sta convenienza ha da esser valuta~a con criterì dinamici, prospettici, gene- _rali: non già statici, immediati, particolaristici. (16] Biblioteca Gino Bianco

Perchè, insomma, le apprensioni suscitate dall'eventualità del prodursi di « ~oppioni » nel Mezzogiorno e la conseguente ,avversione agli incentivi, per quanto si è detto non possono che fondarsi su due postulati, egualmente inaccettabili: in primo luogo, che l'attuale distribuzione delle attività produttive tra Nord e Sud risponda agli interessi economici del Paese; in secondo luogo, che la concorrenza esercitata alle industrie esistenti dall'insediamento di industrie similari nel Mezzogiorno sia da ritenersi dannosa, nel caso che il mercato sia - attualmente - saturo o facilmente satur~bile. Postulati che a meno d'esser frutto di scarsa cognizione dei termini del problema meridionale, rispecchiano certamente interessi costituiti di pprte. E se, per questo solo motivo, tali postulati sono inaccettabili, inaccettabili sono le conclusioni cui, con quanto si voglia logico rigore, essi adducono: giacchè non più di ragionamento si tratta ma di tipico sofisma. Vogliamo· quindi auguarci che nessun indugio degli organi responsabili sia dovuto al dubbio se seguire la strada degli incentivi oppure la strada degli «acceleratori», o come di~mine si voglia chiamare una politica di potenziamento dell'industria secondo le strutture attuali. Non fa mer,aviglia che gli esponenti di ~ategorie particolari intendano trarre il massimo frutto dalla politica di sviluppo del Mezzogiorno - sebbene faccia specie, certa tetragona ostinatezza nel considerare soltanto i frutti immediatamente conseguibili, e non quelli assai più duraturi conseguibili in faturo -, poichè anche la politica delle << aree depresse » sorse inizialmente sull'1:111ico metro degli immediati interessi dei paesi sviluppati:. ma da allora molte ed autorevoli voci si sono levate ,ad operare una chiara discriminazione tra benefici reali e benefici apparenti dal punto di vista degli interessi dei paesi · da sviluppare. Farebbe pertanto meraviglia che certe pretese trovassero un'eco favorevole in chi appositamente è preposto alla cura degli interessi generali. ~ Non bisogna dimenticare, in sintesi, che gli odierni sìstemi produttivi del Nord e del Sud si potrebbero assimilare a due treni in moto su binari divergepti. E se di questi treni si vuole affettivamente fare un unico convoglio, non sarà certo imprimendo loro una maggiore velocità, che si per trà conseguire l'obiettivo: sì, invece, impiegando tutte le forze nel mutare direzione ai binari. [17] Biblioteca Gino Bianco

DIECI ANNI DI CULTURA IN ITALIA I Aspetti della Storiografia filosofica marxista in Italia (1945-1955) di Gennaro Sasso / Nell'estate del 1947 la rivista Società definiva il suo programma in un lungo proemio redazionale che può esser considerato come il primo manifesto :ufficiale del nuovo marxismo italiano. Vi si sosteneva che il marxismo non doveva essere inteso come uno schema escatologico, un dogma o una religione, ma essenzialmente come « un metodo di lavoro, Utì modo di lavorare in base a certe scoperte e certi dati, e in vista di certi fini non estrinseci e tr~scendenti ai primi, ma intrinseci ad essi, e quindi alla nostra azione di uomini >>: e il limite della cultura borghese e crociana veniva colto sopra tutto nella sua dimensione astrattamente individualistica, << rinascimentale » ed « erasmian..a » ( come avrebbe detto Gramsci), nel fatto insomma che tale cultura non era stata in grado di realizzare quell'unità organica con le grandi masse popolari che sola avrebbe potuto evitare tutte le tragedie che la guerra aveva portato alla loro ultima espressione. E tuttavia, pur con queste critiche e queste forti limitazioni, la filosofia di Benedetto Croce er,a considerata dagli autori del « proemio >>come « la parte più viva della cultura italiana » : e se ad essa i nuovi marxisti rimproveravano apertamente il suo limite << umanistico-retorico-letterario>>, il divorzio tra scienza e vita, il disinteresse per le concrete ricerche delle_ scienze naturali (1), questo non escludeva che il loro giudizio sottoli- ( 1 ) Società, 1947. Su questo proemio si veda il commento di uno storico, allora non ancora convertito al marxismo: E. RAGIONIERI, Aspetti nuovi dello storicismo italiano, in Belfagor, II (1947), pp. 753-54. E sui primi numeri della rivista, si tenga anche presente il commento di B. CRocE, Nuove pagine sp_arse, Napoli, 1949, II, pp. 204-205, duro nella sostanza, n1a non privo di riconoscimenti per certi contributi (da quelli vichiani del Badaloni a quelli del Cantimori). [18] Biblioteca Gino Bianco ..

