P· 32 Rinascita n. 23 7 1974 10 1924: . ' . cinquant anni giugno i -fascisti assassinarono Giacomo fa Matteotti Il suo socialismo Il 10 giugno di cinquant'anni fa veniva barbaramente assassinato Giacomo Matteotti dai fascisti, proprio da quella « ban4_aromana della presidenza», cioè di Mussolini, presidente del Consiglio, da cui il dirigente socialista temeva che arrivasse il colpo. Pubblichiamo per onorare la memoria di un martire · che è diventato un simbolo di tutto l'antifascismo unitario - vivo nella coscienza popolare come un richiamo alla riscossa e come una macchia indelebile per il fascismo - la parte finale del magistrale ritratto che Piero Gobetti diede del caduto. Gobetti aveva conosciuto personalmente Matteotti, lo stimava per la sua .fermezza e la sua intransigenza morale. Poco dopo la morte di Matteotti, Gobetti dédicò il 1° luglio 1924 un numero intero del suo famoso settima11ale, La rivoluzione liberale, alla vita e alle opere dello scomparso. Il saggio gobettiano, poi raccolto in opuscolo e ora ospitato nei suoi Scritti politici ( ed. Einaudi, 1960, pagg. 735-52), occupava gran parte del numero unico su Matteotti, e conteneva un'a,nalisi del suo carattere umano, dell'ambiente politico e sociale in cui si era formato l'organizzatore dei braccianti polesani, proseguendo infine con le pagine che qui riproduciamo, dedicate alla formazione culturale e alla lotta antifascista di Matteotti. · E' vero che nel Matteotti di Gobetti, come nel suo Gramsci, c'è anche molto di autobiografico, un impegno e uno stile che saranno quel-li che voteranno al sacrificio di sé anche il giovan·e rivoluzionario liberale. (p.s.) di Piero Gobetti Non ostentava presunzioni teoriche: dichiarava candidamente di non aver tempo per risolvere i problemi filosofici perché <loveva studiare bil.mci e rivedere i conti <legli amministratori socialisti. E cosi si risparmiava ogni sloggio di cultura. Ma il suo marxismo non era ignaro di Hegel, né aveva trascurato Sorel e il bergsonismo. E' soreliana la sua intransigenza. La concezione ritormista di un sindacalismo graduale invece non era tanto teorica quanto suggeritagli <lall'esperienza di ogni giorno in un paese servile che è difficile scuorere senza che si abbandoni a intemperanze penose. Egli fu forse il solo socialista italiano (preceduto nel decennio giolittiano da Gaetano Salvemini) per il quale riformismo non fosse sinonimo di opporhmismo. Accett-iva <la Marx l'imperativo di scuotere il prdletariato per aprirgli J sogno di una vita libera e cosciente; e pur con critiche non ortodosse non re-pudiava neppure iI collettivismo. Ma la sua attenzione era poi tutta a un momento d'azione intermedio e realistico: formare tra i so- . cialisti i nuclei deHa nuova società: il comune, la scuola, la cooperativa, la lega. Cosi la rivoluzione avviene in quanto i lavoratori imparano a gestire la cosa pubblica, non per un decreto o per una rivoluzione quarantottesca. La base della conquista del potere e della violenza ostetrica <lella nuova storia non sarebbe stata vitale senza questa preparazione. E del resto, troppo intento alla difesa presente dei lavoratori, Matteotti non aveva tempo per le profezie. Più gli premeva che operai e contadini si provassero come amministratori, afifinché imparassero, e perciò nei vari consigli comunali soleva starsene come un consigliere di riserva, pronto a riparare gli errori, ma voleva i più umili aUo sperimento delle cariche esecutive. Ma non ebbe mai in comune coi riformisti la compli~ità nel protezionismo, anzi non esitò a rimanere sdo col vecchio Modigliani ostinato nelle battaglie liberiste, che per lui non erano soltanto una denuncia delle imprese speculative di sfruttatori del proletariato, ma anche una scuola di autonomia e di maturità politica concreta nella sua provincia. Cosi procede tutta la cultura e tutta l'azione di Matteotti, per esigenze federaliste, dalla periferia al centro, dalla cooperativa al comune, dalla provincia allo Stato. Il suo socialismo fu sempre un socialismo applicato, una difesa economica dei lavoratori, sia che proponesse sul.