mentazione vigorosa e stringente, attinta a personali minuziose ricerche che mai diede l'appiglio a fonda te confutazioni. In quattro anni, 106 discorsi L'attività parlamentare di Matteotti - e di questa particolarmente intendiamo parlare sulla scorta dei due volumi dei « Discorsi » - si sv~lse nel corso di tre legislature: la XXV, nata dalle elezioni del 16 novembre 1919, indette dal governo Nitti a suffragio universale maschile ed a scrutinio di lista e sciolta da Giolitti nel 1921 (Matteotti vi rappresentò la circoscrizione Ferrara-Rovigo); la XXVI, eletta il 15 maggio 1921 (con 535 seggi in luogo dei 508 delle precedenti legislature, e con alcune modifiche delle circoscnz10ni elettorali), e sciolta da Mussolini nel 1924 (Matteotti vi partecipò in rappresentanza del collegio Padova-Rovigo); la XXVII, eletta il 6 aprile 1924, e nella quale Matteotti, sempre in rappresentanza della circoscrizione Padova-Rovigo, toccò i punti più alti e drammatici della sua « via crucis », sino al martirio che gli fu inflitto a poche settimane di distanza dall'insediamento della Camera fascistizzata. In poco più di quattro anni il « deputato » Matteotti pronunciò dalla tribuna di Montecitorio 106 discorsi, nei quali emersero e s'imposero all'attenzione sovente astiosa e irritata - degli avversari e all'ammirazione dei compagni la sua preparazione giuridica, finanziaria e amministrativa, l'ampiezza degli orditi, la ricchezza dei dati e dei riferimenti, il fervore di un intelletto che non conosceva stanchezza e rilassamento, sostenuto com'era da una profonda, incrollabile fede. Se a questo s'aggiungono le riunioni di Gruppo e delle Commissioni parlamentari di cui fece parte - in particolare quelle del Bilancio e della circolazione monetaria -; l'attività di partito a Roma e nelle provincie, divenuta assillante dall'ottobre 1922, dopo la sua nomina a segretario nazionale del Partito Socialista Unitario, allora costituito in seguito alla rottura dei socialisti democratici con i massimalisti serratiani; la frequente collaborazione alla stampa socialista, e in primo luogo alla Critica Sociale (3), ci si può legittimamente domandare dove Matteotti trovasse il tempo e l'energia fisica per assolvere ad una mole di lavoro che avrebbe debilitati organismi assai più robusti, e non ci si può sorprendere che, dopo la sua tragica fine, dalla esacrazione popolare gerBibliotecaGino Bianco minasse il mito di una sua eroica predestinazione. Nella seduta del 21 dicembre 1919, in tema di « proroga dell'esercizio provvisorio dei bilanci 1919-20 », Matteotti fece il suo debutto parlamentare contestando al primo governo Nitti la patente contraddizione fra i programmi annunciati - imposta sul patrimonio e sui sovraprofitti di guerra, nominatività dei titoli ecc. - e « l'empirismo e la mancanza di comminatorie espropria tric i » della sua politica velleitaria, ed osservando che le minacce al capitale - non seguite dai fatti - favorivano l'esodo delle grosse fortune e gli investimenti improduttivi, inaridendo e allontanando gli stessi capitali stranieri. Da Nitti a Giolitti Argomenti tutti ribaditi e ampliati il 28 marzo 1920, discutendosi le « comunicazioni » del 2° governo Nitti, costituito il 14 dello stesso mese, senza la partecipazione del Partito Popolare, il cui ·programma minimo di riforme non era stato accolto: Matteotti denunciava la grave situazione economica del paese e la tendenza ad imporre i maggiori oneri della ricostruzione alle classi lavoratrici. Inoppugnabili le sue cifre, a dimostrazione delle illusorie prospettive del governo. E che il quadro politico generale fosse oltremodo preoccupante, mentre l'ondata di agitazioni dilagava ovunque, e gli stessi estremisti di destra - d'annunziani, arditi, fascisti - soffiavano sul fuoco, appoggiando certi scioperi e promuovendo manifestazioni e calmieri d'imperio contro il caro viveri, lo confermava lo statista lucano rassegnando, nel giugno 1920, le sue dimissioni. Il quinto ministero Giolitti, che gli succedette, parve volersi spingere più decisamente sulla via delle riforme, inserendo nel proprio programma alcuni dei « nove punti » dei popolari (riforma agraria, proporzionale nelle elezioni amministrative, voto alle donne, ecc.). Prima ancora del voto parlamentare sulle sue « comunicazioni », Giolitti, secondo la prassi invalsa in quegli anni, e purtroppo largamente seguita anche nel secondo dopoguerra, chiede « l'esercizio provvisorio dei bilanci per l'anno finanziario 1920-21 ». Contro questo procedimento, che sottraeva al Parlamento una delle sue salienti prerogative, quella della determinazione e del controllo della spesa, Matteotti pronunciava, il 27 giugno 1920, uno dei suoi più vigorosi discorsi, additando nella tendenza, praticata da Giolitti con la guerra di Libia nel 1911 e seguita da Salandra nel « maggio radioso » del 1915 a mettere le Camere ed il paese di fronte ai fatti compiuti, il pericolo più serio per le istituzioni, già gravemente compromesse dai molti problemi politici irrisolti: lo stato di guerra guerreggiata in Albania, l'impresa di Fiume, l'assetto delle regioni liberate, ancora prive di rappresentanza parlamentare, il prezzo politico del pane, il pauroso « deficit » del bilancio. Erano le prime avvisaglie di quella strenua difesa della funzione parlamentare, in un libero ordinamento democratico, che doveva costituire negli anni immediatamente successivi, il « leit motiv » della serrata e penetrante dialettica matteottiana, sino al fatale epilogo della Quartarella. Motivo di fondo, che non aveva niente di illuministico, ma che si articolava in progetti di riforme perfettamente attuabili nella società del tempo, per rimettere in sesto il paese ed avviarlo a sicuro progresso, quelle riforme che Filippo Turati aveva propugnate nel suo grande discorso del 26 giugno 1920: « Rifare l'Italia». « Se il programma dell'on. Turati - esclamava Matteotti in occasione di una delle tante discussioni... accademiche dedicate all'imposta straordinaria sul patrimonio (18 febbraio 1921) - era un programma serio, coerente, logico, di ricostruzione della ricchezza nazionale, noi vi offriamo l'occasione di applicare quel tanto di buono che voi ci avete allora riconosciuto ». Anche per Matteotti, « rifare l'Italia» voleva dire elettrificazione e progresso industriale, finanza onesta, imposta senza discriminazioni e senza evasioni, più larga partecipazione dei cittadini alla vita pubblica, autonomie comunali, riforma dell'agricoltura, scuola - dagli asili d'infanzia alle università - aperta a tutti e gratuita per i non abbienti. E su ognuno di questi temi, si articolava la sua diuturna battaglia alla tribuna della Camera. Con accenti salveminiani, additava nel protezionismo, e in particolare nei dazi doganali sul grano e sullo zucchero, la causa prima della ristrettezza degli orizzonti dei ceti possidenti e del ritardo di sviluppo dell'economia agraria, che rappresentava allora i due terzi delle risorse del paese, nonchè di quegli egoismi settoriali che dovevano alimentare il fascismo (discorso del 7 dicembre 1920). Alcuni interventi rivelavano geniali intu1z1oni ed anticipazioni, emergenti dalla foresta delle cifre: nella proposta lungimirante di una imposta sulla cifra d'affari con conseguente sgravio dei balzelli sui consumi (23 febbraio 1921); nella 355
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