sistema letterario sia dalla società) e pago del proprio legame con una sorta di antitradizione simbolista. Ma l'opposizione alla separatezza 'corporativa' della poesia deve accompagnarsi, secondo Berardinelli, alla critica delle cattive integrazioni, quelle di tipo avanguardistico. Dove però per "avanguardistico" si deve intendere soprattutto l'avanguardia organizzata in un movimento, sia esso il futurismo o il gruppo 63, il dadaismo ovvero il surrealismo, e così via: quelle esperienze che pretendono di alleviare il disagio della modernità attraverso la scorciatoia dell'affiliazione a un gruppo e a un programma rigidamente definiti. La grande originalità (almeno in prospettiva italiana) del pensiero di Berardinelli consiste anzi nell'aver valorizzato la fisionomia individualistica e asociale dell'esercizio poetico novecentesco, la condizione cioè di "rischio radicale" che contraddistingue i grandi autori - non solo poeti ovviamente - della modernità, condizione che viceversa è stata falsata dai roboanti e rassicuranti manifesti dei gruppi storici. L'avanguardismoantisimbolistae(percosìdire) 'problematico' difeso da Berardinelli si fonda su un progetto di contaminazione poesia-prosa, che non a caso fornisce il titolo al volume e che pertanto - almeno ali' apparenza - ne dovrebbe fornire il vero motivo unificante. Dopo e contro le assolutezze del simbolismo e dell'avanguardismo di gruppo, agisce entro lamodernità un filone (o meglio un insieme di filoni) che viceversa scommette sulla relativizzazione dei linguaggi, sulla loro assidua ibridazione e contaminazione, e che nel dominio particolare della lirica mira a sovrapporre e quasi a fondere e confondere poesia e prosa. Whitrnan e Auden, il Baudelaire delle "poesie in prosa" e Ponge, MachadoeBrecht, Saba e Penna, giù giù fino ai Pasolini eMontale giunti alla conclusione della loro parabola poetica: esiste nella modernità novecentesca un filo rosso impuro e desublimante, che non teme il confronto con la parola non solo prosastica ma proprio prosaica e parlata, con il linguaggio della conversazione di tutti i giorni. Sono discorsi che non si possono non condividere, e che negli ultimi vent'anni circa sono stati sviluppati da più parti. Berardinelli ha certo il vantaggio, rispetto ad altri critici italiani, di poter esemplificare i propri discorsi con una maggiore varietà di riferimenti ad autori internazionali (anche se, in chiave italiana, si occupa troppo poco dei dialettali: e la quasi totale assenza di riferimenti, poniamo, aTessaeNoventadispiacedavvero un po'). E inoltre possiede una sensibilità in senso lato 'politica' che lo tiene costantemente lontano da ogni ideologia apologetica, e anzi lo spinge a simpatizzare con tutto ciò che è negazione, erosione e coscienza infelice. ''La poesia era per me una forma culturale antisocialeo a-sociale, l'espressione di unamisantropiadel linguaggio" (p. 200); tanto che per lui la massima ostilità nei confronti dei teorici della neoavanguardia e della fenomenologia deriva dalla loro "tendenza a separare la teoria estetica dalla teoria sociale" (ivi), quando non a subordinare la seconda alla prima. E insomma Berardinelli è sempre, anche nei momenti di apparente maggior distacco, arrabbiato e polemico quel tanto che basta per farti solidarizzare persino con leopinioni letterarieper temeno plausibili o meno razionalmente argomentate. I dubbi più cospicui, per quanto mi riguarda, si legano proprio al nesso poesia-prosa, che a mio avviso non sempre è discusso in modo convincente. Laprincipale perplessità l'ho espostaall' inizio, e riguarda la tendenza a nominalizzare la poesia, a leggere come virtualmente liriche anche esperienze a tutti gli effetti prosastiche. Il fatto è che - e si tratta da parte di Berardinelli di una dimenticanza ben curiosa-l'immagine forse più 'ufficiale' della poesia simbolista, in relazione proprio all'opera di Mallarmé, è stata fornita dal genere del "poème en prose" (se non ne siete convinti, rileggetevi che cosa ne pensava Des Esseintes). E non dimentichiamoci che anche D'Annunzio aveva definito "poema" un bruttissimo romanzo come Le vergini delle rocce. Il gesto imperioso che induce a leggere come poetico ("poème") ciò che appunto, formalmente, è solo "prose" ha cioè alle spalle una tradizione orfico-decadente che le avanguardie storiche (Marinetti in testa) non hanno mai rinnegato. Non tutte le prose sono egualmente 'prosastiche', così come non tutti i versi possono essere detti 'lirici'. Elevare la prosa al rango di poesia non è la stessa cosa che abbassare la seconda al livello della prima; e la politicizzazione del discorso sulla letteratura andrebbe forse tenuta ben distinta dall' estetizzazione della critica. Che poi, leggendo la prosa di Berardinelli, molti lettori (fra cui chi scrive) compiano quest'ultimo gradevolissimo 'errore', testimoniacerto della perizia del critico, dell'efficacia e della bontà del suometodo; ma è anche un fatto che non può non preoccupare, e non solo per le sorti della poesia. LANAVEDEIFOLLI EILGIARDINODELL'EDEN CINEMAA VENEZIA MariaNadotti Alla recente Mostra del Cinema di Venezia sono stati presentati due film che, da poli geografici opposti - le Americhe e il Vecchio continente - , paiono raccontare una medesima storia: l'assalto al Nord del mondo da parte di un Sud famelico e dilagante, disposto a pagare pur di sottrarsi ai perimetri stretti della miseria e dell'oppressione, pur di raggiungere i luoghi del benessere, dei consumi, di un lavoro retribuito, della libertà individuale. Si tratta di Lamerica di Gianni Amelio e di El jard{n del Edén di Maria Novaro. Un uomo e una donna. Italiano lui, messicana lei. Entrambi palesemente schierati dalla parte dei "poveri", entrambi esplicitamente indignati e desiderosi di piegare il mezzo cinematografico a strumento d'analisi, denuncia, impegno civile e politico. Si potrebbe, come ha fatto tanta stampa nazionale, dire che entrambe le pellicole raccontano le odissee più o meno colletti ve di chi oggi, alla fine di un decennio feroce, crede ancora nell'Eldorado, nella terra del sogno e del riscatto economico e sociale. Che si tratta di storie di normale se pur non classica emigrazione, dove coloro che lasciano il luogo d'origine hanno la determinazione e l'avidità di chi non ha nulla da perdere, mentre gli altri, gli "invasi" hanno la protervia di chi difende un privilegio considerato naturale e l'ambiguità di chi sa calcolare gli eventuali benefici di un travaso gratuito di nuovi schiavi dai luoghi della fame a quelli dello spreco.
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