I neasse piuttosto gli aspetti positivi che quelli negativi del pensiero crociano,, e che il loro programma di lavoro si configurasse in concreto non solo come semplice ritorno alla tradizione di Marx e di Engels, di Lenin e di Stai~ ma anche come dialogo continuo con la filosofia dello storicismo assoluto,. come continua misurazione dei nuovi criteri con ·i concetti crociani (2 ). Certo, chi in quelle pagine volesse trovare le linee di un marxismo meno sicuro, più timido di quel che oggi domina le pagine della stessa rivista, andrebbe incontro ad un grosso equivoco: i temi della filosofia della prassi erano in quel testo del tutto espliciti e chiari. Non solo: ma quando gli autori del proemio polemizzavano contro la tendenza a far del marxismo una profezia e una religione e insistevano sulla necessità di ritornare alle origini del materialismo storico, ai grandi testi di Marx e di Engels, dimostravano chiaramente quale fosse la loro posizione nei riguardi della interpretazione crociana (e in genere revisionistica) del marxismo: e cioè che Croce, interprete borghese, avesse non poco contribuito a quella JDistificazione in senso deterministico della dottrina, che essi ritrovavano in tanta parte della cultura «tradizionale», e che fin dal 1945, in un saggio sui problemi dello storicismo, Delio Cantimori (3 ) aveva chiaramente rilevato nelle discussioni sul metodo della storiografia. • ·Fin dal primo documento ufficiale del nuovo marxismo, le linee della concezione che i nuovi studiosi intendevano rivendicare, appaiono dunque chiare e nette. E chiara e netta ~ppare sopra tutto la polemica contro le interpretazioni in senso deterministico del marxismo, contro cui già Antonio Gramsci aveva lungamente battuto nei Quaderni del Carcere. Il rapporto struttura-superstruttura - sostenevano quegli studiosi - non è un ( 2 ) Le ragioni del successivo, piuttosto brusco, atteggiamento marxista nei riguar.- di del Croce, andrebbero indagati in separata sede. E' superfluo ricordare qui i vari scritti di Valentino Gerratana: basti citare, per l'autorità dello scrittore, il recente articolo di M. ALICATA, La via di Marx, nel Contemporaneo del 22 ottobre 1955, in cui si legge che la cultura crociana rappresenta « il limite più forte all'affermazione e allo sviluppo, in Italia, di una cultura moderna», e si esortano i marxisti a non assumere verso Croce l'atteggiamento che Marx assunse verso Hegel nella famosa prefazione del 24 gennaio 1873 al I volume del Capitale. (Un atteggiamento assai meno rigido fu tuttavia assunto, in occasione della morte di Croce, da G. MANAcoRnA, in Società, 1952, pp. 589-90. ( 3 ) D. CANTIMORI, Appunti sullo storicismo, in Società, 1945, fase. 1. . I [19] .. ' Biblioteca Gino Bianco