- la Lotta di Rovigo o nella Lega dei comuni socialisti dei passi progressivi, sia che parlasse dall'Avanti! o dalla Giustizia a tutto il proletariato italiano, sia che come relatore della Giunta di bilancio portasse nella sede più drammatica e travolgente il suo proces50 alle dominanti oligarchie plutocratiche. · Tanta si dimostrò la sua passione per il concreto, per il particolare, per i fatti, che nel 1921 preferl esercitare la sua opera <li assistenza e di àifesa in una situazione difficilissima per il proletariato in provincia di Ferrara, piuttosto che andare a Livorno a raccog!tere i successi rumorosi di un'accademia <li « tendenze » e di « frazioni. Giacomo Matteotti vide nascere nel Polesine il movimento fascista come schiavismo agrario, come cortigianeria servile degli spostati verso chi li pagava; come medioevale crudeltà e torbido oscurantismo verso qualunque sforzo dei lavoratori volti a raggiungere la prcipria dignità e libertà. Con questa iniziazione infallibile Matteotti non poteva prendere suI serio le scherzose teorie dei vari nazionalfa~cisti, né i mediocri progetti machiavellici di Mussolini: c'era una questione più fond"!- mentale di incompatibilità etica e di antitesi istintiva. Sentiva che per combattere utilmente il fascismo nel campo politico occorreva opporgli 'esempi <li dignità con resistenza tenace. Farne una questione <li carattere, di intransigenza, di rigorismo. Cosi s'era condotto contro tutti i ministerialismi, senza piegarsi mai. Nel 1921 al prefetto di Ferrara, che lo chiamava in un momento critico della lotta agraria, aveva risposto per telefono: « Qualunque colloquio tra noi è inutile. Se lei vuole conoscere '1e nostre intenzioni non ha bisogno di me perché ha le sue spie. E delle sue parole io non mi fido » Non fu mai visto cedere alle lusinghe degli uomini del potere costituito né salire volentieri le scale della prefettura. . S'era cosi creata intorno a lui un'atmosfera di astio pauroso da parte degli agnri: mentre lo stimavano, capivano che lo BibliotecaGino Bianco I funerali di Giacomo Matteotti a Fratta Polesine avrebbero avuto nemico implacabile. Il 12 marzo 1921 Matteotti doveva parlare a Castelguglielmo. La lotta si era fatta da alcuni mesi violentissima; s'era avuto in Polesine i'I primo assassinio. Quel sabato egli percorreva le strade in calesse e Stefano Stievano, di Cincara, sindaco, gli era compagno. Ciclisti gli si fanno incontro dal paese per metterlo in guardia: gli agrari hanno preparato un'imboscata. Matteotti vuole che lo Stievano torni indietro e compie da solo il cammino che avanza. A Castelguglielmo si nota infatti un movimento insolito cl: fascisti assoldaci; una folla armata; alla sede della Lc:- ga lo aspettano i lavoratori e Matteotti parla pacatamente esortandoli alla resistenza; ad alcuni agrari che si presentano per i'I contraddittorio rifiuta; era di costoro una vecchia tattica auando volevano trovare un alibi per I~ propria vi0lenza: parlare ingiuriosamente ai lavorntori per provocarne la re~zione facend-:>- li cadere nell'ins~dia. Matteotti si offre invece di seguirli solo e di parlare alla sede agraria: cosi resta .:onvenuto e dai lavoratori riesce ad ottenere che non si muovano per evitare incidenti più gravi. Non so se il coraggio e l'avvedutezza parvero provocazione. Certo non appena egli ebbe varcata la soglia padronale - attraverso doppia fila di armati - dimentichi del patto gli sono intorno furenti, le rivoltelle in mano, perché s'induca a ritrattare ciò che fece alla Camera e dichiari che lascerà i1 I Polesine. « Ho una dichiarazione sola da farvi: che non vi faccio dichiarazioni ». Bastonato, sputacchiato,' non aggiunge sillaba, ostinato nella resistenza. Lo spingono a viva forza in un camion; sparando in alto tengono lontani i proletari accorsi in suo aiuto. I carabinieri rimanevano chiusi in caserma. Lo portano in giro per la campagna con la rivoltezza spianata e tenendogli il ginocchio sul petto, sempre minacciandolo di morte se non promette di ritirarsi