Lo Stato - anno II - n. 10 - 10 aprile 1961
sua dinastia. Anche quando l'assassinio del suo diletto figlio, il Duca di Gan– dia, gli fece rammentare in modo ter– ribile la sua vera vocazione, il penù– mento non fu che di breve durata e tosto egli tornò a vivere del tutto alla foggia dei principi scostumati dell'epo– ca sua. L'infelice cadde sempre più in balìa del terribile Cesare e prese parte ai suoi misfatù l> (Ed. 1912, Voi. III, pag. 479). Forse il Soranzo, esaltando una sup– posta politica di sviscerato amore per l'Italia dei Borgia venuti dalla Catalo– gna, ha voluto distogliere lo sguardo degli uomini dalle brutture inaudite del pontificato di Alessandro VI. Ma la Chiesa, ammonì Leone XIII, non sa che farsene delle menzogne con cui si ri– costruisce la Storia a piacimento; e i veri Cristiani non possono dare che una importanza minima al Papa poliùco, al Papa arùsta, al Papa militare, al Papa comunque profano, perché il Papa è es– senzialmente il Pastore del gregge che Cristo gli ha affidato. Il Soranzo dice finalmente una gran– de verità quando ammette senza riserve che la reale ragione per cui Alessandro VI osteggiava Savonarola, era che que– sti non aderiva alla sua politica; e che tutte le assoluzioni sarebbero state con– cesse, se Savonarola si fosse schierato con il fronte borgiano. Ma la grandezza di Savonarola sta proprio in questo, che contro il neopa– ganesimo e il più terribile tra i ùranni della Rinascenza - Cesare Borgia - egli elevò forte e sonora la parola della Verità di Cristo e quindi della Libertà, evangelizzando i poveri e aprendo oriz– zonù nuovi al governo del popolo, su cui si erge maestosa e divina la sovra– nità di Gesù Cristo Re. P. GIACINTO SCALTRITI o. P· Lo STATO bi liotecaginobianco Una mostra di Orfeo Tamburri Un pittore che piacque a Curzio Ma– laparte: « egli è conterraneo dei grandi architetti del Rinascimento, i suoi di– segni sembrano liberamente vivere en– tro il contorno invisibile di una cupola del Bramante o del Sangallo, dentro quell'immenso spazio a volta, in forma di cielo, pieno della luce limpida e fer– ma dell'aria sottile e chiara che è la luce di Urbino, di Recanati, l'aria degli alti poggi di Camerino e di Jesi >. Sulle quaranta tele, fra le più impe– gnate che Tamburri espone alla geno– vese « Rotta », vi è la ricerca assidua di una fedeltà a questa lode, gelosa ed esigente. Fedeltà, come superamento dei temi che incombono grigiamente sulla pittura degli anni tristi, nelle divaga– zioni sopra un tema di Helzapopping metafisico e triste che compongono il concerto notturno di un'arte prigioniera e succuba del proprio concetto negaùvo. Ora è del vizio assurdo di vedere ad ogni costo l'uomo intriso di cosalità, (onde la desolante bruttezza di esseri bluastri e spigolosi come ombre di ce– mento) è di questa distorsione del mon– do che occorre che l'arte sia liberata. Esiste infatti una bruttezza e in questo senso è inutile batter le vie della robusta leziosaggine, "daghe e bavarole a fisar– monica (per intenderci) sopra velluù scarlatù, oppure cavalli fuggenti sullo assurdo dei ritomi barocchi. Tamburri non ha gondole per cullare il cattivo gusto dei neo--barocchisti. Orfeo Tamburri guarda alle foreste pietrificate, agli alveari che sembrano tombe di poesia e di uomini. E vi trova il momento lirico, ecco la validità del pittore. Momento lirico che non è la facile rettorica di chi vuol sempre urlare il suo no!, a tutta la vita. Bisogna andar oltre la veduta defor– mata e scorretta di presenze oscene, sen– za riscatto. Motivo che Tamburri risol– ve nel soggetto e nel sentimento, resi colla serietà cromatica di chi, per veder grande non ha bisogno di evadere dal nostro tempo. Dobbiamo dunque gratitudine a Tamburri per l'emozione che ci ha dato di un'esperienza riuscita e più per la ricerca che segna un oltre (un oltre in un campo immediato e quindi impor– tante come la pittura) le ripetizioni mo– notone della disperazione e dell'urlo. Grati, perché non ha contrapposto la falsità dei concetti gran.di solo alla con– sueta miseria, ma fatto zampillare da quella che una consuetudine oziosa e vile vuol fonte disperata, una piccola epperò umana vivezza di nitore e di speranze. g. b. f. 31
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