Linea d'ombra - anno XII - n. 97 - ottobre 1994

!- VEDERE,LEGGERE,ASCOLTARE 47 illimitata e del progresso illimitato, l'idolatria del futuro, docile alle nostre fantasticherie perché irreale (contrariamente al passato, che è reale perché non possiamo cambiarlo, il futuro è un fantasma che ubbidisce ai nostri progetti e desideri). La sola via d'uscita sarebbe per la Weil l'incarnazione del Cristianesimo nella nostra vita sociale profana. Si tratterebbe di diffondere socialmente quell'esperienza del sacro che libera la persona dall'idolatria della propria maschera. Si tratterebbe cioè di rovesciare venti secoli di storia occidentale. Considerato nell'arco che va dalle sue premesse alle sue proposte, il pensiero di Simone Weil ha certo qualcosa (purtroppo) di eroico e di titanico. O forse dovremmo trovare altri termini per definire la sua convinzione che niente di normale sarà più possibile in Europa, niente di vero, reale e giusto, senza esperienza individuale e quotidiana del sacro: di ciò che non cede alla forza, non è accessibile al suo contagio, non simescola col male e resiste, nella "chiarezza", a "qualsiasi pena". Prendo queste ultime parole da una frase che si trova proprio all'inizio della lettera e che mi sembra molto significativa. Si tratta di una di quella affermazioni di carattere generale, di tono lapidario e aforistico, che rendono ogni testo della Weil moralmente e intellettualmente appassionante, una sfida radicale alla pigrizia del pensiero, sfida che, in ogni testo, va al di là del tema specifico di volta in volta trattato. L'affermazione è: "Nella chiarezza qualsiasi pena è accettabile". Di che chiarezza si tratta? L'affermazione, per essere vera e non solo provocatoria e spavalda, ci costringe a fermarci proprio sul senso del termine "chiarezza". Perché è certo che l'esperienza comune ci mostra piuttosto che, nella maggioranza dei casi, questo non avviene, e si preferisce il sollievo delle tenebre, il riparo del non-sapere alla sofferenza e alla pena della chiarezza. Questa chiarezza non può essere intesa come una chiarezza, diciamo così, riduttivamente cartesiana o puramente intellettualistica. Deve avere a che fare con lo splendore e l'illuminazione, con una trasformazione dell'insieme delle nostre esperienze, e più precisamente con tutto il nostro modo di fare esperienza mentale, di concepire il bene e il male, di percepire intellettualmente il dolore. Salto ora una serie di passaggi, che sarebbero necessari, attraverso molti altri testi di Simone Weil. Ma credo che non sarebbe affatto difficile, rileggendo molti dei suoi scritti seguendo questo filo, dimostrare che l'esigenza di spiritualità, la centralità e l'urgenza dell'esperienza religiosa, della certezza e chiarezza mistica (cioè la certezza della presenza reale del "sacro", dell' intangibile e dell'indistruttibile in noi, al di là della maschera della "persona") - tutto questo nasceva in Simone Weil dalla sua esperienza degli eventi politici dell'epoca. Nasceva dalla convinzione che fosse impossibile resistere anzitutto mentalmente, e poi praticamente, politicamente, alla pressione della forza e dell'inerzia che regolano la macchina sociale, senza aprire nella mente umana moderna di nuovo lo spazio dell'esperienza trascendentale. Probabilmente la Weil si rendeva conto, nei decenni cruciali della storia autodistruttiva dell'Europa, fra le due guerre, che la stessa idea di mente ereditata da Cartesio e da Kant (autori a lei cari) era un'idea che non riusciva più a stare in piedi per virtù propria (certezza razionale, forme a priori) senza il sostegno dell'esperienza del sacro. Lo stesso pensare "in spirito di verità", che nei suoi scritti è sempre richiamato, doveva ormai risultare impossibile, perfino concettualmente incomprensibile, senza una riattivazione mistica della mente. Rendere le verità morali e spirituali razionalmente evidenti come quelle matematiche sarebbe stato possibile solo ancorando la mente trascendentale kantiana e il "cogito" cartesiano nell'esperienza del sacro (della realtà-verità non soggettiva) che è in ogni individuo. Il Cristianesimo della Weil era soprattutto, mi sembra, un rifiuto dell'ateismo laico borghese e delle filosofie morali, sociali e politiche che da questo sono nate (dal liberalismo al marxismo). La sua religiosità era un modo per rendere di nuovo reali, cioè vissute e non puramente intellettualistiche o ideologiche, forme di pensiero e di comportamento libero dell'individuo, sempre più avvilite, svuotate e schiacciate nelle società del ventesimo secolo: tanto nei totalitarismi che nelle democrazie di massa. Se è vero, come credo sia vero, che: "Ovunque c'è il disagio dell'intelligenza, c'è oppressione dell'individuo da parte del sociale, che tende a diventare totalitario". LETTERATUREAPOTERE ' ATTUALITDAELCASODREYFUS VincenzaConsolo Questo testo è stato scritto il 27 febbraio 1979 come introduzione al saggio di Christophe Charle Letteratura e potere, pubblicato da Selleria. "Dietro lemie azioni non si nascondono né ambizione politica, né passione di settario. Sono uno scrittore libero, che ha dedicato la vita al lavoro, che domani rientrerà nei ran~hi e riprenderà la propria opera interrotta ... E per i miei quarant'anni di lavoro, per l'autorità che la mia opera ha potuto darmi, giuro che Dreyfus è innocente ... Sono uno scrittore libero che ha un solo amore al mondo, quello per la verità ...". Così Emile Zola, nelle lettere-interventi pubblicati su "Le Figaro" e su "L' Aurore" dal 25 novembre 1897 al 22 dicembre 1900, in tutto tredici, raccolti idealmente e poi materialmente sotto quel titolo, J'accuse, scelto da Clemenceau per la pubblicazione della Lettera al signor Félix Faure, presidente della Repubblica, la più famosa, la più appassionata e calcolatamente esplosiva, quella che gli costerà la condanna a un anno di carcere e a tremila franchi di ammenda, undici mesi di esilio in Inghilterra (oltre alla sospensione dalla Legion d'Onore, e agli insulti, le aggressioni, il linciaggio). Lettere-interventi in cui lo scrittore abdica, per così dire, alla sua condizione di letterato per divenire intellettuale, "politico", e per cui adotta un altro tipo di scrittura. "Nel momento in cui l'intellettuale si sostituisce allo scrittore,... nasce una scrittura militante interamente liberata dallo stile e che è come un linguaggio professionale della 'presenza"' - scrive Roland Barthes. Liberatosi dunque dal suo stile (e non intendiamo, noi, con questo, unmero fatto formale, mal' organizzazione di elementi - struttura, situazione, personaggi - ai fini del romanzo. Zola, poi, come Stendhal, Flaubert, Balzac, Proust, non ha fatto che raccontare la società francese del suo tempo, e in uno stile realistico, anzi, secondo la sua invenzione, nella obiettività del

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