Pagine di quotidiani e riviste dedicate a Giacomo Matteotti - 1925-1974

\ Bi Il pen~iero lederali~ta di Carlo Cattaneo m. Se nella multiforme ma troppo dispersa opera del Cattaneo manca una trattazione compiuta ed omogenea dello stesso federalismo, cioè del principio politico che più gli stava a cuore, e pel quale, sopratutto, s'infutura il suo pensiero, nel principio stesso, in compenso, è scolpita quella che si potrebbe chiamare la fisionomia cli tale pensiero, nei suoi tratti più schietti o significativi. Oserei dire che il federalismo è 11 figlio legittimo e prediletto del positivismo politico cattaneano. Oggi ribadisco quella mia vecchia affermazione, allargandone, anzi, la portata, col sostenere essere il federalismo il corollario politico, logico e coerente, cli tutto quanto l'orientamento intellettuale del Cattaneo, che fu, ava n ti 1 e t te r a , il primo positivista italiano. Ma - potrà obiettare taluno - si deve chiamare propriamente positivistica, o non piuttosto ( che so io?) illuministica, razionalistica, oppure semplicemente liberale, la concezione politica del Cattaneo? E - potrà obiettare qualche altro - ammesso che il federalismo sia la dottrina più conseguente della libertà, come s'inquadra tale valore, ch'è in primo luogo un valore dello spirito, in un modo di pensare, qual'è quello positivistico, che, per necessità logica, si deve professare aderente ai fatti? (Ed è poi - si potrebbe aggiungere in parentesi - fare un elogio al Cattaneo il chiamarlo un positivista od un precursore del positivismo, oggi che il ringagliardito, anche se spesso piuttosto sedicente che effettivo e compiuto idealismo, dopo la • campagna intrapresa già da qualche decennio contro quel sistema, o meglio contro quel metodo filosofico, proclama di averlo debellato per sempre?) M'incombe l'obbligo cli dimostrare, se pure con la maggior rapidità possibile, la fondatezza della mia modesta, ma radicata opinione. Potrei, anzitutto, richiamare l'autorità cli competenti storici della filosofia, i quali, prima di me, non si peritarono cli far risalire al Cattaneo, e non prima né dopo, gl'inizi del positivismo italiano. Ma qui, senza aver l'aria cli nascondermi dietro spalle più robuste delle mie, voglio rammentare piuttosto che il mio maestro Roberto Ardigò, rivendicanào contro uno di quegli storici l'originalità del proprio positivismo, scriveva che il Cattaneo, il quale «non ricorda mai il Comte, mentre sempre si appella al Locke, chiude splendidamente la scuola del Romagnosi, ma non ha avuto dopo cli lui una scuola sua; sottentrando invece da noi nell'avviamento per la filosofia positiva (ma con caratteri propri) quella iniziata in Francia da A. Comte». Il che è vero, in ispecie per quanto riguarda la filiazione spirituale del Cattaneo, il suo riferirsi al Locke e non mai al proprio contemporaneo Augusto Comte (di cui, probabilmente, egli non ebbe modo cli conoscere le opere nella allora scarsamente provveduta Lugano), la influenza del Comte stesso, e, in modo particolarissimo, i «caratteri propri» della filosofia positiva in Italia. Se non che mi sia lecito cli ripetere un'altra mia vecchia osservazione proprio a proposito di tali caratteri peculiari del positivismo italiano, quanto meno, del migliore e più serio positivismo, che da alcuni si suol mettere tutto in un mazzo con ogni altra, più o meno analoga, pseudo-scientifica dottrina, per potersene sbrigare con altezzosa noncuranza, senza prendersi la fatica - non lieve - di leggerne e di studiarne le opere austere (ma, io ne ho fiducia, multar e n a - s ce n tu r ... dopo tanta orgia d'idealismo, più o meno attuale). Mi sia lecito, dico, di manifestare anche qui la mia opinione che nelle opere dell'Ardigò si possano scoprire parecchi punti cattaneani; non più che spunti per lo svolgimento delle proprie meditate teorie filosofiche, ma in maggior copia, forse, cli quanto egli (della cui candida buona fede non è davvero lecito dubitare) non, ricordasse allorché, ottantenne, citava in uno dei suoi scritti, come s'è veduto testé, il nome del Milanese. (Il punto, che qui non può essere toccato se non di sfuggita, meriterebbe cli essere approfondito.) Nell'opera del Cattaneo