... rapporto meccanico, ma dialettico, non implica la determinazione << fatale » della struttura sulla superstruttura, per la buona ragione che, come i fondatori del marxismo hanno spiegato a chiare note, le superstrutture reagiscono sulla struttura, della quale sono riflessi, la modificano e contribuiscono così al cangiamento della realtà. E l'interpretazione deterministica si rivela perciò del tutto arbitraria, dal m~mento che quella che vien fuori da una attenta restituzione dei testi, non è un'aprioristica filosofi.a della storia (la « scellerata pedagoga della storia passata e futura », come la definì una volta Adolfo Omodeo) ma un.a concreta filosofia del lavoro umano, una filosofia dell'uomo reale, unico protagonista, a giudizio di Marx, della Stlia storia. Vero è che a questa dimostrazione si sarebbe pur sempre potuto replicare che, come Marx ed Engels avevano chiaramente ammesso, « in ultima analisi » la storia era pur sempre determinata dall'elemento economico, che la sua continuità era costitui~a dalla continuità delle strutture (e sono interessanti a questo proposito le << periodizzazioni » degli storici marxisti), e che la dialettica rischiava così nuovamente di squilibrarsi •in un senso non precisamente umano. Ma anche a questa ulteriore e più interna obbiezione, i marxisti potevano sempre rispondere che l'uomo reale è quello che agisce in << condizioni ben determinate», e non nel paradiso idealistico della «Coscienza>>~e che l'aver richiamato questa preminenza non immediata ma mediata dell'economia era in fondo la miglior prova del carattere intimaIIlente antiteologico, materialis.tico e critico della concezione di Marx ed Engels. Nè sarebbe stato legittimo identificare la struttura con un « Dio ascoso>>,un « ·motore immoto », un « noumeno >>, perchè la struttura a differenza di Dio può esser studiata (come avvertiva chiaramente il Gramsci) storicamente ed empiricamente: ed anche per que- ' sta via, quindi, il carattere umano, immanente e materialistico del marxismo veniva dimostrato come meglio non si sarebbe potuto. Niente struttura come « cosa in sè >>: queste critiche, lungi dal chiarire il problema del marxi: smo, confutando la sua logica, si chiarivano esse stesse, alla luce della logica marxista, come prodotti di una << mala coscienza » borghese in cerca di pretesti per la difesa dei suoi privilegi e della sua « egemonia ». Critica di classe, dunque, non critica scientifica: e come tale, da combattere non solo con le armi della critica filosofica, ma con quelle della lotta politica e sociale. Il marxismo rivendicava in tale modo la sua originalità: il nesso inscindibile di pensiero ed azione, di teoria e praxis. [20] Bibliot ca Gino Bianco •

I Mi pare di aver esposto con precisione, se pur in rapida sintesi, le ragioni che i marxisti italiani hanno opposto, prima e dopo la pubblicazione degli appunti di Antonio Gramsci, alla critic,a di Benedetto Croce: e nessuno, che sia seriamente interessato agli studi e desideri innanzi tutto ristabilire i termini esatti della questione, avrà difficoltà a riconoscere che, effettivamente, nel fervore della polemica e nei ritorni violenti della passione politica, i testi siano stati talvolta forzati verso interpretazioni troppo unilater,ali e schematiche, e la visione storica del materialismo marxista sia stata prospettata in una luce non del tutto adeguata. E tuttavia, chi riprenda la questione da un punto di vista un po' diverso da quello scelto dagli studiosi marxisti per le loro critiche << antirevisionistiche >>,non ,avrà difficoltà ad ammettere che la «accusa» (se così piace chiamarla) non tanto di determinismo quanto di « finalismo» e di .filosofiadella storia, risponde a verità molto più di quanto le discussioni e le precis~i_oni sul rapporto struttura-superstruttura non sembrino postulare. Tutta la lunga polemica sul punto se questo rapporto sia meccanico o di~lettico, implichi la distruzione della libertà umana o al contrario la ~lti in forme non « idealisti- · camente >> mistificate, tutta questa polemica non sposta sostanzialmente il problema se il marxismo imponga o no un fine alla storia umana, e 110npresupponga quindi un suo sviluppo necessario verso una conclusione determinata. Ed in realtà, ammesso che grande importanza ha pure, dopo l'iniziale impulso economico, la «reazione» che le superstrutture esercitano sulle strutture, rimane poi ben chiaro che questo rapporto e questo concreto condizionamento viene a cessare, non sussiste più in questi termini, quando, individuato con la dottrina marxista il punto focale della « contraddizione » della società, ed elevata quindi rivoluzionariamente tale contraddizione a principio non solo di conoscenza ma di azione, si pongono le premesse per quell'azione che cambierà, come Marx diceva, il .mondo, e si vede chiaro nell' << enigma della storia>>. In tal modo il marxismo si configura non come una filosofia tra le altre, ma come quella filer sofia che, vedendo chiaro nella realtà contraddittoria delle cose, si 'pone come teoria e come azione di questa contraddizione: e per questo, nella celebre undecima « glossa a Feuerbach », Marx può scrivere che, mentre i precedenti filosofi hanno solo interpretato il mondo, ora si tratta di « cangiarlo>>,rivendicando evidentemente solo alla sua Weltanschauung questo diritto e questo potere. Perchè tutte le precedenti « interpretazioni >>erano [21] Biblioteca Gino Bianco

