Nord e Sud - anno II - n. 4 - marzo 1955

circa la inopportunità dell'emigrazione dalle aree depresse echeggia le critiche che da varie parti si vanno oggi muovendo contro le partenze di lavoratori italiani. Questé voci si sono fatte più frequenti negli ultimi tempi specie da parte delle sinistre (3 ). In una zona quale il nostro Mezzogiorno, dove l'impulso all'espatrio è ancora fortissimo per le ben note condizioni di disagio economico, il comporsi di una corrente emigratoria è quasi automatico non appena si prospetta, da parte di un paese sottopopolato e sottosviluppato, il proposito di accrescere il proprio potenziale demografico per adeguarlo a piani di sfruttamento intensivo, agricolo e industriale. E il formarsi di tali correnti resta originariamente al di fuori di qualsiasi sollecitazione governativa o comunque interessata : basta il ritorno di un « paesano >> per provocare movimenti nell'una o nell'altra direzione, come si è potuto constatare in questi anni del dopoguerra, ora verso il Brasile o l'Argentina, ora verso il Belgio o il Venezuela. Il punto d'incontro di queste due opposte esigenze, di popolamento da un lato e di sfollamento dall'altro, sta nel creare, contemporaneamente, le premesse necessarie a uno sviluppo intensivo di entrambi i punti limite della corrente emigratoria. Partendo da questa base, è possibile discutere brevemente la questione del drenaggio del potenziale umano, che comporterebbe un depauperamento ulteriore della zona depressa. Si afferma da varie parti che il valore di ogni emigrante che lascia il proprio paese è valutabile intorno ai 4 milioni, quanti ne avrebbe cioè spesi la collettività nazionale per portare quel suo membro alla migliore età produttiva. Lo Stato esporterebbe cioè per ogni emigrante un capitale di 4 milioni. Il calcolo è più o meno esatto. Ad esso si oppone di solito il ragionamento del rientro di quel capitale attraverso le rimesse degli emigranti, ragionamento che vale sino ad un certo punto e non è il più convincente, se si calcola che contro un'esportazione di capitale pari a 4.roo miliardi di lire (a tanto ammonterebbe il valore degli emigranti partiti al netto tra gli anni 1946 e il 1952) v'è stato un rientro in rimesse pari a 420 miliardi. Qui bisognerebbe considerare che peraltro le autorità finanziarie non vigilano come dovrebbero sulla destinazione delle rimesse : molte di queste vengono maneggiate dai cambisti senza che la ( 3 ) Vedi ad esempio, GIORGIO UMDERTAZZI, Emigrazione: « le parole che si djcono e i fatti che contano », sull' « Avanti! », ottobre 1954. [81] Bibloteca Gino Bianco

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