io sarei propenso a ravvisare, anzi, l'anello cli congiunzione, a dir cosi, tra il sistema di Giandomenico Romangnosi ch'era ancora prevalentemente illuministico, se pur non senza qualche tentativo d'integrazione tra psicologica e gnoseologica, ed il positivismo dell'Arcligò, che affonda le sue radici nella critica della conoscenza ed eleva le fronde tuttora verdi e fresche della sua etica fino alla ottimistica dottrina delle idealità sociali impellenti il volere dell'uomo (non dimentichiamo che un acuto critico francese ebbe a scrivere, più di sessant'anni or sono, che, se si fosse tentati di accusare l'Ardigò di materialismo, «il faudrait prendre garde qu'il pourrait bien etre aussi un idéaliste radical»). Orbene, il pensiero del Cattaneo, che anche per ragione di cronologia si accampa fra quello del suo maestro Romagnosi e quello del!' Ardigò (venuto a contatto delle sue dottrine a traverso la comune amicizia cli Jessie ed Alberto Mario), a me sembra un positivismo, il quale, orientato dalle vedute e forse più dall'esempio del primo verso uno storicismo, meno comprensivo ma er'-a a· più ro~u to e meg, io~ · ila Q, re- !ude, anche e soprattutto per questo, a quell'umanesimo ch'è, a parer mio, la linfa più vitale del pensiero dell'Arcligò, pur senza anticiparne, se non con qualche barlume, le severe dottrine gnoseologiche. Ma positivismo, anche quello del Cattaneo, con caratteri propri che anticipano più decisi indirizzi futuri, se pur non scevro di certo ingenuo «scientismo», imputabile, del resto, più che alla sua, alla mentalità dell'epoca in cui visse, incantata dalle meraviglie della tecnica e della scienza, ma prona forse troppo, e per og;ni dove, al metodo naturalistico di quest'ultima. Perché, se può suonare ancora giustissimo il mònito del Cattaneo (il quale par preludere ad altro analogo cli Benedetto Croce) - «che il filosofo non possa accingersi al suo ministerio se non con ampia preparazione di molto e vario sapere» - a chi, pur pensando che la stessa filosofia non debba essere se non una problematica dell'esperienza, ritenga che, appunto per oiò, il suo debba essere un metodo critico, e non quello d'ogni altra scienza che l'esperienza accetti quale dato e ·studi, come deve, soltanto a parte obiecti, oggi non può non apparire antiquata e troppo (perché non dirlo?) banalmente positivistica la concezione della filosofia come «i 1 n es s o c o m un e di tu t t e 1 e s c i e n z e», come «s ci e n z a d i r i a s s u n - t o, di connessione, di sintesi», fondata anche essa sopra un fenomenismo acritico, cioè oggettivamente empiristico. Ma il Cattaneo era un intelletto troppo pensoso e profondo per potersi appagare d'una tale maniera superficiale (il termine va preso proprio nel suo significato concreto, non metaforico) d'intendere la filosofia positiva. Ed ecco che quello stesso Cattaneo, il quale si compiace cli far osservare ai suoi allievi del Liceo di Lugano che quella «filosofia sperimentale» ch'egli professa «accetta tutte le verità, ossia tutti i fatti: om n i s h i s t o ria b o n a», e dice, ancora, che il suo s i s t e m a ha per principio «l'esperienza fisica e morale, l'istoria naturale e l'istoria civile» - e chi vorrà negargli, dopo ciò, patente e qualifica di positivista? - ecco che il Cattaneo, nei suoi momenti migliori, col suo sguardo lincèo scorge, od almeno intravede, la necessità d'integrazioni, critiche e storicistiche, del positivismo. Ed allora egli - che, come si accennava testé, sembrava sovente contentarsi d'una filosofia come sintesi, necessariamente scialba e necessariamente naturalistica, dei dati e dei risultati delle altre scienze - insegna che «la filosofia deve proporsi uno studio fondamentale: 1' a n a 1 i si de 11 a libera analisi», ch'è critica metodologica dei procedimenti delle scienze, e non mera registrazione dei loro risultati. E, rammentandosi dell'antico imperativo socratico: con o sci te s t e s s o , il quale significa, insomma, che la filosofia è, si, un'indagine dell'esperienza, ma un'indagine a p a r te s u bi e c ti , cli fronte alla quale l'esperienza stessa non è un dato, ma un problema, insegna che «la filosofia è lo studio del pensiero». Ma