è stato il veicolo forse più efficace per afferrare, con la sua carica di sentimento e di emotività, anche gli animi dei democratici stranieri, solitamente disattenti alle cose della provincia italiana, e portarli a meditare sul fascismo come malattia universale: un male, cioè, nato da noi, sì, ma capace di contaminare altri paesi perché scaturito da una comune profonda crisi dell'Occidente. III Il simbolo. Limpido ed esemplare, l'atteggiamento tenuto da Matteotti simboleggia quello di coloro che - socraticamente - affrontano il proprio dovere fìno all'ultima conseguenza. Coloro che, tra la verità e la tranquillità, scelgono la prima anche se sanno quanto scotti. È retorica fare di Matteotti un grand'uomo per via del martirio subito: è vero invece che la sua fìne non era stata un incidente, o un contingente atto di coraggio, ma la conclusione logica di una severa impostaziòne della lotta. Tradotta in simbolo, la vicenda di Giacomo Matteotti ci insegna che col fascismo non si transige, non si media, costi quel che costi: un insegnamento che fu operante nella guerra di Spagna, poi nella lotta partigiana. Ora noi dobbiamo volere che siffatto simbolo non ci serva più. Noi non auspichiamo che il nostro paese abbia bisogno di sacrifìci fìno alla morte per chi vuole e deve svolgere il proprio compito di uomo nella società; auspichiamo invece che le procedure democratiche siano tali da risultare la condizione sufficiente per qualsiasi forma di etica civica. Che il Paese sia tale, da avere bisogno di cittadini consapevoli e morali, non di eroi. L'augurio migliore che possiamo fare al paese nostro e dei nostri figli è che il simbolo di Matteotti sia davvero obsoleto: e Giacomo, che era « antieroe » per convinzione, sarebbe d'accordo con noi. IV E fìnalmente, l'uomo nella sua realtà. La prima, parziale e intuitiva scoperta del Matteotti « vero » fu opera di un intellettuale non socialista, Piero Gobetti. Oggi disponiamo dell'ottimo libro di Antonio G. Casanova ( « G.M., una vita per il socialismo », Informazione Storica Bompiani). Oggi sappiamo chi era questo socialista che ai compagni appariva scontroso e talora scorbutico, che la domenica rifìutava la consuetudine cittadina-dell'oratoria per stare in mezzo ai contadini dei borghi, che agli accesi dibattiti del congresso di Livorno aveva preferito la guida di uno sciopero nel Ferrarese. Questo compagno « antipatico » e rompiscatole, riformista ma contro ogni opportunismo, capace di sprangare le porte della sezione: nessuno va a cena se prima non si è esaurito l'ordine del giorno. Conosciamo la sua laurea sulla « recidiva » - e i limiti positivisti della sua cultura giuridica, nei quali peraltro si muove con una certa scioltezza -, i suoi articoli, il suo lavoro di amministratore negli enti locali, nelle leghe, nelle cooperative. La sua guerra fermissima contro la guerra. Rara avis, è un socialista preparato anche nella tecnica amministrativa e fìnanziaria, un « ragioniere del socialismo ». Un uomo serio e concreto che ha -·- si disse - il coraggio straordinario dell'utopia. Questo Matteotti è tutto attuale, tutto da imitare. « Io credo veramenibliotecaGino Bianco te », dice nel '19 ai compagni di Rovigo, « che compiere una rivoluzione sia piccola e facile cosa. Abbattere la borghesia è il meno. Il più è preparare e costruire il socialismo dentro di noi ». Ma c'è un secondo aspetto dell'uomo, che il fascismo ha cercato di cancellare, facendo passare questo suo avversario per un elemento de] vecchio e superato prefascismo. Qui il fascismo ha tentato un omicidio culturale, e bisogna dire che è quasi riuscito nel suo intento perché per lunghi anni ha fatto dimenticare questo aspetto di Matteotti. Un aspetto che nemmeno oggi è pienamente conosciuto. Intendo parlare del Matteotti riformista, ma in polemica .con i metodi e la mentalità dei vecchi riformisti; socialista, ma in polemica coi socialisti tradizionali. Matteotti è antifascista fìno in fondo, per un'antitesi totale, ma è anche consapevole che è stata la vecchia democrazia a far nascere e a lasciar prosperare il fascismo. Egli intravvede la possibilità di una democrazia postfascista molto diversa da quella di prima della guerra, e nello sforzo di coglierne i lineamenti è tutt'altro che tenero verso gran parte di quella cultura antifascista di origine prefascista che - senza saperlo e volerlo - è legata strettamente alle radici del fascismo stesso. Muore troppo presto per darci intero questo suo contributo, ma è in questa prospettiva, mi sembra, che oggi va studiato. Tra lui e Gobetti ci sono solo tre lustri di differenza, e in mezzo troviamo Gramsci e Carlo Rosselli. Matteotti è il primo della giovane e nuova, irrequieta e critica generazione intellettuale antifascista. U. ALFASSIO GRIMALDI 279
RkJQdWJsaXNoZXIy MTExMDY2NQ==