•« ideologiche », nascevano senza chiara coscienza, o con « falsa coscienza ~ (come Engels aveva spieg,ato in una lettera a Franz Mehring) della loro •effettiva genesi, laddove il marxismo, per essere chiara coscienza di quella falsa coscienza, porta implicito in sè il concetto che per <<inverare~ e capovolgere quelle interpretazioni del mondo non si può rimanere solo sul piano speculativo, ma bisogna rimuovere la << contraddizione storica » onde ,quelle interpretazioni eran tutte rese inadeguate e <<false». « ... L'ideolo- _gia è un processo che viene bensì compiuto dal cosiddetto pensatore con -coscienza, ma con una falsa coscienza - scriveva Engels nella citata lettera al Mehring -. Le vere forze motrici che lo muovono gli rimangono :sconosciute, altrimenti non si tratterebbe di un processo ideologico. Egli ~s'immagina dunque delle forze motrici false o apparenti. Poichè si tratta <li un processo di pensiero, egli ne deduce tanto il contenuto quanto _laform.a d,al pensiero puro, o dal proprio, o da quello dei suoi predecessori. Egli lavora con un materiale puramente intellettuale, che, senza guardar "tanto nel sottile, prende come se fosse creato dal pensiero, senza sottoporre .:aulteriore indagine un processo più lontano, indipendente dal pensiero ...(4 ) » J>er questo, dunque, a differenza di tutte le passate ideologie, il marxismo . Fè insieme potenza di conoscenza e potenza di azione: è al limite tra una :società moritura, della quale ha colto l'insanabile contraddizione, e una :·societàche sta per nascere dalla morte della precedente, con caratteri del ·tutto opposti e diversi. E tra questa morte e questa nascita non c'è lo stesso :rapporto che intercorre tra le varie fasi della storia umana, dall'età tribale (quando la società non conosceva ancora, come spiega Engels nell'Origine 1della famiglia, lo sfruttamento di classe) a quella del capitalismo: perchè, prima, la storia era storia di un'umanità «alienata>>, estraniata dai frutti del :proprio lavoro, laddove la storia futura sarà la storia della società « riunifircata », dell'uomo ridivenuto padrone del proprio destino e della propria ··<<coscienza>>S.arà la storia di un'umanità libera, rispetto a quella di una :umanità sostanzialmente schiava: perchè, come scrive Engels, « sinora» la :storia è proceduta <<a guisa di un processo naturale», ed è stata perciò sottoposta << sostanzialmente alle stesse leggi di sviluppo>>. (5 ) Le parole citate ~appartengono alla nota lettera di Federico Engels a Giuseppe Bloch: e nel- ( 4 ) Cito da K. MARX -F. ENGELs, Sul materialismo storico, Roma, 1949, pp. 84-85. ( 5 ) K.,MAR.-XF. ENGELs., Sul materialismo storico, cit., p. 77. [22] Biblioteca Gino Bianco

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