dalla vita politica. Visto inutile ogni sforzo, finalmente si decidono a buttarlo dal camion nella via. Matteotti percorre a piedi dieci chilometri e rientra a mezzanotte a Rovigo dove lo attendevano alla sede della Deputazione provincia'le per la proroga del patto agricolo il cav. Piero Mentasti, popolare, l'avvocato Altieri, fascista, in rappresentanza dei piccoli proprietari e fittavoli, Giovanni Franchi e Aldo Parini, rappresentanti dei lavoratori. Gli abiti un poco in disordine, ma sereno e tranquillo. Solo dopo che uscirono gli avver,sari, rimproverato dai compagni ·per il ritardo, si scusò ·sorridendo: « I m'ha robà ». Aveva riconosciuto alcuni dei suoi aggressori, tra gli altri un suo fittavolo a cui una volta aveva condonato l'affitto: ma non volle farne i nomi. Invece assicurò che mandanti dovevano essere il comm. Vittorio Pelà di Castelguglielmo e i Pinzi <li Badia, parenti <lell'ex-sottosegretario di Mussolini. Poiché si parlò e si continua a parlare di violenze innomin::.bili che Giacomo Matteot!i avrebbe subito in questa occasione è giusto dichiarare con teTestimonianze stimonianza definitiva che la sua serenità e impassibilità, di cui possono far :estimonianza i nominati interlocutori di quella sera, ci consentono di escludere il fatto e di ridurlo ad una ignobile vanteria fascista. La storia <li questo rapimento è tutt<J.- via impressionante e perciò abbiamo voluto raccoglierne da testimonianze incontestabi!Ji tutti i particolari. Finché non d sarà descritta l'aggressione di Roma il ricordo di questa prova può dirci con quale animo Matteotti andò incontro alh morte. Ne aveva il presentimento. A Torino, il giorno della conferenza Turati, un profugo veneto gli chiese: «Non ti aspetti una spedizione punitiva da qualche Farinacci? » Rispose testualmente cosi: « Se devo subire ancora · una volta delle violenze _saranno i sicari degli agrari del Polesine o la banda romana della Presidenza». Come segretario del partito socialista unitario aveva condotto la lotta contro il fascismo con la più ferma intransigenza. Rimane il suo volume: Un anno di dominazione fascista, un atto d'accusa completo, fatto alla luce dei bilanci, e insieme una rivolta della coscienza morale. E fu Matteotti a stroncare, non appena se ne parlò, ogni ipotesi collaborazionista della Confederazione del lavo• ro: non si poteva collaborare col fascismo per una pregiudiziale di repugnanza morale, per la necessità di dimostragli che restavano queJil.i che no:i si arrendono. Come segretario del partito pensava al collegamento, animava le iniziative locali, le coordinava intorno a questo programma. Compariva dove il pericolo era più grave, incognito suo malgrado, a d~- re l'esempio. Talvolta osò tornare in Polesine travestito, nonostante il bando, con pericolo di vita, a rincuorare i combattenti. Egli rimane come l'uomo che sapeva dare l'esempio. Era un in?egno politico quadrato, sicuro; ma non si può dire quel che avrebbe potuto fare domani come ministro degli Interni o delle Finanze: ormai è già nella leggenda. Ho una lettera di un lavoratore ferrarese, scritta il 16 giugno: « Come puoi figurarti qui non si parla d'altro e i giornali non fanno in tempo ad arrivare .in piazza perché sono strappati ai rivenditori e letti avidamente. La deplorazione è unanime '1 il risveglio non più nascosto. Pare che l'incantesimo della paura sia infranto e ia ·gente parla senza titubanze. La perditr,· però porterà i suoi frutti di libertà e di civiltà che renderanno allo spirito eietto del nostro Grande la pace e la gioia J,er il sacrificia compiuto. Matteotti era ttn uomo da affrontare la morte volontariamente se questo gli fosse sembrato il mezzo adatto per ridare al proletariato la libertà perduta». Non si può immaginare una commemorazione più spontanea e più generosa. Come se i lavoratoci abbiano sentito in lui la parola d'ordine. Perché la generazione che noi dobbiamo- creare è proprio questa, dei volontari della morte per ridare al proletariato la libertà perduta.
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