poiché - com'egli dice, stupendamente- il pensiero è «l'atto più sociale delli uomini», con ispirazione vichiana, cioè con risoluto, anche se non forse pienamente consapevole, orientamento storicistico, invita gli «amatori della filosofia» a considerare «le lingue ... , le lettere, le arti, le leggi, le religioni, le opere tutte dell'umanità», che sono «nella prima origine loro fa t ti d e 11 ' ani - ma», quali «segni de 11 a segreta su a natura». Cosi Carlo Cattaneo intende, nei suoi momenti più felici, la filosofia; non un sistema chiuso in un proprio dogmatismo, sia esso idealistico o materialistico; anzi «sempre aperto e vivo ... finché l'intelligenza si troverà in cospetto del mondo»; perché l'intelletto anzi l'intero spirito dell'uomo, non è uno specchio meramente recettivo della realtà, ma una energia la quale intende, domina e trasforma la realtà stessa, che ne è la matrice, in quel perpetuo gioco cli azione e di reazione tra soggetto ed oggetto, ch'è appunto la nostra esperienza. E nello studio delle opere dell'uomo - e che è, se non questo, la storia? - opere, nelle quali l'uomo deve, com' ei disse, «contemplarsi» per impa rare a conoscere sé stesso il Cattaneo addita il compito precipuo di quella «costante e universale ricerca», che dev'essere la filosofia; in particolare, di quella che, con espressione mutuata dal suo Romagnosi, egli chiamava la filosofia civile. In cotesta filosofia civile, materiata cli positivismo umanistico e storicistico, e non di un astratto razionalismo, s'inquadra la sua dottrina della libertà, cli cui il federalismo - pensiero ed azione - è la discendenza più conseguente e più genuina. Perché il pensatore, che si compiacque di qualificarsi «amico della libertà sopra ogni cosa», non intese la libertà come un dato naturalistico né come la deduzione da un principio metafisico. La libertà non è un fatto cli natura. L'uomo primitivo, che ad una superficiale osservazione può sembrare alla natura più vicino, non ritiene quasi nessun fatto come naturale, ma anzi come il prodotto di voleri, benèfici o malèfici, soprannaturali: può dirsi libero chi, ad ogni istante d~a s~J vita, si crede in balia di misteriose 1 forze estranee al suo controllo? «Il selvaggio - scrive il Cattaneo - avendo un cerchio assai ristretto di idee e cli sentimenti, è in mezzo alle selve assai meno libero che non l'uomo civile, in seno alla società più artificiosa e disciplinata. A questo non aveva pensato Rousseau, quando esaltava sulla vita civile la selvaggia.» Ma la libertà, che non è un portato insth1tivo di natura, non è nemmeno un diritto cli natura, il quale sia, cioè, insito nell'uomo ed anteriore ad ogni norma, che lo dichiari, lo riconosca, lo tuteli. Il severo studioso, cui fu caro il motto: 1 i ber t à e verità, perché, secondo lui, i due termini del binomio si condizionano reciprocamente, identificava, con perfetta coerenza, la libertà con «l'esercizio della ragione». Chi dunque può dirsi libero? Meditiamo queste altre parole cattaneane: «Chi fa il proprio volere, chi si determina giusta i motivi suoi propri e le proprie idee, si dice libero; la libertà è la volontà nel suo razionale e pieno esercizio; la libertà è la volontà.» Questo, anzitutto e propriamente questo, è, pel Cattaneo, la libertà: non il vecchio a r bi - t r i u m indi f ferenti a e nella sfera .psicologica, non insofferenza cli nonne nella vita morale, bensi disciplina, autocontrollo della volontà, cioè autonomia, nel preciso, ed angusto, significato etimologico della parola. Ma appunto perciò, perché la libertà non è possesso, bensi, nella stessa accezione anzidetta, operosa e diuturna conquista, che non può essere se non il prodotto dell'educazione, anche nel campo giuridico e politico non è né un diritto ( o, forse più esattamente, uno sta - tu s) soggettivo di natura, né una graziosa concessione del potere. O quanto meno, nessuna delle molteplici libertà civili e politiche, nelle quali il principio della libertà individuale si specifica, può essere sicura, quando sia largita dall'alto, anziché essere reclamata, conquistata e difesa da chi ne sia degno. «La libertà (questo è il genuino monito cattaneano) non deve piovere dai