Linea d'ombra - anno XII - n. 97 - ottobre 1994

e della critica. "Quanto meno poesia e narrativa si scrivevano, tanto più grandiose, suggestive, pervasive e internazionalmente influenti diventavano la critica e la teoria letteraria" (p. 14). Un maiuscolo e tronfio Linguaggio Poetico si è trasformato prima in un'inverificabile idea, e poi- e peggio- in una vera e propria ideologia, in una mezza bugia detta 'teorica', che copre un vuoto di pratica e di coinvolgimento sociali. E non c'è forse bisogno di essere degli addetti ai lavori per aver avuto esperienza di certe analisi testuali (presenti persino nei manuali scolastici), che prendono inesame uncomponimento poetico magari chiarissimo, e - nello sciagurato tentativo di disvelarne il più intimo funzjonamento - sanno abilmente imbruttirlo e sfigurarlo: ottenendo insomma il poco invidiabile risultato di introdurre oscurità e mistero e complicazione là dove tutti credevamo di vedere limpidezza e trasparenza. Sono i paradossi della lirica moderna, si dirà; e in effetti da quando è stato possibile che un poeta - è il caso come è noto di Mallarmé - dovesse la propria fama più al progetto della sua poesia che non alla circolazione e quindi effettiva conoscenza della stessa, è probabile che certe anomalie vadano messe in conto e debbano essere tollerate, in quanto perversioni 'storicamente determinate'. Quanti lettori e analisti hanno saputo davvero sfuggire a certi arbitri formalistici, a certe ideologizzazioni indebite? Non molti; e chi scrive non è fra questi. Berardinelli èperò anche in grado di indicarci qualche percorso alternativo, qualche via di fuga rispetto aquesti paradossi. Il primo e secondo me più suggestivo antidoto ermeneutico è quello che si realizza appunto nelle sue letture di poeti edi poesie: dove si assiste a una sorta di "argomentazione" o magari anche solo "narrazione" dell'oggetto lirico esaminato. È come se, in maniera lievemente provocatoria, e contraddicendo proprio i postulati di asemanticità relativi alla lirica moderna, Berardinelli si sforzasse di svolgere razionalmente quanto nelle opere è contenuto in forma introversa e involuta, in qualche modo irrazionale. Viene così inverata un'osservazione teorica di Adorno, che - nel suo Discorso su lirica e società, un testo peraltro spesso citato da Berardinelli - afferma che nella poesia "i concetti non si esauriscono nella semplice intuizione", poiché "per poter venir intuìte esteticamente, le opere vogliono anche sempre essere pensate". Osservazione che - evidentemente - non solo distrugge ogni imperativo di tipo crociano o heideggeriano, ma mette il critico di poesia di fronte a una pesantissima responsabilità, quella di inserire le proprie parole nel quadro più ampio dei discorsi che dicono le cose della società e della storia. Tanto più che, ci ricorda sempre Adorno, il "pensiero" che nell'opera si manifesta "una volta messo in gioco dalla poesia non si lascia fermare a comando da questa"; il suo peso specifico di senso rinvia a un senso più generale che lo condiziona e sovradetermina, e che l'opera solo in parte è in grado di contenere, e soprattutto di padroneggiare. Attraverso l'intervento del critico, il testo deve poter sprigionare in modo discorsivo le sue virtualità semantiche, la sua verità sul mondo, il sistema di significati mediatamente sociali che lo attraversa e lo fonda. E nella critica di Berardinelli questo procedimento conduce a risultati molto convincenti. Il piccolo capolavoro che mi sentirei di consigliare a qualsiasi lettore (anche perché il discorso sulla poesia si accompagna alla materiale esibizione, all'antologizzazione, di testi poetici esemplari) è il saggio Città visibili nella poesia moderna: dove è raccontato e insieme argomentato il conflitto poesia-città, combattuto per quasi un Foto di Giovonni Giovannetti. secolo, e destinato ovviamente a condurre alla sconfitta· della poesia, alla sua subordinazione depressiva e quindi alla compiuta conciliazione di duemondi a lungo rimasti ostili.Ma assolutamente centrale è anche il saggio di 'italianistica' più impegnativo del volume, cioè Quando nascono ipoeti moderni in Italia, uno scritto dall'andamento quasi sussultorio, dove unnotevolissimo impegno di polemismo saggistico si applica a terni di importanza ormai storica,e inqualche misura 'accademici'. Qui,dopo una quindicina di pagine di "lavorio" inteso a "sgombrare il campo" (p. 104) da poeti e poetiche della modernità italiana, sono proposti tre liriche e tre autori-Saba, Sbarbaro, Rebora-esemplari di quell'idea di poesia novecentesca per Berardinelli fondamentale. Una poesia, dunque, che "ha qualche cosa di innocente e di violento", che "a volte nasce da una disarmata, desolata impudicizia. Sembra vestire panni di umile decenza quotidiana: per mascherare appena la forza dello shock, lo svelamento di una realtà indecente: qualcosa che comunemente non si dice o non si dovrebbe dire, anche se è del tutto comune e noto" (pp. 104-5). Una liricaantilirica, in altri termini: o meglio una lirica che ha saputo andare contro l'idea di poesia moderna più spesso divulgata dai critici e dai teorici maggiormente acclamati in Italia e nel mondo occidentale. È in effetti questo il vero nucleo concettuale del libro di Berardinelli. L'idolo polemico più evidente, anche perché più spesso ricordato, è il saggio di Hugo Friedrich, La struttura della liricamoderna, checercavadicogliereappuntoun'unicainvariante strutturale al di sotto delle multiformi voci avvicendatesi nella poesia europea e americana da Baudelaire alla metà del nostro secolo, e la individuava in una profonda fedeltà al messaggio teorico e pratico di Mallarmé. E Berardinelli ha davvero buon gioco a mostrare i limiti clamorosi d'una simile interpretazione: che, a non dird' altro, finisce per restituire un'immagine pacificata della poesia, inquanto corpo felicemente separato (sia dal restodel

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