ManéLamericanéEljardindelEdénsonoquesto.NéAmelio né Novaro infatti hanno scelto la strada del film-inchiesta, del cinema-verità o, tanto meno, del neorealismo alla Rossellini o dell'ipernaturalismo alla Bufiuel degli anni messicani. Nessuno dei due ha avuto paura della fiction pura e nessuno dei due ha raccontato di cammini della speranza. Lamerica è, soprattutto, un film di fantascienza. El Jardin una favola e un apologo. La Storia, luogo del reale per eccellenza, è in entrambi inghiottita dal mito, che impone la sua distorta geometria temporale tanto alle labirintiche peregrinazioni (verso il futuro o verso il pa~sato?) del Gino di Enrico Lo Verso e del mirabile vecchio bambino di Carmelo Di Mazzarelli, quanto alla fulminante andata e ritorno inCalifornia del campesino diNovaro. E cancella, altera, rende irriconoscibili geografie e luoghi, trasformandoli inpaesaggi da incubo o in paradisiaci territori onirici. In conferenza-stampa, a Venezia, ha avuto un bell'insistere Amelio a sottolineare che il suo non è un film sul problema dell'emigrazione clandestina, che è piuttosto un saldo autobiografico, e pertanto del tutto fuori dallo schema realistico, con il suo passato familiare, con una figura paterna smarrita nei percorsi della grande emigrazione verso le Americhe. E che, per quanto riguarda l'oggi e le questioni che premono sul futuro del pianeta, il suo film non intende essere un pamphlet militante e nemmeno una descrizione oggettiva dello stato, atroce ma sanabile, delle cose. Troppo tardi-questo il senso delle sue, non so se fraintese o inascoltate, parole - per pensare a una rimediabilità o reversibilità dei fenomeni sociali e culturali in atto. Perché l'homo sapiens di fine millennio è un orrendo mutante, comandato e omologato a distanza, al di là di ogni distinzione di classe, tradizione culturale, lingua, a seguire impulsi tanto bassi e feroci quanto artificiali e non certo dettati dal solo bisogno. Al posto del cuore e della memoria, della coscienza di far parte di un qualche tipo di insieme, gruppo, famiglia, unito da vincoli affettivi e da ideali e valori condivisi, l'uomo contemporaneo ha messo il calcolo individuale, il cinismo, un'inclinazione inequivocabile al cannibalismo e una sbalorditiva mancanza d'immaginazione. C'è posto, narrativamente parlando, per questo apocalittico scenario da dopo catastrofe, se non nel genere fantascientifico, dove tutto può avvenire tra i detriti di un passato che si è definitivamente degradato, corrotto, disumanizzato? Se non in Biade Runner, in Stalker, in 1997fuga da New York? Evidentemente no ed è una chiave importante per capire, amare e fare buon uso dell'opera di Amelio. Solo leggendola da questa prospettiva infatti non risultano eccessivi, improbabili o grotteschi - e quindi rimuovibili - i mostri che popolano lo schermo di Lamerica, i suoi berlusconiani albanesi post- televisivi, i suoi polverosi burocrati buoni per tutti i regimi, i suoi faccendieri italioti che puzzano di servilismo e arroganza, di ignoranza e qualunquismo, i suoi bambini ladri e assassini, zattera di zombi pronti a scannarsi tra loro, di sopravvissuti privi di memoria collettiva e di identità personale ("nessun albanese possiede passaporto") e dunque liberi da un qualsivoglia patto sociale. A leggerla come un'opera neorealista Lamerica sarebbe solo un buon film, molto commovente e insieme molto schematico, troppo in bianco e nero, poco plausibile, attraversato da un pessimismo così radicale da mancare le infinite sfaccettature e contraddittorietà del reale anche più desolato. Ma la fantascienza sfugge per definizione allo schematismo, perché è legittimata a parlare solo al nero, a fare della terrninalità il suo terreno di Sopra: EnricoLoVersoe Carmelodi Mazzarelli in !omerica; sotto:Gianni Ameliosulset. manovra. Se il mondo è finito - e nel film di Amelio il mondo è finito, visto che finite sono umanità, compassione, amore, solidaiietà, capacità di progettazione non mirata all'utile privato-, scomparsa è anche la possibilità di declinare il tempo al futuro e di ripensare il passato. Ma l'assoluto presente è il tempo claustrofobico dell'immobilità, dove anche l'apparente movimento (il camion carico di uomini perso nel deserto della montagna albanese, la nave stipata di corpi che dovrebbe portare in Italia e che invece sappiamo destinata a non arrivare mai, perché è impossibile arrivare in un luogo che non c'è) altro non è che azione congelata, priva di destinazione, di direzione. Ecco allora svelato e potentissimo il senso delle architetture in rovina dell'Albania di Amelio, dei suoi detritici paesaggi geografici e morali. "Lamerica" (non a caso questo bel titolo è uscito dalle pagine di La Storia di Elsa Morante) è solo nella memoria. Davanti c'è il vuoto. Ma achièsbarratalastradadelsogno,dell'immaginareilcambiamento, è preclusa anche la via del rimpianto o della nostalgia. Al posto della speranza odell'illusione c'è laperdita, tanto più irreversibile quanto più inconsapevole. Maria Novaro, una quarantaduenne di Città del Messico che si dichiara orgogliosamente "di sinistra, messicana e femminista" e che, saputi i risultati delle recenti elezioni politiche messicane, "ha passato la notte a piangere", ha al suo attivo una manciata di bei film. In Italia ne hanno distribuito uno solo, Danzan, del '91. A Venezia si è presentata con Eljardin del Edén, una coprodu-
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