santi del cielo, ma scaturisce dalle viscere dei popoli. Chi vuole altrimenti è nemico della libertà.» Ma «l a 1 i b e r t à - com'egli disse con una delle sue felici metafore - è u n a p i a n t a di mo 1 te rad i ci». E lo studioso di tante scienze ch'egli era, ed il promotore od ausiliatore di tante feconde iniziative pratiche, come, un secolo fa, in uno scritto ancora degnissimo d'essere riletto, sottoponeva ad una critica spietata il borioso nazionalismo economico di Fe- ;ierico List, argutamente beffando il «guardinfante protettivo», invocato e adoperato da pigri industriali a detrimento della massa dei consumatori, e come, più d'un secolo fa, con la sua generosa campagna contro le interdizioni israelitiche - campagna che oggi, ahimé, sarebbe ancora più dolorosamente viva - si proponeva, non soltanto cli compiere un'opera buona, ma altresi di dimostrare un teorema cli economia, facendo toccar con mano i danni che venivano alle stesse nazioni, le quali agli Ebrei vietavano l'esercizio cli certe arti e professioni, e, segnatamente, la possidenza fondiaria, cosi, nell'età più matura - per non fare che un solo altro esempio - quando patrocinò, non senza esporsi a calunnie ed amarezze, la causa del traforo del Gottardo, cioè la ferrovia dai due mari d'Italia all'Europa centrale, poteva scrivere ad un amico: «io l'ho considerata sopratutto come questione di libertà; sapete che per me tutta, tutta la politica dei popoli si stringe in questa unica parola». E, storico profondo, curioso della vita d'ogni popolo, dalle più lontane scaturigini giù a traverso secolari o addiritura millenarie evoluzioni, come, nell'originaria pluralità delle umane stirpi, illustrata dalla luminosa dottrina del Morton, trovava «un'àncora ad ogni istoria» - ma non si scorgeva una rèmora al processo d'intesa fra le nazioni, tutte «egualmente inviolabili», nessuna predestinata ad esercitare «egemonie del genere umano» - cosi, discorresse dell'antica Persia o della Cina, dell'Egitto o della Grecia classica, delle nostre lotte mediovali tra Guelfi e Ghibellini oppure della contesa, ai suoi tempi attualissima, ed infine sanguinosa, fra gli Stati della Confederazione Americana, quelli del Nord prevalentemente industriali e quelli meridionali quasi esclusivamente agricoli (pure oppugnando s'intende lo schiavismo, vergogna di questi ultimi, ch'era stato «appuntellato» dal protezionismo dei primi, e fin dal 1833 dicendosi «quasi tentato», per abolir quella «infamia», ad invocar la guerra), non trascurava occasione per mostrare i pericoli e i danni del dispotismo accentratore, per celebrare i pregi fecondi di ogni forma di libertà, economica, intellettuale, civile, la quale aveva dato maggior splendore a piccole repubbliche, fari di luce spirituale, che non a sconfinati imperi, oppressi da un plumbeo, opaco autoritarismo. Qui, veramente, cioè a questo proposito, avrebbe trovato più degna sede il già ricordato suo motto: «o m n i s h i - storia bona». E, per quanto cauto fosse nelle sue previsioni, e troppo acuto conoscitore degli uomini, per non sapere quanto lento sia, in confronto del progresso meccanico, quello morale, e troppo scaltrito dallo studio e dalla meditazione dei fatti politici per cullarsi in utopie pacifistiche - ché anzi (com'è noto, non foss'altro, da una citazione del Carducci), il Cattaneo intese, come pochi altri, quali possano pur essere gli effetti, benefici per lo sviluppo della socialità, delle stesse guerre - egli, non soltanto auspicava, ma «dal caos delle istorie antiche e .moderne» propriamente credeva di veder sorgere, come «f a t t o c o s t a n t e e d un iv e r sa 1 e», cioè come «l e g g e», «l'azione d'una forza morale che ... spinge le genti verso una sola e u n i v e r s a 1 e a s s o e i a - zio ne». Conclusione, dunque, a malgrado di alcune espressioni e riserve, sostanzialmente ottomistica, questa, cui giungeva il Cattaneo. Il quale fu, per inclinazione spirituale prima ancora che per meditata dottrina (la filosofia che si professa - secondo una sagace osservazione del Fichte - dipende anche dal temperamento che si possiede), un credente nella libertà, nell'opera educatrice della ragione, nel progresso «continuo e indefinito», ch'era, com'egli diceva, la «fede», che distingueva il suo secolo «da tutti i secoli antecedenti». L'ottimismo, del resto, un sano e virile ottimismo, non può non stare al fondo di ogni concezione liiberale, mentre l'autoritario conseguente è, o dovrebb'essere, un pessimista, destituito di fiducia nel potere cli autocontrollo ( ch'è il principio giustificatore dell'autonomia) quanto meno degli altri uomini, se non cli se stesso, più sovente portato ad imporsi agli altri, magari con la prepotenza, che non dispoto ad osservare norme, le quali s'impongano a lui come agli altri. Il liberalismo, invece, che, prima d'essere la generica insegna d'una certa quantità cli partiti politici, potrebbe e dovrebbe essere uno «stato d'animo» comune a uomini i quali pur militino in partiti propugnanti prograimmi sotto certi rispetti assai diversi, il liberalismo cosi inteso, dico, ha, come ogni altro stato d'animo, un suo, più o meno remoto e consaputo, fondamento fideistico: si fonda, cioè, com'è ovvio, su la fede, la quale sarà poi confermata da argomenti. richiesti alla ragione ed alla storia, in quello ch'è, anzitutto, un valore dello spirito: la libertà. A. L. L'ASSASSINIO D IIATTEOTTf< 1 > La seconda serie degli opuscoli dell' «Avvenire dei Lavoratori» è consacrata alle «Memorie» e porta come motto: A g i r e c o m e uomini di pensiero, pensare come uomini di azione. Il primo opuscolo della nuova serie è dedicato all'assassinio dì Matteotti ed è stato accolto con unanime favore dalla stampa e dagii antifascisti cli tutte le correnti. Specialmente tra i giovani, infatti, se sono rari quelli che ignorano il martirio del capo socialis.ta, la maggior parte non conosce però i particolari della tragedia e della crisi politica che ne risultò: per essi quell'assassinio fu un avvenimento oscuro, al quale, negli anni del trionfo fascista, udivano qualche volta alludere con parole reticenti e timorose in conversazioni private, ma senza che fosse possibile saperne altro. E' stato dunque utile raccogliere in una pubblicazione alla portata di tutti i dati essenziali di quel fatto la cui importanza giganteggia sempre più nella storia contemporanea dell'Italia. Come ogni grave fatto storico, esso occuperà ancora per molto tempo le menti degli uomini i quali si dedicheranno a decifrare la crisi italiana dell'ultimo ventennio: tra il giugno del 1924 e il gennaio del 1925, non il solo il fascismo mise a nudo la propria natura, ma tutta la società italiana, la monarchia, la chiesa, i partiti, il ceto intellettuale, i capitalisti, il popolo, la magistratura, le forze armate. Capire la crisi Matteotti vuol dire in sostanza capire le debolezze e le risorse dell'Italia moderna. Non è perciò un avvenimento legato alla cronaca e all'attualità. Fra cento o duecento anni, sarà ancora indagato discusso e giudicato quel periodo tristissimo della vita italiana. Non c'è stato alcun episodo del fascismo più rivelatore cli quello. «Uno di allora», l'autore dell'opuscolo, era la persona più indicata per parlarci con precisione di quell'assassinio e di quel processo; egli sarà anche la persona più indicata per dirigere a Roma la revisione del processo annunziata dalla stampa. Noi gli auguriamo di cuore salute e forza perché possa adempiere alla missione cui il destino sembra averlo riservato: unico dei superstiti dell'ammirevole e proba falange dei pionieri del socialismo italiano, assistere alla realizzazione dell'ideale di libertà e giustizia al quale è stato fedelissimo in tutta la sua vita. (1) «Uno di allora:. - L'Assassinio di Matteotti. Un opuscolo di 40 pagine, prezzo 60 cent. Inviare ordinazioni all'«Avvenire dei Lavoratori» Casella postale 213, Zurigo 6. ' Leviamoci l'illusione che si possa fare in Italia la copia sia pure riveduta e corretta, della rivoluzione d'ottobre. La rivoluzione italiana procederà per vie sue, secondo le necessità e le lotte italiane e europee. La Russia, con la quale si stabiliranno certi rapporti fraterni, sarà per noi non un punto cli arrivo ma di partenza; sarà sopratutto un capitale di preziose esperienze. Ca r 1 o R o s se 11 i (1935).

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